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Perché leggere Il bambino nascosto di Roberto Andò

   In questi giorni di “ritiro” la redazione di La letteratura e noi ha pensato che possa essere utile raggiungere i suoi lettori con la rubrica “Perché leggere” nelle giornate di martedì, giovedì e sabato: nel nostro blog troveranno spazio per lo più pezzi inediti ma potrebbero venire riproposti anche suggestioni di lettura già pubblicate in passato.

***

Nudo come un verme, lo sguardo fisso su una macchiolina giallastra al centro del muro, come ogni giorno, anche quel mattino putulente di fine estate, Gabriele Santoro si attardò a valutare la poesia che avrebbe scelto per radersi. Da qualche anno aveva l’abitudine di radersi mentre declamava dei versi, una liturgia che, senza saperlo, gli aveva suggerito un celebre neurochirurgo.

Una sera, durante una cena da amici, aveva orecchiato i bisbigli del medico alla sia vicina di tavolo, una vistosa trentenne che cercava in modo plateale di stuzzicarne l’esuberante lussuria. Il luminare le stava descrivendo gli esercizi di memoria cui era solito sottoporsi mentre si radeva, – libretti d’opera, canti dell’Eneide, o dell’Orlando Furioso, interminabili filastrocche di origine popolare – e ne esaltava gli effetti benefici per la mente, arrivando a teorizzare che con quella disciplina si potessero mettere in moto dei recettori analoghi alla dopamina, con prodigiose conseguenze sull’umore.

Da allora, Gabriele Santoro aveva iniziato a rileggere i suoi poeti preferiti e, a seconda dell’autore, o ella metrica, a recitarne i versi a memoria, sommessamente o solennemente.

Quella mattina scelse Itaca di Kostantinos Kavafis e giudicò che per quella poesia fosse consono un tono di spericolata intimità, nello stile di Salvo Randone, un attore che aveva fatto in tempo ad applaudire e ammirare sul finire della sua gloriosa carriera. Come sempre, si dispose a pronunziarne le parole e i ritmi riflesso nello specchio, e li intonò in un bisbiglio:

Quando ti metterai in viaggio per Itaca

Devi augurarti che la strada sia lunga,

Fertile in avventure e in esperienze.

I Lestrigoni e i Ciclopi

O la furia di Nettuno non temere,

non sarà questo il genere di incontri

se il pensiero resta alto e un sentimento

fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.

Qui, interrotto dal suono greve e straziato del citofono, si fermò e, con il volto ancora insaponato, corse a vedere chi fosse.

(R. Andò, Il bambino nascosto, Milano, La Nave di Teseo, 2020, p.9-10)

Perché si tratta di un Bildungsroman tardivo

Ha un tocco lieve Roberto Andò nelle pagine de Il bambino nascosto che, fin dall’incipit, tratteggia un personaggio discreto e fine: amante della poesia e della musica classica, è un maestro di conservatorio che vive una vita borghese e senza scosse, in un certo senso anomala e ovattata per un quartiere napoletano malfamato come quello di Forcella. Gabriele Santoro è un abitudinario, un metodico, un uomo che ha fatto dei gesti quotidiani una sorta di liturgia e che assiste imperturbabile dalla finestra del suo appartamento alla concitata vita di quartiere, ai testa a testa delle bande rivali.

Eppure proprio nelle prime righe si condensa il destino di un personaggio che, guidato da un “pensiero alto” e da una inspiegabile fermezza, maturerà in un lasso di tempo assai breve e in circostanze decisamente rischiose il sentimento della paternità. Grazie all’arrivo di un pacco, infatti, lascia la porta socchiusa e incustodita per pochi minuti, sufficienti, tuttavia, a lasciar penetrare in casa Ciro Acerno, il figlio del vicino, «un tale di cui non sapeva nulla, neppure che mestiere facesse» (p.16). L’intrusione viene scoperta da Gabriele solo a sera, quando il bambino gli compare davanti durante l’ascolto assorto di un Ottetto di Schubert chiedendogli di tenerlo nascosto. Spaventato, tremante il bambino sussurra: «Tu m’haje aiutà. […] M’haje ‘a nasconnere» (p.17) Senza darsi una spiegazione razionale della scelta, ma senza neppure pensare mai di metterla in discussione, Gabriele decide di assecondare la richiesta del piccolo che trincera dietro un deciso mutismo le ragioni per cui deve sparire dalla circolazione.

