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Soft Skills: un porridge per tutti

Ogni settimana mi arrivano da parte dello Staff dell’ateneo delle mail inerenti l’implementazione (sic) di una qualche virtuosa e finanziatissima innovazione della didattica e della ricerca, nel senso, parrebbe da tutti auspicato, del  Digital Learning e del Virtual Exchange Methodology. Ignorando il Documento di politica linguistica che il medesimo ateneo ha varato qualche anno fa sul dovere di mantenere l’italiano come lingua di insegnamento, in questi messaggi si glorifica la vera lingua universitaria del futuro: il veicolo standard angloaziendale, tanto protervo quanto ridotto all’osso dall’efficienza ideologica. Il messaggio implicito che giunge attraverso quella posta istituzionale, e che pazientemente cestino, è il seguente: “non pensare che oggi si possa fare università senza questa terminologia”.

Da ultimo: nel dizionario di questa neolingua d’ateneo, che si vorrebbe parlata da tutti, ora trionfano le Skills, o meglio le Digital Skills e le Soft Skills. Ora: sapevo che nelle aziende con Skill si definisce la capacità di portare a termine compiti lavorativi, distinguendo (grossolanamente, come nell’informatica) fra Hard e Soft Skills e intendendo queste ultime come competenze relazionali (emotive, comunicative, inerenti la postura, il sapersi vendere e proporre, il saper essere leader, dunque inerenti la mentalità e l’ideologia). Non mi sarei però aspettato che, così in fretta, nei luoghi deputati alla formazione pubblica, il termine “competenze” (le famose “otto competenze” europee) sarebbe stato rimpiazzato dalla parola magica Skills che ne è, a un tempo, la banalizzazione e l’adempimento.

A favore o contro le competenze (e sul modo di intendere un’eventuale “competenza interpretativa” e letteraria), come si sa, si è sviluppata in questi anni a scuola (a esempio, nella sezione didattica dell’ADI) una discussione complessa: un dibattito tuttavia che ora sembra destinato all’obsolescenza perché, – più o meno con la medesima rapacità con cui Bonomi ha ottenuto di ripristinare dopo la debole parentesi di Welfare pandemico, la libertà  di licenziare, – la governance delle Università comincia a parlare diffusamente di Skills. Non si tratta, si badi, della semplice traduzione anglofila del termine “competenze” ma di una sua curvatura iperaziendalista. Delle “otto competenze” promosse dalle Raccomandazioni del Parlamento europeo, l’egemonia delle Skills punta, a ben guardare, a promuoverne una sola: la settima (la cosiddetta “competenza imprenditoriale”). Le Soft Skills esaltano infatti le capacità relative “alle attitudini, agli stili di comunicazione e alle doti empatiche ed espressive” necessarie a “una carriera di successo”: il Problem Solving, il Lateral Thinking, il Team Management. Per dirla in altri termini, un ottuso e disinvolto mix di psicologismo comportamentista d’accatto e di ideologia panaziendale. Il tritacarne linguistico non risparmia nemmeno il concetto-termine di “pensiero critico” che, privato di ogni tradizionale nesso con la critica sociale, è risemantizzato come la Soft Skill che più  delle altre pertiene alla “creatività” e alla capacità d’innovazione.

Annusando l’aria che tira, credo che il prossimo passo sarà quello di additare ai docenti, mail dopo mail, con la medesima protervia quale ambita Soft Skill il modello supremo del TED (Technology Entertainment Design): palco, disco rosso e megaschermo, lezione performativa ad alto grado spettacolare entro la retorica discorsiva della persuasione liberale. Una piattaforma digitale metterà in rete, per migliaia di studenti, queste TED talks accademiche (un tempo chiamate “lezioni”) secondo un format nato nella Silicon Valley per diffondere “ideas worth spreading”, come: “superare le sfide”, “costruire l’autostima”, “pensare laterale”, “valorizzare resilienza e vulnerabilità”, ecc.

Così, a furia di vedere allungarsi ogni giorno il brodo anglofilo delle innovazioni didattiche iperaziendali e postpandemiche finisco per confondere, e certo a causa del mio cattivo inglese, il termine Skill con Skilly, per i britannici una pappa molto liquida, un porridge vegetale annacquato, una brodaglia per tutti, insomma.

E, del resto, il capitalismo odierno non è solo una forma economica: è un “ordine sociale istituzionalizzato” per tutti che, come l’ordine feudale, implica una sola forma di vita, oggi incentrata sul dogma dell’efficienza e della crescita, una struttura di tutte le relazioni, compresi i nomi dati alle cose. Se i docenti a scuola e all’università avessero ancora una funzione, anziché inchinarsi alla inevitabilità delle Skills dovrebbero viceversa lavorare con gli studenti a demistificare il tabù culturale che le presuppone. Dunque, a «trasformare il nutrimento delle persone, la salvaguardia della natura e l’autogoverno democratico in priorità sociali massime, che battono efficienza e crescita». (Nancy Fraser, Cosa vuol dire Socialismo nel XXI secolo? Castelvecchi, 2020).

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