Il ricatto del presente alla cultura. Intorno a due libri sulle competenze
Nel dibattito scolastico e pubblico il tema delle “competenze” o della “competenza” è diventato centrale, ma, al di là dell’accettazione entusiastica o del rifiuto sdegnato, manca la comprensione di che cosa si tratti. L’impressione, per chi si avvicini alla parola, è che si tratti di qualcosa che possiede il carattere che Metastasio e Da Ponte attribuivano alla “fedeltà degli amanti” o alla “fedeltà della donna”: “È la fede degli amanti come l’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa”.
È con questo spirito che mi sono accinto alla lettura dei due saggi sulle competenze, Massimo Baldacci, Curricolo e competenze (Mondadori, 2010) e Federico Batini, Insegnare e valutare per competenze (Loescher, 2016). I due testi sono diversi per impostazione, ma complementari.
Il costrutto di “competenza”: un breve riepilogo storico
Il costrutto di competenza nasce nella Formazione Professionale, allo scopo di valutare le abilità immediatamente spendibili sul mercato del lavoro. Solo in seguito il termine è stato esteso con una serie di Direttive europee all’interno della cosiddetta “Strategia di Lisbona” che dava ai paesi dell’Unione europea l’obiettivo di «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». Un costrutto che doveva favorire la mobilità dei lavoratori sulla base di capacità certificate standardizzate, superando le difformità dei sistemi formativi europei e il “formalismo” degli attestati scolastici. In questo senso le competenze hanno costituito la leva per l’omogeneizzazione dei sistemi formativi, non solo europei, ma mondiali, attraverso l’opera dell’OCSE-PISA e delle sue rilevazioni.
L’intera questione è interna alla discussione sul “Capitale Umano”, il controverso concetto introdotto dal Premio Nobel per l’economia Gary Backer nel 1964, diventato centrale per la costruzione della “società della conoscenza”. In sintesi, la teoria del “Capitale Umano” ritiene che la risorsa economica più produttiva sia l’uomo stesso con le sue conoscenze e che questa “risorsa” vada capitalizzata per l’interesse individuale e collettivo – per la “ricchezza delle nazioni”.
Questa lettura delle competenze come componente fondamentale del Capitale Umano è rifiutata come riduttiva sia da Baldacci che da Batini. In effetti, così intesa, la competenza si riduce alla capacità di eseguire un compito prefissato, ma poco aggiunge alla dimensione sociale e morale dell’individuo, oltre ad essere poco flessibile rispetto alle “novità” ed “innovazioni” di un mondo in rapidissima evoluzione.
Baldacci: le competenze come “obiettivi formativi di secondo ordine”
Baldacci colloca le competenze all’interno di un problema secolare della formazione scolastica, che può essere sintetizzato in questa nota ma paradossale osservazione: avere una conoscenza “scolastica” di qualcosa è, nel linguaggio ordinario, sinonimo di conoscenza scarsa, superficiale. Pertanto si domanda se il costrutto di competenza, produttivamente inserito nel contesto scolastico, possa ovviare a questo difetto:
curricoli che danno adeguato spazio alle competenze sembrano in grado di favorire il passaggio da una formazione scolastica basata sull’apprendimento riproduttivo e meccanico di conoscenze verbali, a un apprendimento maggiormente attivo, intelligente e trasferibile (p. 13).
Le competenze andrebbero inserite nei curricoli come “obiettivi formativi di secondo ordine” per la selezione di metodi e contenuti. Un curricolo seleziona i contenuti e i metodi sulla base del loro valore in funzione delle finalità generali. In un curricolo classico, centrato su un certo numero di conoscenze da trasmettere, la lezione frontale è il sistema più economico in termini di tempo e impegno, rispetto, ad esempio, alla “lettura guidata” o alla “classe rovesciata”. Ma se esiste l’obiettivo di secondo ordine delle competenze, l’analisi costi-benefici cambia: ad esempio la lettura guidata, oltre alla trasmissione di conoscenze, produce effetti sulla comprensione del testo e permette di ipotizzare un processo di transfer, cioè di applicazione delle conoscenze acquisite a nuovi compiti.
