Costruire l’identità attraverso l’altro: recensione a “Lo straniero di carta”
Condizionare attraverso i libri per l’infanzia
Nell’Enciclopedia de’ fanciulli, pubblicata nel 1819 da Giovanni Battista Rampoldi, si legge: «D: Quali sono i costumi degli Africani? R: In Egitto oziosi, vili, perfidi e vendicativi; in Etiopia e nella Cafreria pastori e selvaggi; in Guinea feroci, quantunque l’ospitalità sia una virtù pubblica; nella Barberia sono degni del nome che portano e molto proclivi alla rapina, al brigantaggio ed alla pirateria; in generale non hanno altri principi che quelli d’uno oziosa morale e di una vile ferocia». (Enciclopedia de’ fanciulli o sia Idee generali delle cose nelle quali i fanciulli devono essere ammaestrati, 2 voll., Giovanni Silvestri, Milano 1819, pp. 139-140).
Frasi intrise di stereotipi e xenofobia, ma solo un esempio di quelle analizzate nel volume di Alessandra Anichini e Pamela Giorgi, Lo straniero di carta. Educare all’identità tra Otto e Novecento, edito da Tab nel 2020. Il saggio è frutto della ricerca che le due studiose hanno condotto sul Fondo Librario Antiquario di Letteratura giovanile dell’Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa), oggetto di recente riordino, studio e valorizzazione; le due ricercatrici hanno indagato, nello specifico, la rappresentazione dello straniero in quelle pagine di carta che contenevano racconti, novelle e libri di testo destinati alla gioventù nel periodo che va dal 1836 al 1938.
Si tratta di due date nodali da una parte per lo sviluppo della letteratura per l’infanzia e, dall’altra, per la storia nazionale: nel 1836 esce infatti il Giannetto di Luigi Parravicini, il prototipo del libro educativo e, ovviamente, nel 1938 vengono promulgate le leggi razziali, che allineano l’Italia alla legislazione razzista in vigore nella Germania di Hitler.
Le leggi razziali del 1938 vengono identificate come una cesura nella storia italiana; all’epoca gli Ebrei rappresentavano una piccola minoranza del Paese, poco più dello 0,1%, ed erano profondamente integrati nella società e nella cultura italiana. Dopo la lettura de Lo straniero di carta si può comprendere però come quella pagina buia della storia nazionale sia stata in realtà preceduta (per non dire preparata) da decenni di condizionamento più o meno esplicito delle nuove generazioni: i libri di scuola e per l’infanzia furono un elemento chiave per diffondere un linguaggio comune, ma principalmente per costruire una nazione che ancora non c’era, per identificarsi anche (o, forse, soprattutto) escludendo il diverso, l’altro da sé. «Gl’italiani “si devono fare”: per questo [c’era] bisogno di scuola, di formazione, di una cultura che si diffonda e metta radici» (E. Anichini, P. Giorgi, Lo straniero di carta, Tab Edizioni, Roma 2020, p. 31).
Vocabolari e fisiognomica
Nel primo capitolo, intitolato Italia come patria,le autrici si soffermano sui vocabolari di fine Ottocento in cui spesso la voce “straniero” è, significativamente, più dettagliata di altre: il dizionario redatto da Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini, uscito in volumi tra il 1861 e il 1874, presenta, tra le definizioni di “straniero”, «“contrario, ripugnante”, “non appropriato, disdicevole”, in un crescendo peggiorativo che evidenzia tutta la potenziale negatività della parola» (E. Anichini, P. Giorgi, op. cit., p. 20). Nel Dizionario di cognizioni utili di Nicomede Bianchi, edito tra il 1863 e il 1865, la voce Razze umane raffigura i rappresentanti dal «tipo caucasico» a quello «africano» ritratti di profilo per mostrare dei soggetti inconsueti, strani, inusuali, quindi da temere. Lo straniero, sia esso africano o asiatico, è sempre descritto e rappresentato iconograficamente, come mostra Irene Zoppi nell’appendice al libro, con dei connotati tra il buffo e il ripugnante.
