La vita che non è tua. Un viaggio in Birmania
I ricordi del tuo viaggio iniziano con il viso di un ragazzo. Ha dodici anni, gli occhi dolci e l’aria furba e un po’ aggressiva di chi è abituato a vivere per strada. Sei a Bagan vecchia, città di templi nel cuore della Birmania, e la tua mongolfiera si è appena posata su una distesa di campi riarsi, che si estendono a perdita d’occhio per chilometri. Il pilota inglese è al centro di un cerchio di sedie di bambù che delimita lo spazio simbolico che la gente locale non può attraversare. Il giro di un’ora in mongolfiera ti è costato molto, 250 dollari, e lo champagne di cattiva qualità con cui sei accolto all’atterraggio dovrebbe farti sentire un po’ del lusso occidentale per cui hai sborsato questa cifra oscena.
I turisti si accalcano attorno alla bottiglia e addentano cornetti incredibilmente trasportati fino a queste latitudini. Ti senti in colpa per tutto questo: ti ripeti che c’è una differenza sostanziale tra te e loro, francesi e tedeschi che bevono champagne e si tengono a distanza dai bambini seminudi che non possono varcare il cerchio della civiltà e del colonialismo. Ma non sei diverso da loro: pelle troppo sensibile, leggero sovrappeso, un sistema immunitario ridicolo e subito incline a cedere alla malattia portata da stoviglie lavate nell’acqua di fiume. I bambini sono ovunque e vendono di tutto: stoffe, cartoline, lacche, addirittura disegni infantili di una mongolfiera uguale la tua. Ti avvicini incuriosito e già propenso a commuoverti per l’ennesima volta, quando ti accorgi che quelle sono fotocopie colorate chissà dove e di quei disegni infantili di mongolfiere ne troverai continuamente sul tuo percorso. Però tra tutti i ragazzini, quello con le cartoline uguale a tutte le altre ti colpisce: è da un po’ che ti corteggia, ti sorride furbo e ti chiama col suo hello, ripetuto come una preziosa litania. Gli chiedi il prezzo e sai già che comprerai le cartoline: 3000 kyats, 3 dollari per una striscia di dieci cartoline lucide e colorate. Gli dai 5000 kyats e lui ti lascia le cartoline e corre a perdifiato nel sole del mattino. Quante immagini hai visto simili a questa? Quanti film sull’India e il Brasile ti dicono che non rivedrai più il resto dei soldi e già pensi, perché non puoi fare altro, che quei 2000 kyats in più gli faranno comodo e che alla fine non hai idea della vita che è costretto a fare. Guardi le cartoline e poi di nuovo all’orizzonte: il bambino si è fermato a 300 metri dal cerchio, tira per la manica un adulto e gli mostra i soldi. Dopo una frazione di secondo riparte a perdifiato e viene verso di te. Stringe due banconote luride, grigie e quasi stinte. Arriva fiero con il tuo resto e te lo offre con un grande sorriso. Sorridi ma ti senti morire: tu non avresti mai fatto un gesto del genere, in quelle condizioni di vita saresti morto da molto e comunque duemila kyats a un turista straricco non li avresti mai restituiti.
In questo gesto di onestà rivivrò per sempre la Birmania, uno dei paesi più poveri del mondo: due volte più grande dell’Italia e incuneato tra India e Tailandia. Da Bangkok la Birmania sembra un sogno di isolamento e poesia. Non esistono città estese: arrivi a Mandalay da un aeroporto simile a un container, ti stupisci per le navette, che da lontano non sembrano nemmeno bus, ma strane lamiere che si muovono misteriosamente. Attraversi la dogana indisturbato: i militari ti guardano truci, tutti gli altri ti sorridono e si sforzano di capire le tue domande in inglese. Mandalay, Bagan, Yangon e, tra di loro, campagna che si trasforma in giungla e foresta. Ovunque templi buddisti e stupe, uno dei paesi in cui la religione è rimasta più vicina agli insegnamenti originari del Buddha. Qui non sanno chi sia il Dalai Lama, né Richard Gere o Roberto Baggio.
