La Storia e le storie Riflessioni sulla docuserie “SANPA”
Il tema, il metodo, i punti di vista
C’è un interrogativo filosofico, a fondamento del lungo racconto documentario sulla comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano. Lo hanno esplicitato chiaramente gli autori della serie, in un’intervista che ne ha accompagnato la produzione e il lancio: “quanto male sei disposto a giustificare, perché venga fatto del bene?”.
I documenti raccolti e montati per spingere gli spettatori a porsi questa domanda abbracciano i primi quindici anni di vita della comunità fondata da Vincenzo Muccioli, dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso al 1995, quando morì il suo fondatore. In quel breve arco di tempo, divenne la più grande d’Europa. La parabola tracciata nei titoli delle puntate (Nascita, Crescita, Fama, Declino, Caduta) non è quindi metafora dell’evoluzione della comunità – tuttora attiva e florida – bensì dell’esistenza di Muccioli stesso, dei suoi progetti e dei suoi principi: creare un luogo nel quale ricostruire l’identità smarrita dei tossicodipendenti attraverso l’etica del lavoro e del dovere; restituire a ciascuna e ciascun “tossico” un padre in cui credere, a cui affidarsi senza esitazioni e al quale obbedire con cieca fiducia; ammettere l’uso di strumenti coercitivi pesanti (privazione della libertà personale, reclusione, isolamento, umiliazioni pubbliche), finalizzati alla ricostruzione della persona e della sua autonomia.
Di questa visione e delle pratiche ad essa collegate, nel corso di quegli anni furono messe in discussione manifestazioni e forme, dalle inchieste di alcuni giornalisti e da ripetuti interventi della magistratura. Accanto agli indiscutibili successi – l’affermazione di un modello di comunità, le tante persone recuperate, il sollievo offerto gratuitamente a famiglie piegate dalla droga, la costruzione di un’azienda forte – si accamparono con evidenza ambiguità ed eccessi – privazione di diritti individuali ed uso crescente della violenza, manipolazione dei fatti e delle informazioni, suicidi e morti sospette, tendenza a superare le leggi dello Stato in vista di un “bene” superiore.
È questo campo di conflitti e contraddizioni la materia calda della narrazione.
Per provare a storicizzare fatti così importanti, delicati e controversi, gli autori hanno svolto un poderoso lavoro di ricerca documentaria; a partire da esso hanno intervistato testimoni e protagonisti delle vicende narrate. Li ha guidati – ha spiegato la regista – “una logica insieme cronologica e tematica”: ordinare e cercare di comprendere una serie di fatti storici; rintracciare elementi utili ad una lettura complessiva di temi scottanti del dibattito pubblico di allora, utili anche a riflettere sul nostro presente. In questo sforzo, il documentario rappresenta anche un tentativo di ricreare, con strumenti non finzionali, l’atmosfera e il sentire che caratterizzarono quegli anni. Un tentativo che, nell’ambito cinematografico e televisivo, è stato realizzato con successo in diverse occasioni, come nel caso della serie “1992” e del film “Hammamet”.
Il documentario non ha una voce narrante tradizionale, ma una pluralità di voci, organizzate in una struttura molto ordinata.
Da una parte, quelle di alcuni “ragazzi” e di una “ragazza” vissuti nella comunità, che come narratori interni ragionano con uno sguardo rivolto al passato: non conta tanto, quando li ascolti, chi siano diventati (anzi, solo alcuni indizi vengono esplicitati in questo senso, e per il resto molto è affidato alla curiosità dello spettatore); conta invece come, dalla distanza e alla luce degli anni trascorsi, giudicano il contesto in cui maturò la loro trasformazione, le ragioni delle loro scelte di allora. Due di queste voci – Antonio Boschini, ancora oggi responsabile medico della comunità, e Fabio Cantelli, che da essa si allontanò proprio al momento della “caduta” – mostrano in modo particolarmente commovente l’intreccio fra i ricordi intimi, le emozioni che suscitano, le riflessioni profonde sul senso della propria storia personale e di quella collettiva di San Patrignano.