Il già citato Giannetto di Parravicini, volume molto diffuso nelle scuole, nell’edizione del 1887 presente nel Fondo Librario Antiquario di Letteratura giovanile dell’Indire, include nel capitoletto 3 le Varietà principali della specie umana in una narrazione «atta a comunicare al giovane lettore l’esistenza di una chiara gerarchia di “civiltà” tra le diverse popolazioni» (E. Anichini, P. Giorgi, op. cit., p. 153). Dagli stereotipi razziali, dalla xenofobia, dall’istituzione di una gerarchia tra popolazioni, si passerà, a fine Ottocento, alle imprese coloniali, con i correlati stermini di popolazioni locali. Nei testi per ragazzi «la figura dello straniero / colonizzatore civile viene progressivamente sostituita, negli anni Trenta, da quella del militare» (E. Anichini, P. Giorgi, op. cit. p. 116); se il colonialismo italiano ha «lo stesso volto di tutti i colonialismi: genocidi […], sfruttamento di territori e di forza lavoro […], giustificare queste infauste imprese è compito anche dell’educazione» (Ivi, p. 118).
Dai libri per l’infanzia alle riviste fasciste
In un climax che ci ricorda le celebri parole di Primo Levi nella Prefazione di Se questo è un uomo, «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”» (P. Levi, Se questo è un uomo, Ed. commentata a cura di A. Cavaglion, Einaudi, Torino 2012, p. 3), cinquant’anni dopo il Giannetto del 1887, riviste come «La difesa della razza» (si veda in particolare il primo numero del 5 agosto 1938) rappresenteranno in copertina africani ed ebrei con i classici stereotipi del labbro pronunciato e della barbetta, con una ripresa evidente delle illustrazioni presenti nei libri per l’infanzia del secondo Ottocento. Si veda, ancora, a titolo di esempio, la fisionomia dell’ebreo nella rivista razzista «Il Giornalissimo», del 2 ottobre 1938: come illustra bene Vittorio Caporrella nel suo articolo Le Leggi razziali e le immagini della propaganda. Percorso didattico iconografico, «Storicamente», 4 (2008), n. 13, «Il “gioco” fornisce una dimensione ludica al comportamento razzista, affiancando – come viene dichiarato dalla didascalia – il “dilettevole” all’“istruttivo”. Il foglietto poteva inoltre essere portato con sé e mostrato ad amici, parenti e conoscenti. […] Particolare enfasi viene dedicata all’idea che l’ebreo si nasconda fra la popolazione. Frasi come “l’ebreo c’è ma non si vede”, “dietro queste figure si nasconde l’ebreo”, “trovare il giudeo” o “salterà fuori la tipica faccia del giudeo”, instillano la convinzione di un elemento estraneo alla società che tenta di confondersi occultando la sua “irriducibile” diversità. Il lettore è invece invitato a scovarla imparando a distinguere l’”altro da sé”: l’ebreo additato come il nemico interno».
Come non rilevare però una straordinaria consonanza tra le illustrazioni che nei libri per l’infanzia rappresentavano i popoli stranieri e la propaganda fascista? Se nel secondo Ottocento l’obiettivo era quello di costruire un’identità nazionale, soprattutto nel confronto con l’altro, con l’inizio della politica razziale si mira a produrre un “nemico interno”, attraverso la rappresentazione dell’ebreo che congiura di nascosto e, inoltre, con la condanna e proibizione delle unioni tra bianchi e neri nelle colonie africane.
