Sei sguardi critici sul destino digitale/ 4 Verso un eterno futuro. Neil Postman, antropologo del tecnopolio
Possiamo dire che nel tecnopolio un sapere preciso è preferibile a un sapere vero, ma che comunque il tecnopolio vuole risolvere una volta per tutte il dilemma della soggettività. In una cultura in cui la macchina, con le sue operazioni impersonali e indefinitamente ripetibili, è una metafora di controllo ed è considerata lo strumento del progresso, la soggettività risulta profondamente inaccettabile. La diversità, la complessità e l’ambiguità del giudizio umano sono nemiche della tecnica perché non prendono sul serio le statistiche, i sondaggi, i test standardizzati e le burocrazie.
Nel 1993, l’intellettuale Neil Postman, uno dei più grandi studiosi dei media della seconda metà del Novecento, definì i termini dello scontro fra cultura e tecnologia in atto nella società e nell’istruzione statunitense, nel titolo di un suo famoso libro: “Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia”.
Rilette a quasi trent’anni di distanza, le sue parole non hanno perso nulla del loro valore di profezia e di provocazione.
Nascita e affermazione del tecnopolio
Postman parte dalla necessità di una tassonomia, per quanto ne sottolinei il valore relativo: descrive quindi la storia del rapporto fra cultura e tecnologia nelle società e nelle economie occidentali utilizzando tre categorie: cultura strumentale, tecnocrazia e tecnopolio.
Nel sistema delle culture strumentali, dominante fino alla piena affermazione della visione della “nuova scienza” (rappresentata simbolicamente da Bacone), una visione morale e ideale del mondo orienta, influenza e dirige il progresso tecnologico. Le espressioni tecniche del progresso e del sapere sono dominate da sistemi simbolici profondamente radicati, che rendono evidente la presenza di forze e istanze che le sovrastano e le determinano. In gran parte delle società occidentali, il cui asse portante è la narrazione biblica, si può parlare a suo avviso di “organizzazione teocratica del sapere”: Ѐ una fede o una teoria metafisica, non una tecnologia per quanto sofisticata, a “dare alla gente il permesso di pensare o agire in un determinato modo”.
L’avvento delle tecnocrazie, annunciato nel Cinquecento e dispiegatosi nei secoli successivi, mette in discussione e in crisi l’idea tradizionale di subordinazione e orientamento della tecnologia ai valori morali e alle idee religiose e metafisiche. Il processo si accompagna ad un rapido mutamento nella natura stessa della ricerca e dell’indagine intellettuale, che si pone prevalentemente problemi di potere, anziché problemi di verità (come accadeva nelle epoche precedenti): questo passaggio è sintetizzato, secondo Postman, dal pensiero di Bacone, che il fine della scienza sia “dotare la vita umana di nuove invenzioni e ricchezze”. Si rovescia di conseguenza anche l’ordine di priorità fra potere e dovere, fino ad affermare la convinzione che se una cosa può essere fatta allora debba essere fatta. Tuttavia, Postman descrive il passaggio fra cultura strumentale e tecnocrazia come uno stato di tensione permanente:
I cittadini di una tecnocrazia sapevano che la scienza e la tecnologia non potevano fornire una filosofia di vita, e quindi rimasero aderenti alle filosofie dei loro padri. Non riuscivano a convincersi che la religione, come ricapitolò Freud all’inizio del nostro secolo, è solo una nevrosi ossessiva; e tanto meno riuscivano a credere, come insegnava la nuova cosmologia, che l’universo è una distribuzione accidentale di atomi. Per cui continuarono a credere, come Mark Twain, che sebbene la dipendenza dalle macchine fosse ormai inevitabile, gli strumenti dovevano continuare a essere i loro schiavi, non i loro padroni. A quegli strumenti era consentito di diventare schiavi prepotenti, aggressivi e insolenti, ma non certo di elevarsi al di sopra del loro rango servile.
Il tecnopolio, di cui secondo l’autore gli USA sono l’unico esempio esistente (all’epoca di pubblicazione del libro), si fonda sull’eliminazione di ogni tensione e di ogni visione concorrente: “proprio come ha spiegato Aldous Huxley in Brave New World, rendendo cioè ogni alternativa non illegale, né immorale e nemmeno impopolare, ma semplicemente invisibile, e quindi irrilevante”. Il tecnopolio è dunque una realtà in cui la tecnologia costituisce di per sé “verità” e la moralità delle azioni che rende possibili risponde alla loro convenienza rispetto agli obiettivi del progresso economico e tecnico. Le sue fondamenta poggiano sulle macerie di alcuni caposaldi delle espressioni culturali preesistenti: la dimensione della memoria collettiva, liquidata come un freno e una remora all’azione; il valore della soggettività, ridotta a elemento di disordine e confusione; il patrimonio simbolico e linguistico della tradizione, considerato inadatto a comprendere e descrivere gli scenari futuri che si aprono.