Si intrecciano a queste le voci di narratori più esterni, che si collocano a distanze diverse dai drammi e dalle vite vissute dai ragazzi e dalle ragazze della comunità.
Due di questi narratori sottolineano soprattutto le “luci” di quest’esperienza straordinaria: Andrea Muccioli, figlio ed “erede” di Vincenzo, e Red Ronnie, il presentatore radiotelevisivo che fin dai primi anni sposò completamente la causa del fondatore, e lo sostenne in tutti i momenti più drammatici della sua storia. Muccioli e Ronnie non hanno dubbi: il “male” fatto – del quale mettono talvolta in discussione l’esistenza – è assolutamente giustificato dal “bene” che ha prodotto per tantissime persone.
Due altri, invece, disegnano soprattutto le “ombre”: il giudice Andreucci descrive con semplicità e rigore le diverse occasioni in cui la legge della comunità entrò in conflitto con quelle dello Stato italiano, con la pretesa di sovrastarle in nome del “bene”; il giornalista Luciano Nigro – fra i primi a descrivere senza compiacenze l’affermazione del “metodo Muccioli” – ne richiama gli aspetti critici ed ambigui. Del rapporto fra il “bene” e il “male”, la loro visione illumina soprattutto le contraddizioni.
Divisi dalla lettura complessiva del contesto e del significato di alcuni specifici avvenimenti, gli uni e gli altri sono però accomunati non da un’impossibile oggettività, ma da una motivata onestà intellettuale, che spinge costantemente lo spettatore ad immedesimarsi e interrogarsi.
Le questioni di lungo periodo
Un motivo non secondario dell’interesse che la narrazione suscita è il continuo intreccio, nella vicenda, di due temi cruciali della nostra recente storia sociale e culturale, di scottante attualità.
Il primo è la profonda trasformazione che investì il mondo dell’informazione negli anni Ottanta, il decennio della definitiva affermazione delle televisioni commerciali. Per dimensioni e diffusione, le vicende descritte costituiscono infatti il primo esempio di compiuta spettacolarizzazione di una vicenda umana e giudiziaria, nella quale le persone si trasformano in personaggi, e i loro ruoli reali si cambiano in funzioni narratologiche: raccontato da telegiornali e trasmissioni popolari, il conflitto fra Muccioli e la giustizia viene letto da gran parte dell’opinione pubblica come scontro fra l’eroe e i suoi antagonisti, i processi perdono la loro dimensione fattuale e si mutano in prove da superare, la sentenza del tribunale passa in secondo piano rispetto a quella pronunciata da chi assiste allo spettacolo.
Mike Buongiorno rivela in diretta televisiva che “per il 92% degli italiani” Muccioli è innocente, in un processo per il quale di lì a pochi giorni un giudice avrebbe dovuto pronunciare la sentenza “in nome del popolo italiano”.
Di questa confusione di ruoli e di princìpi, le puntate del documentario costituiscono uno specchio fedele, ed una fonte interessante per una capitolo di storia del giornalismo televisivo: i volti e le voci di Biagi, Minoli, Lerner assumono sempre più, infatti, un ruolo residuale, rispetto a quelli di celebri conduttori e conduttrici di talk show e trasmissioni di intrattenimento.
Il secondo è la faticosa presa di coscienza, da parte delle istituzioni, del fenomeno delle dipendenze e dell’abisso psicologico dal quale derivano.
Sullo sfondo della narrazione (ma in questo caso sarebbe stato certo meglio portarlo in primo piano), c’è il dibattito sulla cura e sul recupero della persona che si droga, sui metodi di cura (farmaci, psicologia, psicoterapia), sull’alternativa, non meno attuale oggi rispetto ad allora, fra medicina territoriale e grandi istituzioni ospedaliere.
Di questo groviglio di problemi delicati, il documentario sceglie di osservare in modo quasi esclusivo quello più strettamente legato alla dimensione familistica patriarcale della comunità e al ruolo centrale, onnipotente, assunto dalla figura del padre-fondatore Muccioli: il lavoro come cura, la distanza diffidente dalla dimensione psicologica del problema, la fiducia nel potere curativo del gruppo stesso, inteso come “grande famiglia”.