Ecco quindi, secondo Baldacci, gli effetti positivi dell’introduzione delle competenze nel curricolo: 1) il passaggio dal verbalismo all’apprendimento attivo; 2) il passaggio dall’apprendimento meccanico alla comprensione; 3) il passaggio dalla riproduzione culturale alla soluzione di problemi; 4) il passaggio dall’apprendimento incapsulato al “transfer”.
Tuttavia Baldacci si muove in modo molto cauto e invita a evitare un «sovraccarico di attese nei suoi [della competenza] confronti: come se il concetto di competenza fosse capace di reimpostare da cima a fondo la formazione scolastica e risolverne tutti i problemi» (p, 13). Innanzitutto sembra perfettamente consapevole del fatto che siamo molto lontani dal possedere una definizione teoricamente ed epistemologicamente salda del concetto e rinuncia perciò a fondare una vera e propria teoria della competenza, limitandosi a proporre un paradigma, cioè una serie di assunti sparsi, ma coerenti, che possano guidare la pratica. In secondo luogo, dopo aver rigettato le concezioni più riduzionistiche e funzionalistiche del concetto di competenza, ammette che sia proprio una caratteristica intrinseca alla competenza, quella di essere sempre “contestualizzata”, a far correre il rischio di ridurla a «una capacità strutturata in funzione di uno specifico contesto d’uso, in modo simile alla competenza medica», obiettivo che è difficile perseguire nella scuola di base e probabilmente anche incongruente con i suoi scopi.
Perciò Baldacci propone di
distinguere tra competenze in senso forte ed in senso debole, o se si preferisce tra competenze di base e competenze specializzate. La distinzione si basa sul diverso peso della componente legata al contesto. Le competenze specializzate sono competenze in senso forte: includono un apprendimento del contesto d’uso e dei correlati principi strategici; sono le competenze a cui mira la formazione professionale, che per promuoverle si affida a una combinazione di istruzione e tirocinio-apprendistato. Le competenze di base sono competenze in senso debole: si basano su un’integrazione tra conoscenza concettuale, cognizioni procedurali e conoscenze metacognitive («deweyanamente»: tra sapere, fare e pensare), senza che però quest’ultima componente preveda principi strategici contestualizzati; tale componente riguarda piuttosto la consapevolezza dell’uso della conoscenza (non necessariamente strutturato a livello della capacità di resoconto verbale), (p. 114).
Si tratta di un difficile equilibrio tra la necessità di decontestualizzare, per evitare la competenza forte, e, contemporaneamente, di contestualizzare, perché altrimenti non si danno competenze. Insomma: la compatibilità tra competenze e formazione scolastica, tra necessità di formazione generale e di efficacia contestuale sembra essere un paradosso. Si dice che ci sia, ma non si sa dove sia. Come l’araba fenice, appunto.
Federico Batini: le competenze come sapere-cardine di un “mondo nuovo”
Passiamo al testo di Federico Batini. Qui il discorso è più chiaro, meno sfumato e prudente, fin dall’inizio. Il punto di partenza è la constatazione della contraddizione tra una realtà sociale in costante cambiamento e l’immobilismo della struttura scolastica. Secondo Batini, sarebbe paradossale pensare di inserire i giovani in un mondo con “dispositivi sociali” sostanzialmente immutati da secoli, quali sarebbero quelli che la scuola continua a fornire. Poiché il fine della scuola viene identificato da Batini nel “servizio alla persona”, essa deve fornire alle nuove generazioni strumenti adeguati al loro presente in termini di possibilità di «gestire la propria vita, di relazionarsi con gli altri, di esercitare, cioè, un certo grado di controllo sulla dimensione soggettiva e su quella collettiva del loro futuro» (p. 7).
