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diretto da Romano Luperini

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L’invenzione del vero nella Città dei vivi di Lagioia

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Mosse di avvicinamento

Prima che uscisse il nuovo libro di Nicola Lagioia ignoravo che si occupasse dell’omicidio Varani: di quest’ultimo, anzi, sapevo solo che era accaduto nella capitale. Per quel che mi riguarda, più i fatti di cronaca nera sono efferati e si fanno eclatanti, più mi allontano dal circo mediatico che si crea loro intorno. Dunque all’uscita de La città dei vivi mi sono dovuta interrogare sull’effettiva disponibilità a leggere un lavoro non finzionale su un caso così cruento. Alla fine mi sono decisa per un atto di fiducia: la lettura della Città dei vivi, mentre mi inghiottiva, mi spingeva a chiedermi perché l’autore l’avesse scritta e perché io la leggessi, peraltro avvertendo un crescente desiderio di arrivare all’ultima pagina. Cercherò dunque di riportare le considerazioni su questa esperienza di lettura che mi ha, in una qual misura, scissa.

Una trilogia feroce

L’attraversamento del testo – 459 pagine, suddivise in sei parti – è avvenuto, infatti, a due livelli: paradossalmente, a mano a mano che entravo nella logica della narrazione e accettavo l’idea che gli elementi finzionali fossero davvero minimi (verificando i dati relativi alla cronaca direttamente sul web per accertarne la veridicità), la parte di me più avida di “storie” si immergeva nel racconto. Seguivo le tracce del più truce dei noir di cui tutto era stato sbattuto in TV e in prima pagina fin dalle prime ore e poi per mesi anche sui social. Al contempo però, ogniqualvolta chiudevo il libro, la mia parte razionale prendeva le distanze dal racconto e ribadiva la necessità di capire la ragione per cui Lagioia avesse deciso di intraprendere la rielaborazione di un fatto di cronaca – un’ossessione conoscitiva condotta senza compiacimento –  rinunciando a una narrazione di tipo finzionale quale gli era stata fino a quel momento congeniale.

Tuttavia, più che pensare alla lezione del new journalism americano o della non fiction alla Carrère (varie recensioni richiamano come modelli plausibili A sangue freddo e l’Avversario) ho cercato una risposta, che avanzo come ipotesi interpretativa, nella precedente produzione dello scrittore barese: con La città dei vivi Lagioia ha scritto il terzo volume di una “preterintenzionale” trilogia sulla spietatezza contemporanea. Iniziata con Riportando tutto a casa (2009) e continuata con La ferocia (2014), essa si basa su un “pannello di riferimento rigidamente shakespeariano per ciò che riguarda la resa artistica dei sentimenti umani”:

E a proposito del Machbeth…cosa dire di uno dei momenti più inquietanti della più grande opera mai scritta sulla malattia e la solitudine del potere: “Fair is foul and foul is fair” (“Bello è brutto e brutto è bello”)? La potenza luciferina di questa formula non ha da dire ancora molto in un tempo che gioca alle tre carte con verità e menzogna, reale e virtuale, originale e simulacro? (La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, a cura di A. Cortellessa, Roma, L’Orma, 2014, p. 213)

È come se la “potenza luciferina” che lo scrittore ha rappresentato nelle trame “feroci” dei romanzi precedenti tornasse – moltiplicata, esasperata – nella Città dei vivi in un caso di “contagio psichico” (N. Lagioia, La città dei vivi, Torino, Einaudi, 2020, p. 345) dettagliatamente rinarrato. Lagioia non resta indifferente (Ivi, p. 108) di fronte a un episodio che rimette in moto certi fantasmi del passato –  costringendolo a interrogarsi sulla sua stessa adolescenza –  e che, al contempo, supera le capacità immaginative di uno scrittore. Determinante risulta, inoltre, che il fatto di cronaca coinvolga dei giovani, soggetti privilegiati di Riportando tutto a casa e di La ferocia. I tre adolescenti, protagonisti del suo Bildungsroman degli anni Ottanta sono diventati Luca, Manuel e Marco de La città dei vivi: i ragazzini di quel romanzo sono ormai uomini, ma il loro profilo psichico è rimasto congelato a forme di egotismo, di narcisismo o, nel caso di Varani, di svilimento di sé, che ne impediscono un ingresso equilibrato nel mondo adulto. D’altra parte la crudeltà che determina i rapporti familiari ne La ferocia si traduce in quest’ultimo libro in relazioni altrettanto irrisolte e perniciose: l’abiezione di Clara, il cinismo di Gioia, il risentimento rancoroso di Ruggero sono alcuni degli ingredienti psichici che sembrano determinare i comportamenti  dei protagonisti della Città dei vivi, lì sullo sfondo di una Bari bene, dedita a evasioni chimiche e a violenze di branco, qui in una Roma degradata e depravata, che quello stordimento e quelle violenze trasforma in orrore privo di movente.