Dal racconto, emerge anche la spaventosa impreparazione, quando non l’indifferenza e l’opportunismo, del mondo politico, ben lieto di risparmiare sui costi della sanità e dalla giustizia, affidando ad un privato dai metodi disinvolti la cura “gratuita” dei tossicodipendenti.
Raccontare per interpretare
Nella successione degli episodi, passato e presente si avvicendano con un montaggio efficace davanti ai nostri occhi. La storia ci coinvolge prima di tutto per l’incrocio delle dimensioni temporali, consacrato dalla struttura narrativa che caratterizza gran parte della serialità televisiva (soprattutto nel genere crime).
La “scrittura a mosaico”, di cui hanno parlato gli sceneggiatori per definire il loro metodo di lavoro nella sceneggiatura, sembra talvolta mostrare alcune sbavature nella mediazione fra le diverse sensibilità e i punti di vista autoriali; tuttavia, nel suo complesso, risulta coerente. Gli effetti finzionali, pur frequenti, non occupano un ruolo centrale, e sono più che altro dedicati a sottolineare, in modo talvolta semplicistico, la drammaticità di alcune circostanze (per esempio, l’immagine delle catene diventa alla lunga decisamente poco significativa, come l’effetto della sfocatura per richiamare ad una percezione alterata della realtà).
Nel loro insieme, queste scelte estetiche conferiscono alla narrazione un effetto di grande realismo e suscitano nello spettatore un coinvolgimento al contempo emotivo e razionale.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta gli interessi della comunità si intrecciarono con quelli della politica, e si vivacizzò il dibattito sulla legislazione contro le droghe; proprio mentre si celebrava un processo per omicidio a carico di alcuni sorveglianti ex tossicodipendenti, e per omicidio colposo a carico di Muccioli.
Chi assistette al dibattito pubblico di quegli anni sa che allora non c’era alcuno spazio per la mediazione: beatificazione o demonizzazione erano le sole vie possibili. Personalmente, ricordo ad esempio che odiavo Muccioli e tutto ciò che rappresentava, ben al di là dei suoi demeriti.
Da questa logica gli autori e la regista hanno dichiarato di volersi tenere lontani, e a mio giudizio il testo che producono è all’altezza della loro intenzione.
Senza procedere per partito preso, tuttavia, la descrizione e l’esposizione dei fatti storici documentati convergono verso un’interpretazione complessiva della vicenda storica e umana, più volte ribadita nel corso delle puntate: la crisi (declino e caduta) di questo modello di recupero si individua nel momento in cui la comunità diventa troppo grande. Allora, la logica del “padre di famiglia buono e severo” non può più essere applicata direttamente dal fondatore. Il padre, allora, è costretto a delegare pesantemente i suoi compiti educativi e le sue prerogative, e il gruppo cambia radicalmente la sua fisionomia.
Come dicono esplicitamente alcuni testimoni, si passa dalla cura (attraverso la relazione diretta) al controllo (attraverso la delazione): la comunità diventa istituzione totale. E il cambiamento rende possibili atteggiamenti e scelte che in precedenza non si sarebbero mai concepiti: l’abbandono dei figli ad opera del padre; il tradimento del padre ad opera di alcuni figli e figlie.
Questa conclusione è affidata alle ultime parole che ascoltiamo, pronunciate da Fabio Cantelli, il più acuto e dolente fra i narratori interni. Egli sottolinea che la fine della comunità si realizzò quando l’immagine pubblica di San Patrignano prevalse sulla sua verità interiore, sulla sua anima. Una verità, ribadisce, intrinsecamente sfuggente e contraddittoria, come quella sulla vita di ciascuno di noi.
Non angeli o demoni, quindi, ma angeli e insieme demoni. I figli, le figlie, il padre.
In questa riflessione, c’è tutto l’interesse di questo onesto racconto, e il suo significato più profondo per ciascuna e ciascuno di noi.
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