L’anomala convivenza con Ciro impone a Gabriele di fare i conti innanzitutto con se stesso: scioglie definitivamente e senza drammi il legame ormai esausto con Biagio – il compagno che gli fa visita con regolarità ogni settimana –  e, ancor più, abbandona lo statuto irrisolto di figlio e di fratello dietro al quale aveva fino a quel momento difeso la sua solitudine quieta. L’autore sembra particolarmente sensibile al tema del rapporto fraterno, centrale già nel suo romanzo d’esordio, Il trono vuoto (2012): i fratelli che tratteggia sono sempre agli antipodi e, allo stesso tempo, necessari l’uno all’altro. Ne Il bambino nascosto Gabriele e Renato – magistrato integerrimo – incarnano rispettivamente l’uno la logica di Antigone, l’altro quella di Creonte:

“Antigone, a te dice niente questo nome, Renato?” […]

“[…] Ebbene, ti deluderò, Gabriele, ma per me la legge è proprio quella dell’ottuso Creonte. Sì, mi sembra più utile, più concreto, più umile il suo sforzo di spersonalizzare il giudizio, e di fare ordine nel caos, della sete di purezza di Antigone” (pp.40-41)

Il piccolo Ciro diviene così il cuneo necessario a determinare la svolta di Gabriele: continuando a scegliere la purezza di Antigone, si apre a un sentimento paterno che lo fa crescere, che gli fa superare quell’argine di autodifesa che aveva eretto fra sé e il mondo e che gli fa “stanare” il fratello dall’ottusa concretezza e dalla dirittura della legge.

Perchè lo scrittore narra adottando uno “sguardo che cammina”

Dal punto di vista strutturale il romanzo di Andò presenta una costruzione tradizionale, priva di significative acronie e con un narratore in terza persona che adotta ora il punto di vista di Gabriele Santoro, ora quello di Ciro. Tuttavia è costante una modalità molto visiva di raccontare la storia: così come Ciro assiste dallo spioncino del soppalco dove si nasconde alle varie “visite” che il professore riceve in casa, così Gabriele osserva dalla finestra di casa i movimenti e l’agitazione crescente nel clan di De Vivo, che sta cercando il bambino.

La familiarità di Andò con la macchina da presa è evidente ma, a differenza di quanto accade per certi romanzi la cui impostazione cinematografica disturba perchè stereotipata e prevedibile, qui diviene una raffinata modalità narrativa con la quale «quest’occhio che cammina, questo sguardo […] letteralmente crea lo spazio della storia» (G. Turchetta, Il punto di vista, Roma-Bari, Laterza, 1999, p.7). È facile, per il lettore, immaginare gli interni dell’appartamento del professore, passare dal soggiorno alla cucina, immaginare la stanza da letto, uscire sul pianerottolo e vedere il giro di scale, così come viene naturale seguire lo sguardo di Gabriele lungo le vie di Napoli, fino al parcheggio e al supermercato scelti per eludere il controllo dei camorristi. La città rappresentata dallo scrittore è lontana dagli stereotipi di tanta narrativa criminale che mette al centro la malavita organizzata; viceversa è molto più consanguinea di quella sfuggente e sconosciuta di Anna Maria Ortese da cui, non a caso, è tratta una delle citazioni poste in esergo: «Temo di non aver mai visto davvero Napoli, né la realtà in genere».

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