Le persone come cose: ideologia della misurazione
Postman definisce il tecnopolio “tecnocrazia totalitaria”. Sottolinea il contenuto politico e filosofico della trasformazione del rapporto fra cultura e tecnologia, perseguita attraverso strategie commerciali che tendono a fare coincidere l’idea di agio, comodità e supporto tecnico, insita in numerosi aspetti della tecnologia moderna, con il suo effettivo valore morale.
Studia poi le modalità attraverso le quali si diffonde l’idea che il progresso umano e sociale debba essere a servizio della “verità tecnologica”
Un passo fondamentale in questa direzione è l’attribuzione di un valore assoluto all’informazione, ossessione e mito dell’orizzonte culturale del tecnopolio. In questo modo, essa viene sganciata dalla necessità di legittimarsi e accreditarsi attraverso il riferimento ad un quadro chiaro e condiviso di idee e valori. Per raggiungere questo scopo, si modifica sensibilmente il quadro quotidiano delle percezioni e degli atteggiamenti delle persone, agendo su diversi piani: il rapporto della collettività con dati e informazioni; la percezione del passato e della storia; la diffusione di una relazione costante e pervasiva con tecniche e burocrazia.
Sul piano della comprensione (ricezione e gestione di dati e informazioni), il processo si attua attraverso la creazione di una percezione basata su criteri di immediatezza, suggestione, proliferazione; progressivamente, essi si sostituiscono alle idee di continuità, complessità e scelta che per secoli avevano indirizzato e determinato il cambiamento storico e sociale all’interno della vita di una comunità.
A questa prospettiva risulta funzionale la tesi della “fine della storia”, che identifica in modo banalizzante la scomparsa delle ideologie con la fine tout court del conflitto sociale e politico, e di conseguenza determina un radicale mutamento delle idee di “partecipazione” e “democrazia”.
La trasformazione del tecnopolio in governo totalitario, delle anime e dei corpi di chi abita il mondo, si ottiene però soprattutto tramite l’estensione del dominio burocratico sulle vite, veicolato da una nuova casta di sacerdoti: gli “esperti”. Ѐ in quest’ambito che si realizza una sorta di “tecnologizzazione della realtà”, di cui la pretesa estensione del metodo sperimentale a ogni ambito conoscitivo diventa il simbolo. Postman analizza, in pagine penetranti, il tentativo disperato di alcune scienze sociali e umane – in particolare la sociologia e la psicologia – di accreditarsi come “oggettive” ed “esatte”, sacrificando ideali, dubbi e perfino la logica, sull’altare di una presunta “precisione”. In questa prospettiva, ogni elemento della realtà deve essere misurabile e classificabile, per avere dignità di esistenza e possibilità di essere compreso: ciò implica una sostanziale reificazione di ogni valore, idea e ambito del sapere, e la riduzione della persona a cosa. In un simile contesto, recitano un ruolo da protagonisti la televisione, che modifica radicalmente il senso del dibattito pubblico e della formazione delle idee, e i sondaggi, che deformano costantemente l’immaginario individuale e sociale, spingendolo verso una percezione puramente quantitativa di fenomeni e persone.
La trasformazione in “scienza” del racconto sociale cancella la dimensione soggettiva, considerando anche il percorso conoscitivo come prodotto (“avere un’opinione”) e non come processo costante (“farsi un’opinione”)
Il risultato finale è l’affermazione dello scientismo contro l’etica.
Conservare il passato, conservare la soggettività
Pur descrivendo il dominio del tecnopolio come un fenomeno in gran parte da studiare, perché si presenta sotto forme profondamente diverse da quelle dei poteri oppressivi e totalitari che abbiamo conosciuto nella storia, Postman non si sottrae alla riflessione sulle possibili risposte critiche ad esso e sui comportamenti di lotta e di opposizione attiva.
La sua pars construens individua due possibili ambiti di resistenza.
Il primo è quello delle scelte e dei comportamenti individuali. In questo senso, rifacendo il verso alla manualistica tipica delle società contemporanee, egli descrive una sorta di decalogo di buon senso, che trent’anni dopo non ha perso nulla della sua attualità. I “militanti della resistenza” sono persone:
che rifiutano di accettare l’efficienza quale obiettivo principale dei rapporti umani;
che si sono liberate dalla credenza nel potere magico dei numeri, e non pensano che il calcolo sostituisca adeguatamente il giudizio, né che la precisione sia sinonimo di verità;
(…)
che nutrono almeno qualche sospetto sull’idea di progresso, e non confondono l’informazione con la comprensione;
che non considerano gli anziani come irrilevanti;
(…)
che prendono sul serio le grandi narrazioni della religione e non credono che la scienza sia il solo sistema di pensiero in grado di produrre verità;
che conoscono la differenza fra il sacro e il profano, e non fanno finta di ignorare la tradizione per amore della modernità
Accanto alla sfera d’azione privata e individuale, riveste una grande importanza quella sociale e politica. In quest’ambito, però, egli non sembra affatto nutrire una profonda fiducia nella capacità delle diverse istituzioni di raggiungere un elevato grado di consapevolezza, e quindi di agire per opporsi alle forze in gioco, sebbene non le ritenga per forza complici consapevoli e attive del tecnopolio. Nonostante lo scetticismo, porta un esempio che considera particolarmente significativo, e che non può che suscitare in noi lettori contemporanei grande curiosità: disegna infatti un quadro di possibile cambiamento del sistema di istruzione superiore americano, che rimetta al centro finalità, temi e capacità che il tecnopolio desidera indebolire o cancellare, e che la scuola – baluardo della migliore tradizione – ha il compito di difendere.