La tragedia contemporanea, insomma, sostituisce le streghe di Macbeth con una serie di fattori concomitanti nessuno dei quali, preso singolarmente, avrebbe potuto provocare un delitto così feroce e così insensato, ma che, agglutinandosi tra i disagi di Foffo e i deliri di Prato, diviene furia incontrollata. La ricostruzione di Lagioia – costata quattro anni di incontri, interviste, esami dei faldoni processuali, setaccio dei social – consente di mettere a fuoco il baratro di solitudine di ciascuno dei protagonisti, in particolare dei carnefici, l’autismo relazionale di questi ultimi, il narcisismo e l’egotismo di due individui incapaci di riconoscere l’altro da sé. Entrambi hanno evidenti difficoltà di rapporti familiari; sono alle prese con tentativi falliti di affermazione della propria identità professionale (nel caso di Foffo) e sessuale (nel caso di Prato); assumono cocaina e alcolici, miscela che diventa, nei giorni immediatamente precedenti l’omicidio, abuso senza limiti. Si tratta, insomma, di singoli “vettori esistenziali” che, convergendo in un punto – l’appartamento di Via Igino Giordani, 2 – e in un bisogno – coinvolgere un terzo soggetto nei loro giochi di travestimento e di dominio –  si trasfigurano in una forza maligna e oltranzista, tangibile anche a giorni di distanza:

Tutto era successo lì dentro. Avanzai ancora, ero stato abituato a non credere nella soprannaturalità delle case segnate, eppure la sensazione che stavo provando davanti a quella porta era reale. Era come se un aumento improvviso della massa tutt’intorno portasse il tempo a rallentare fino a sfiorare una stasi dove non c’era quiete, ma solo idiozia, solitudine, disperazione. (Ivi, p. 176).

Merito del libro di Lagioia è riuscire a evocare il senso di possessione che prende i due omicidi, il delirio di onnipotenza che li pervade per mezzo di una narrazione a cerchi concentrici che traduce il fatto di cronaca in un dispositivo letterario più incline alla compassione e al dubbio che al giudizio: la ricostruzione documentaria non impedisce, infatti, a Lagioia di farci entrare nelle teste dei personaggi, di riviverne i dialoghi, di assistere alla loro percezione distorta del tempo, ai gesti, agli sguardi.

La città e il coro

La città dei vivi va oltre la ricostruzione del fait divers, supera l’asfittica aria dell’appartamento di Foffo – vera e propria mise en abyme del disordine e della sporcizia fisici e morali della stessa Roma – e lascia ampio spazio sia al coro, ossia alle molte voci che, a vario titolo, sul delitto si sono espresse, sia alla capitale, una città che pare giunta a un punto di non ritorno.

Al “Coro”, in particolare, – presenza immancabile nella tragedia antica ma in questo caso ben poco catartico – è dedicata un’intera sezione del libro, la terza. In un caleidoscopio di voci Lagioia dà diritto di parola a amici, parenti, conoscenti dei tre giovani, restituendo attraverso di loro un affresco del senso comune dominante tra i trentenni di oggi, delle loro abitudini di vita, spesso del vuoto di senso delle loro esistenze:

È la mia generazione, giusto? – dice una giornalista a Lagioia – Le discoteche, gli after, il chem sex, ho lavorato in discoteca, ne ho viste di tutti i colori: una volta che cominci a fare quella vita è facile cadere dall’altra parte. (Ivi, p.215)

A sua volta la capitale è una città allo sfacelo: il disordine e la sporcizia metropolitane fanno da corollario al degrado morale che vi si respira (“Intanto io fissavo una bici carbonizzata vicino a un cassonetto con la solita immondizia rovesciata sull’asfalto” Ivi, p. 215); le presenze animali – topi e gabbiani – sono il corrispettivo della voracità e dell’aggressività diffusa (“Zampettavano tra l’immondizia, divoravano piccoli animali morti, si tuffavano senza paura verso ogni fonte di cibo” Ivi, p. 381). Ogni descrizione degli spazi urbani è figura della desolazione umana di una città sostanzialmente allo sbando. A questo proposito fin dalle pagine iniziali del libro Lagioia cuce insieme alla narrazione principale quella marginale, ma comunque significativa, del pedofilo olandese che, giunto nella capitale italiana in veste apparente di turista, cerca incontri a pagamento con adolescenti e se ne riparte appagato e impunito, nonostante la denuncia e l’arresto:

Dal finestrino riconobbe il Colosseo. Chiunque avesse letto un libro nella vita sapeva che quella era l’eredità del mondo. Ti scippavano in metropolitana. Ti insultavano ai semafori. Ti spennavano nei ristoranti, ti tossivano in faccia. Ma alla fine il saldo era positivo. La città ti regalava molto più di quello che chiedeva in cambio. (Ivi, p.459)

È evidente che non si può parlare de La città dei vivi come di un romanzo; ma è altrettanto chiaro che il lavoro di montaggio cui lo scrittore sottopone il suo materiale allontana l’opera dall’ambito del libro d’inchiesta giornalistica – quale può essere considerata quella di Gianfranco Bettin che a delitti altrettanto efferati ha dedicato ricostruzioni sociologiche interessanti: si pensi a Gorgo (2009) e Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar (2007). I modi in cui lo scrittore dispone i fatti, gli andirivieni temporali, l’accostamento di molte voci, spesso anche dissonanti tra loro, i numerosi riferimenti documentari, i silenzi (delle tre madri, in particolare)  e le censure (Lagioia nomina il suo scambio epistolare con Foffo ma di quelle lettere non si legge una riga) uniti alla rappresentazione allegorica dello spazio urbano e delle presenze animali reinventano il vero sia “in contrapposizione alle falsificazioni massmediatiche”, sia “a un livello simbolico, prettamente romanzesco” (R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, Roma, Gaffi, 2014, p. 47): se tutto questo non fa della Città dei vivi un’opera perfetta, mi pare che ne faccia un libro significativo e coraggioso.

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