Il cancello della nostra scuola è di ferro pesante. I cardini cigolano quando si apre. I paletti vacillano quando si chiude. Nella parte superiore una rete metallica impedisce che un braccio o una mano possa passare tra le sbarre. E’ verniciato di verde. Lo smalto, che per il freddo e il caldo si scrosta dalla sua superficie, periodicamente viene nuovamente steso. Di in anno in anno. Finché la carcassa di metallo durerà.
Il cancello della nostra scuola in questi giorni è chiuso per dire che c’è un dentro e c’è un fuori. I ragazzi lo hanno eletto a confine. Ogni anno provano a metterne uno. Nell’adolescenza bisogna occupare uno spazio altrui per liberarne uno proprio. L’identità è anche un fatto di rabbia. Il cancello adesso è il simbolo di quel confine, la metafora di uno sforzo.
Il cancello della nostra scuola è quindi come un diaframma fra mondo degli adulti e mondo dei ragazzi. Gli adulti hanno delle colpe perché hanno più libertà di decidere. Tutto qui. I professori, la preside, il ministro, ciascuno a suo modo sceglie e, poiché la scuola è inospitale, povera, inadeguata, chi sceglie sbaglia. In base al nostro schema della libertà e della responsabilità, i ragazzi agiscono a parti rovesciate: adesso tocca a loro sbagliare così da poter dire di aver scelto qualcosa.
Il cancello perciò è chiuso e non ci sono ragioni per aprirlo. I ragazzi rimarcano quella soglia, vi stazionano compiaciuti in modo pre-politico e pre-morale. Il loro disagio viene prima della coscienza: è un fatto di percezione sapersi esclusi dal futuro. Ci vuol tanto a capirlo? Non sanno le loro ragioni, se le sapessero il cancello non sarebbe chiuso.
Di una cosa però possiamo andare orgogliosi: questo cancello chiuso oggi può esserci solo a scuola. Per i nostri ragazzi non ci sono altri luoghi da contendere, altri adulti da sfidare, altri confini da eleggere a simboli. I centri commerciali sono caldi e accoglienti, qui tutti sono clienti e i clienti hanno sempre ragione; i bar sono spazi aperti dove non occorrono sedie e turni per parlare; le case sono fatte per mangiare e dormire, per entrare e uscire; gli stadi per gridare senza ragioni; la radio è fatta per sentire senza ascoltare, la televisione per vedere senza guardare; il telefonino per parlare senza dire. La scuola no. Per questo sono qui. I no li fanno soffrire e sperare, disperare e crescere. Chi giudica in fretta il loro spaesamento, la loro rabbia scomposta, l’incoerenza dello loro azioni, anche quando il cancello è aperto si ferma alla soglia.
Lo schema del dentro e del fuori però se permette di occupare i confini non libera gli spazi. Dopo l’occupazione i cardini del cancello smetteranno di cigolare e i paletti di vacillare? Dopo l’occupazione la scuola sarà più bella e i suoi insegnamenti, formali e informali, migliori? Con la rabbia si può vincere una battaglia, per vincere una guerra serve intelligenza.
Gli spazi dell’intelligenza li libera la scuola: solo la scuola chiede ai ragazzi di capire le cose, i fenomeni e le forze in campo per agire criticamente (che è poi il solo modo di agire concretamente). Solo la scuola chiede ai ragazzi di cambiare se stessi per cambiare il mondo. Solo la scuola continua a credere che loro possono farcela davvero. Altrimenti non ci sarebbe scuola. Senza questa utopia non continueremmo a stendere il nuovo smalto sul ferro del vecchio cancello.
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G.B. Palumbo Editore
Percezione e coscienza
Siamo sicuri che sia un fatto di percezione sentirsi esclusi dal futuro?
ho bisogno di capire
Grazie ad Emanuela Annaloro per aver condiviso queste riflessioni. Mi sono servite a riflettere su alcune ragioni che i ragazzi hanno nel protestare, ragioni che purtroppo almeno qui nella mia città, Torino, sono offuscate da altro, e che neanche io vedevo.
Giusto, il disagio viene prima della coscienza. Giusto, solo a scuola poi si potrà costruire qualcosa. Speriamo che quel disagio diventi propulsore di interesse e non premessa a rabbie cieche.
Io sono preoccupato dalle parole d’ordine che hanno portato in piazza, che sono assolutamente qualunquiste. E non sono adolescenti a pronunciarle.
La mia città è da tre giorni bloccata da gruppuscoli (solo lunedì la gente è stata tanta, e c’erano disoccupati e artigiani in crisi: ora sono rimasti pochi, sparuti), ma gruppuscoli che bloccano mezzi pubblici, intimidiscono, offendono commercianti che restano aperti, passanti che non si uniscono alla protesta. E la polizia li lascia fare. Almeno, a Torino questo sta capitando.
Però c’è anche un’altra cosa. Ho 33 anni e per la prima volta sento un’aria diversa in questa protesta. E’ una protesta vera, nel senso che è scomposta, non più rassicurante e ritualizzata, come quelle cui ero, per generazione, abituato. Provo un senso di spaesamento e inquietudine, ma ho i sensi e i nervi tesi a captare un senso.
E’ presto per dire se si sta profilando qualcosa di nuovo, ma se questo qualcosa davvero arriverà, forse qualcuno delle generazioni precedenti alla nostra dovrà spiegarci come funzionava qualche decennio fa, quando occupazioni e autogestioni non erano addomesticate e vacanziere come quelle che ho fatto io e addirittura eterodirette dagli adulti stessi (le autogestioni organizzate dalla scuola, a prevenire il conflitto nella bamabagia: quanto siamo stupidi noi adulti…), come è capitato finora ai miei studenti.
Dobbiamo capire, anche perché so per certo che dietro queste proteste ci sono mandanti poco chiari e dobbiamo assolutamente evitare che i nostri ragazzi finiscano nelle loro mani.
Ecco, più o meno questo.
Bersagli e modelli
Sono io a ringraziare Lo Vetere e Molly per gli stimoli alla comune riflessione.
La cosa che mi sembra nuova di questa protesta è che gli studenti hanno preso esplicitamente di mira il mondo degli adulti, ritenuto colpevole di averli derubati del futuro. Naturalmente fanno parte del mondo adulto anche gli insegnanti, che proprio per queste ragioni sono stati lasciati fuori dai cancelli delle scuole.
Al contempo, mi sono sembrate preoccupanti le letture banalizzanti della protesta compiute dagli adulti, il silenzio imposto dai media, i commenti di sufficienza snocciolati da docenti e dirigenti (soprattutto da quelli che la “sanno lunga” per “averne viste tante” di occupazioni). Mi pare che proprio nel momento in cui gli studenti ci prendono a bersaglio chiedendoci di rispondere di un destino comune, noi ignoriamo le loro domande, le rispediamo al mittente o li accompagniamo fuori dai cancelli delle scuole con risposte tanto nervose quanto inadeguate.
C’è un disagio nell’aria magmatico che può essere generativo. Ma noi, insegnanti trenta-quarantenni, che non abbiamo avuto padri, siamo in grado di gestire il conflitto fra le generazioni? Sappiamo porci come bersaglio e come modello per i nostri studenti? Tutto ci è sembrato più grande di noi. Fin qui. Ora c’è qualcuno che scompostamente, ma con determinazione ci ricorda che i grandi siamo noi.