Il paese è nei fatti una dittatura. Scrivo così perché dal 2003 il governo dei generali ha lasciato il posto ad una democrazia-fantoccio in cui nulla è davvero libero: le case costano due volte il prezzo che si pagherebbe in Italia, per lasciare il paese è necessario un visto e i militari hanno la facoltà di arrestare e uccidere a propria discrezione. È strano vivere e respirare in un luogo in cui gli abitanti sono privati della propria libertà. Pensi a quante volte hai ripetuto che l’Italia, la Francia, gli Stati Uniti, non sono delle democrazie e ti senti ridicolo. Pensi ai racconti sul fascismo che credevi di capire, ma è chiaro che non potevi davvero capire nulla. Sentirsi ridicoli o stupidi o colpevoli è l’unica sensazione possibile: il mio corpo porta involontariamente i segni del progresso e della violenza invisibile esercitata sugli altri. Forse visitare posti del genere non è una buona idea: troppa sofferenza rispetto alla quale non puoi che dimostrare la curiosità grottesca di un sadico. Ma poi la tua guida te lo spiega, calma e paziente: è importante che i turisti arrivino. Dovete parlare di questo posto, nessuno lo conosce, il mondo deve sapere. E capisci che quello che fai per vivere tratta di questo: il potere di testimoniare, di parlare agli uomini degli uomini, di raggiungere il miracolo di farci diventare, anche solo per un attimo, l’Altro. Nessuna arte, come la letteratura, raggiunge questo miracolo. La letteratura non è fatta per essere contemplata, ma per diventare la tua pelle, la tua carne e il tuo sangue, per farti entrare nelle vite di uomini diversi e lontani da te.
In un attimo tutto quello per cui lavori e lotti ti sembra triviale, il saggio su Svevo, il libro di teoria letteraria, ma il principio fondamentale che ti muove assume proporzioni gigantesche: ha ragione la nostra guida (che preferisco non citare per nome), è necessario parlarne, è necessario che il mondo sappia, è l’unica cosa che mi rende un po’ meno colpevole.
Abbiamo visto intere famiglie vivere in baracche nella giungla, senza elettricità. L’acqua si raggiunge con ore di cammino ed è una pozzanghera di melma che tutta la famiglia beve direttamente, senza filtrarla. Bambini e giovani ovunque, ma nessun anziano, si capisce presto perché. Nessun ospedale, finché la guida ci mostra un capannone semi-deserto e capiamo che non riuscivamo a distinguerle l’ospedale dal resto della devastazione. Si potrebbe pensare che queste condizioni siano la base naturale di rivolte sanguinose, eppure i birmani vivono pacifici, accettano questa vita come espiazione per il male commesso in altre vite. Noi, gli occidentali, siamo i fortunati, coloro che si sono comportati bene in passato ed ora vivono la ‘vita comoda’. La finta democrazia che vige tuttora in Birmania ha una grande nemica, Aung San Suu Kyi, The Lady, da poco rilasciata dopo anni di prigionia e che spera di poter partecipare alle prossime elezioni, che si terranno nel 2015, nessuno sa quando esattamente. Il governo sta cercando di capire come impedire alla Signora di prendere parte alle elezioni e poi, anche nel caso di una vittoria (vincerebbe con un consenso assoluto) c’è ancora l’esercito: questi volti scuri e accigliati che si muovono con pick-up o camionette e sembrano costantemente indaffarati a difendersi da tutto e tutti.
Proprio ora, nel momento in cui scrivo, una grossa manifestazione di studenti sta attraversando il paese: quando ho lasciato la Birmania erano in 20.000. Puntano alla città di Yangon, la vecchia capitale del paese, chiedendo elezioni libere. Attraversano i villaggi e le loro fila si ingrossano: la gente non gli offre molto sostegno, è troppo impegnata a cercare di sopravvivere, ma il cibo e acqua gli sono assicurati. Mi ricordo di un passaggio di The Road in cui padre e figlio si ritrovano in una biblioteca bruciata: il padre la osserva solo per un attimo, non pensa di salvare nessun libro lasciato a marcire e impreca contro le menzogne che sono accumulate in quelle pagine. È così per i birmani: la rivoluzione si fa quando la tua famiglia non dipende da te per sopravvivere. Senza acqua, senza luce e senza cibo devi lottare per tenerti in equilibrio: gli studenti lottano un’altra battaglia ed è difficile che diventi quella di tutta la gente. Oggi (4 febbraio 2015), però, il sito del Times of Myanmar non funziona per “problemi tecnici”. Nell’ultima comunicazione su Facebook, del 3 febbraio, si legge che il governo “non può più garantire l’incolumità degli studenti”. E poi più nulla.
Mi fermo nel mercato, rifiuto ancora l’ennesima offerta di un negoziante che vuole farmi assaggiare la sua frutta: non posso toccarla con il mio corpo morbido e colpevole.
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