Rappresentazioni di italiani all’estero
D’altra parte, se nel periodo 1836-1938 lo straniero veniva presentato come goffo, buffo e repellente, lo stesso accadeva alla cospicua percentuale di italiani che tentavano fortuna all’estero; si conta infatti che «tra il 1876 e il 1976 circa venticinque milioni di italiani abbiano lasciato il proprio paese verso altri Stati e altri continenti» (E. Anichini, P. Giorgi, op. cit., p. 95); la creazione di un “surrogato” di patria li porta a riunirsi in quartieri, occupando aree metropolitane poco frequentate, affrontando quei pregiudizi ben illustrati nel bestseller di Gian Antonio Stella, L’orda. Quando gli Albanesi eravamo noi, edito da Rizzoli nel 2002 e successivamente ristampato e ampliato. Se si naviga nel sito web dedicato all’opera, nella sezione vignette, si può notare come, in una sorta di contrappasso dantesco, gli italiani vengano rappresentati sui quotidiani americani con i medesimi stereotipi affibbiati agli stranieri nei libri per l’infanzia pubblicati in Italia. I fanciulli nelle aule del Bel Paese dovevano essere istruiti nella diffidenza verso le professioni “di strada”, ma noi stessi all’estero venivamo etichettati come musicanti, lustrascarpe e mendicanti, come ci mostra efficacemente questa vignetta.
«Fudge», 27 agosto 1904
Dalla creazione del mito della patria agli italiani in terra d’altri
Lo straniero di carta si articola in tre capitoli, ognuno dedicato a svolgere un argomento del tema più generale.
Nel primo, Italia come patria ci si sofferma su come nei libri di scuola il tema della patria sia un filo rosso che attraversa molti testi. Questi volumi sono caratterizzati da un odio per i popoli d’oltralpe (francesi e austriaci), ostacolo all’unificazione e dalla necessità di vedere nella patria un collante tra un passato da recuperare e un futuro da costruire. In Cuore di De Amicis si esalta il patriottismo, l’orgoglio di appartenere alla nazione Italia, con riprese evidenti di testi della tradizione letteraria come il sesto canto del Purgatorio di Dante o la canzone All’Italia di Petrarca.
Anichini e Giorgi sottolineano però come queste frasi, ripetute in modo martellante nelle pagine destinate alle giovani generazioni, preparino il terreno fertile per la politica educativa del Fascismo, che escluderà ogni tipo di apertura culturale. Dalla necessità, legittima, di costruire un’idea di patria per un Paese che aveva vissuto secoli nella frammentazione politica, si passerà all’esaltazione della stirpe latina, della “razza italiana”, fino ad adottare il “Libro di testo unico”, orientato alla diffusione della cultura fascista e dei suoi valori.
Il secondo capitolo, Viaggi e viaggiatori, analizza come in queste pubblicazioni venga rappresentato chi giunge da lontano, in un trionfo di stereotipi («La China! Esclamò la signora balzando in piedi e giungendo le mani, la China! […] E non sapete dunque voi, incauti, che quello è un paese dove le mamme vendono i figliuoli per pochi soldi? (Baccini, I piccoli viaggiatori viaggio nella China: libro di lettura per le classi elementari, Felice Paggi Libraio Editore, Firenze 1878, p. 7). Si nota come lo straniero sia rappresentato come l’altro, il diverso, il non cristiano, il non europeo, ma soprattutto come semi-civile. È interessante inoltre rilevare che se nelle vicende storiche di inizio Novecento assistiamo al movimento delle suffragette, alle prime laureate, alle scrittrici e alle scienziate che occupano ruoli prima solo maschili, la produzione letteraria rivolta all’infanzia in Italia è stranamente miope di fronte a tali fenomeni e ci rappresenta donne legate alla stanzialità e alle radici, con la conseguente esaltazione di fanciulle perfette padrone di casa.
Un medesimo discredito caratterizza in queste pubblicazioni i girovaghi e i marginali. Se, come ha scritto Jean Starobinski nel saggio Ritratto dell’artista da saltimbanco, «scrittori e pittori dell’Ottocento [moltiplicano] le immagini del clown, del saltimbanco e della vita delle fiere, fino a farne un luogo comune», dal momento che il mondo del circo e della fiera, in una società in via di industrializzazione, rappresentava «una piccola isola colma di meraviglie dai colori cangianti, un pezzetto ancora intatto della terra d’infanzia, uno spazio entro il quale la spontaneità vitale, l’illusione, i prodigi semplici dell’abilità o della goffaggine fondevano insieme tutte le loro seduzioni offrendole allo spettatore stanco della monotonia dei doveri che la vita seria impone» (J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, trad. di Corrado Bologna, Editore Boringhieri, Torino 1984, pp. 37-38), in quegli stessi decenni nei libri per l’infanzia diviene automaticamente “straniero” chi rinunciava alla stanzialità, all’idea borghese di una “vita buona e auspicabile” per seguire la sua passione interiore di artisti girovaghi squattrinati.