Al centro di questo disegno innovativo, non colloca una selezione di discipline specifiche, ma tre ambiti conoscitivi: storia, filosofia, semantica. Lo sviluppo delle abilità implicate in queste dimensioni, infatti, consente di affrontare lo studio di qualsiasi materia con la necessaria consapevolezza e con un indispensabile atteggiamento critico. In particolare, “storia” non è una singola materia, ma una capacità di leggere e interpretare fenomeni, processi e scelte in tutti i campi: prima di tutto, quindi, occorrerebbe un serio studio della storia della scienza e della tecnologia, antidoto contro lo scientismo e una visione astorica del sapere e delle tecniche come ambito separato del mondo. Postman arriva a ipotizzare una disciplina come la “Storia delle storie”, al cui interno si studi proprio il modo in cui, nei differenti ambiti conoscitivi, soprattutto dopo la nascita di forti processi di settorializzazione, si sono descritti le trasformazioni e i cambiamenti che hanno segnato l’evoluzione del settore.
A questa capacità di integrare, confrontare, leggere in modo critico la realtà, darebbe un contributo essenziale lo studio della filosofia, declinata soprattutto come filosofia della scienza: uno strumento utile a ritrovare il nesso necessario fra indagine etica, sviluppo cognitivo, sistemi di sapere. Inoltre, è a suo avviso fondamentale studiare seriamente la semantica: proprio attraverso il linguaggio, infatti, vengono fatte passare e diffuse – spesso surrettiziamente – imposizioni ideologiche e affermazioni preconcette, senza che le persone se ne rendano conto o possano metterne in discussione la fondatezza, la coerenza e l’utilità, per loro e per la società.
Lascio a ciascuna e ciascuno di voi il compito – interessante quanto triste – di misurare la distanza fra queste considerazioni e il dibattito pubblico europeo e italiano sull’istruzione, fra guerre puniche e pensiero computazionale.
Contro la media education
Postman attribuisce un valore straordinario alla tradizione, istanza che considera indispensabile a tenere insieme un patrimonio di valori e di storie che possono consentirci di dare al progresso uno sviluppo autentico, che conservi all’umano il potere di controllare il tecnologico. Da quest’idea deriva anche la proposta di assegnare allo studio della storia della religione una posizione centrale nel suo utopistico sistema di istruzione riformato.
In relazione a questa lettura del mondo e dei compiti della scuola nasce una proposta radicale rispetto all’insegnamento della modernità attraverso i media.
Qui però non ho alcuna intenzione di screditare la cultura popolare. Voglio solo sostenere che i prodotti delle arti popolari sono forniti con abbondanza dalla cultura stessa. Alle scuole tocca il compito di rendere disponibili i prodotti delle forme d’arte classica proprio perché non sono disponibili e perché richiedono un diverso tipo di sensibilità alla risposta. Allo stato attuale delle cose, le scuole non hanno scusanti quando sponsorizzano i concerti rock per studenti che non hanno mai ascoltato Mozart, Beethoven, Bach o Chopin. (…)
Ѐ molto probabile che gli studenti, immersi come sono nelle arti popolari di oggi, troveranno noiosa e perfino fastidiosa questa mia insistenza. A sua volta ciò diventerà fastidioso per gli insegnanti, che naturalmente preferiscono insegnare quello che susciterà una risposta immediata ed entusiasta. Si deve però mostrare ai nostri giovani che non tutte le cose di valore sono accessibili all’istante, e che esistono livelli di sensibilità a loro sconosciuti. Ma soprattutto si devono indicare loro le radici artistiche dell’umanità, un compito che ai giorni nostri spetta senza scampo alle scuole.
Chi, come me, crede che la media education costituisca una sorta di imperativo categorico della scuola di oggi, non si trova d’accordo con queste affermazioni. Ma proprio in questo disaccordo, che arriva al fondo di un libro fondamentale e convincente, nella tesi e nella rigorosa argomentazione, consiste il messaggio forse più importante di Postman: non è attraverso soluzioni semplici che si affronta la complessità.
Se saremo in grado di trovare un modo di gestire insieme il futuro tecnologico che ci aspetta, questo accadrà soltanto facendo dialogare la tradizione e l’innovazione. Per costruire un futuro che abbia senso per tutti, e non solo per qualcuno.
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