ll non-senso, che il clown portava con sé, fino a diventare, come sottolinea Starobinski, «un mito […] nel campo della letteratura fra il 1830 ed il 1870» (Ivi, p. 39), aveva il valore di “messa in dubbio”, di sfida alla serietà delle certezze borghesi che venivano invece cementate nei libri per i giovani italiani: «se uno dei tratti della nuova cittadinanza post risorgimentale è l’appartenenza al mondo borghese o almeno l’agognare a essa, diviene automaticamente “straniero” chi fa rinuncia alla sicurezza, alla stanzialità […], per seguire l’imperativo della sua passione interiore e una compagnia di squattrinati artisti girovaghi» (E. Anichini, P. Giorgi, op. cit., p. 84). È la logica borghese del profitto l’unica ragione di vita ed era bene che i giovani la imparassero a casa e sui libri di scuola. Caratteristiche che noi individui del XXI secolo associamo solitamente all’infanzia, ovvero lo sguardo ingenuo, lo stupore e la meraviglia davanti alla realtà, sono invece esplicitamente condannate nelle pagine dei volumi analizzati dalle ricercatrici dell’Indire.
Nel terzo capitolo, Italiani in terra d’altri, l’attenzione è posta sul fenomeno migratorio: se da una parte per essere accolti gli italiani dovranno creare all’estero un surrogato di patria, replicandone usi e costumi, dall’altra straniero visto da lontano è spesso, per riprendere il titolo, ancora di carta, immaginario, stereotipato, ancorato a luoghi comuni: tra Ottocento e Novecento emerge un interesse per Paesi esotici, ma nei libri per la gioventù si conosce l’altro solo attraverso storie e rappresentazioni ai limiti dell’immaginario. Si crea, quindi, già in questi decenni una rappresentazione dello straniero come anormale, strano, in un’ottica tutta eurocentrica.
Chiude l’opera un’appendice iconografica a cura di Irene Zoppi che propone una selezione di immagini significative dai volumi del Fondo Antiquario di Letteratura giovanile; spesso si tratta di illustrazioni che l’editore aveva acquistato dall’estero; si chiedeva quindi a un autore di ispirarsi per creare un testo significativo. L’analisi di Zoppi mostra il forte legame tra testo e immagine: i medesimi temi della patria, della gerarchia tra popolazioni, dello straniero nelle declinazioni del mendicante, del saltimbanco, del cieco e dell’ubriaco affollano questi volumi. Sono personaggi e immagini da cui il giovane dovrà prendere le distanze nell’ottica di una morale borghese che ha come scopo il guadagno e la rispettabilità, oltre alla devozione alla patria.
Dall’esclusione all’inclusione?
Un lettore del XXI secolo può sorridere davanti a certi testi, ma al tempo era normale leggere di eschimesi dai lineamenti irregolari, così come la sottolineatura di una dicotomia tra «l’ordine, la misura, l’energia, l’attivismo, la lealtà» dei bianchi e, dall’altra «il caos, la pigrizia, la passività, la slealtà» dei neri (E. Anichini, P. Giorgi, op. cit., p. 131). Nelle Enciclopedie per ragazzi si evidenzia l’indiscutibile inferiorità delle popolazioni africane, mentre nel Dizionario filosofico si legge che «la negrezza è un’azione di malvagità, in cui entra la perfidia» (S.a., Dizionario filosofico ad uso della gioventù o sia Introduzione alla cognizione dell’uomo, Silvestri, Milano 1837, p. 199).
La nostra società mette al primo piano valori come il rispetto delle minoranze, la valorizzazione delle diversità, l’inclusione, ma il saggio di Anichini e Giorgi ci aiuta a vedere sotto una lente d’ingrandimento diversa periodi storici in cui proprio attraverso i libri per la scuola e la letteratura giovanile si creò un timore per il diverso e lo straniero, che aveva come sinonimo, d’altra parte, negli stessi vocabolari, l’aggettivo “disdicevole”.
Si tratta di concetti che hanno caratterizzato quel lungo secolo che va dal 1836 al 1938, ma le cui persistenze sono visibili anche oggi e affollano, spesso in modo strumentale, anche l’agone politico. Un motivo in più quindi per rivalutare e riscoprire una letteratura, quella per l’infanzia, spesso bollata come secondaria, ma che risulta fondamentale per scoprire lo sviluppo di stereotipi e i grandi processi culturali del passato.
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Trovo che il dichiarare il proprio orgoglio di essere… padani, italiani, tedeschi, americani ecc. ecc. sia una manifestazione di inguaribile idiozia, oltre che di inescusabile ignoranza. Eppure basta una semplice riflessione razionale per rendersi conto del fatto che non ha senso dichiararsi orgogliosi di qualcosa che non si è scelto e il cui verificarsi non è dipeso da noi. Ad un fatto del tutto contingente, il nascere in un determinato luogo, vengono attribuiti, per un verso, i caratteri di una realtà metafisica di ordine superiore e, per un altro verso, la natura propria di un oggetto di scelta personale (ma di quale scelta è possibile parlare, quando non esiste un’alternativa?). Il primo comportamento, ossia l’attribuire un carattere metafisico ad un fatto contingente, dà luogo, così, ad una proiezione paranoica di carattere mitologico, mentre il secondo comportamento, ossia il considerare come una scelta ciò che non è dipeso da noi, è una forma abbrutente di reificazione della propria personalità (come dimostrano, oltre alle manifestazioni di ‘orgoglio padano’, le molteplici manifestazioni di ‘orgoglio omosessuale’, di ‘orgoglio femminista’ ecc. ecc., che si dispongono lungo la stessa scala differenzialista). Non è necessario aggiungere, in questa sede, che entrambi i comportamenti sono determinati dalla logica spettrale del capitalismo postmoderno che, negando la dialettica, esalta e assolutizza i particolarismi, i localismi e le differenze, ignaro della lezione che il grande Platone fornisce nel mirabile dialogo del “Sofista”, allorquando dimostra che la relazione fra l’identità e la differenza è dialettica, poiché nell’identità vi è la differenza (infatti l’identità è differente dalla differenza) e nella differenza vi è l’identità (infatti la differenza è identica a se stessa). ‘Toto coelo’ diverso è, invece, il naturale attaccamento ai luoghi in cui si è nati e vissuti (Dante la chiamava ‘la carità del natio loco’, sottolineando la natura generosa e inclusiva di questo sentimento): quell’attaccamento che mi permette di dichiarare il mio legame con uno o più luoghi, a me cari per un motivo o per l’altro, senza che questa dichiarazione implichi alcuna contrapposizione (palese o latente) verso chi in quei luoghi non è nato o vissuto, o verso chi non apprezza quei luoghi nella misura in cui io li apprezzo. Anche qui, la differenza è costituita dalla ragione, che è universale, contrapposta al sentimento, che è particolare: due fattori di un’esistenza equilibrata che non vanno contrapposti ma integrati. Altrimenti, la logica culturale del postmoderno ci fa ripiombare o nel pozzo nero dei micronazionalismi di marca antiunitaria o nelle tenebre dei fondamentalismi di stampo medievale, che vigoreggiano qua e là nel mondo contemporaneo.
Al conflitto delle civiltà e allo scontro fra i fondamentalismi va, perciò, contrapposta, sul piano culturale, la lezione di Albert Einstein, il quale, quando gli fu richiesto di compilare il modulo di ingresso negli Stati Uniti, alla domanda su quale fosse la razza a cui apparteneva rispose: la razza umana.
Analisi puntuale e ricostruzione suggestiva che mostrano il potere delle parole che possano manipolare le menti e agire nella storia.
Amo il saggio di Stella, “L’ orda”.