Il ragionamento di Batini prende avvio dalla constatazione, data per scontata, di un mutamento epocale nella forma che la cultura ha assunto:
Una cultura è un patrimonio di conoscenze, valori, repertori di comportamento, modelli di relazione e strumenti per l’attribuzione di significato che, una volta, veniva condiviso da una comunità geograficamente limitata e piuttosto stabile nel tempo. La comunità stessa, infatti, veniva definita attraverso gli scambi materiali e immateriali che in essa avvenivano (dalle merci agli affetti). Con i cambiamenti occorsi negli ultimi venti anni si opera una frattura: le comunità non vengono più definite attraverso i luoghi che condividono. Scambi materiali e immateriali avvengono, oggi, anche attraverso le tecnologie della comunicazione, che rendono virtuali distanze e tempi. Una cultura, inoltre, è, per definizione, qualcosa in movimento, che si produce attraverso gli scambi: a partire dagli anni Novanta questo movimento ha conosciuto accelerazioni prima impensabili (p. 8).
Restando fermi di fronte a questi mutamenti, si finirebbe per trasformare la cultura, che è uno strumento di integrazione sociale, in un museificato “folklore”, davanti al quale i soggetti diventano passivi ed eterodiretti, costretti a «inserirsi in un corpus piuttosto statico di conoscenze e anche di aderire ai valori e ai significati veicolati da quelle conoscenze», che manterrebbero una «selezione “risorgimentale” dei contenuti». Quella operata nella scuola sarebbe una vera e propria «mistificazione», dal momento che ci si attarderebbe su conoscenze e pratiche ormai completamente fuori dalla storia, restando ancorate a una «concezione ampiamente superata sia dalla normativa, sia dalla ricerca educativa evidence based» (ivi):
Ai sistemi di istruzione è richiesto allora di modificare il proprio impianto e le proprie modalità, rimanendo immutata la finalità: consentire alle persone e alle comunità di vivere insieme in un sistema fondato su reciproci diritti, riconosciuti a tutti, e doveri condivisi e dei quali ciascuno sia responsabile. Un sistema di istruzione deve, inoltre, garantire a tutti l’acquisizione di strumenti per esercitare controllo autonomo sulla propria vita e sulle proprie scelte (ivi).
Ad essere modificati in profondità sono anche il rapporto tra docente e studente, che perde l’unidirezionalità della comunicazione (da soggetto esperto a soggetto inesperto), la metodologia, che deve farsi laboratoriale e attiva, i contenuti della didattica, ampliati dall’apporto dei linguaggi visivi, della connessione perenne, dell’enfasi sull’emozionale oltre o forse più che sul razionale, …:
L’appoggiarsi a saperi codificati da decine e decine di anni, in molti casi da centinaia, può divenire allora un veto e proprio “rifugio” difensivo per una parte di una generazione. L’autorevolezza di un insegnante non risiede più, oggi, nella conoscenza, pur enciclopedica, della propria disciplina, ma nella capacità che ha, attraverso la propria disciplina, di fornire strumenti e materiali utili alla vita quotidiana e futura dei ragazzi, di incidervi, di far sì che gli apprendimenti che conquistano i propri allievi siano loro utili per diventare maggiormente in grado di scegliere, di controllare attivamente la propria vita e nel renderli consapevoli di ciò che stanno apprendendo (e soprattutto capaci e desiderosi di apprendere ancora e di farlo autonomamente). Ancorando gli apprendimenti all’esperienza, alla vita quotidiana e ai progetti di vita dei soggetti che dovrebbero essere i protagonisti dei sistemi di istruzione e formazione, potremmo riuscire nel difficile compito di riattribuire ai percorsi di istruzione e formazione significatività e autorevolezza piene, a ridare alla scuola la centralità che merita. Le competenze appaiono, oggi, come il costrutto in grado di favorite questi cambiamenti (p. 25).
Come già Baldacci, anche Batini è consapevole dell’esistenza del rischio di derive riduzionistiche e del carattere non taumaturgico delle competenze: le competenze non possono essere intese soltanto come la capacità del tutto strumentale di eseguire compiti funzionali al mercato del lavoro, perché hanno invece un significato culturale e in continua evoluzione; l’enfasi sulla loro acquisizione può diventare fattore di esclusione e di “selezione in entrata” per qualcuno; si può finire per concentrarsi sulla dimensione individuale e affermativa dimenticando quella collettiva e quella critica, …
Nonostante questi rischi, Batini ritiene comunque di poter concludere affermando che «le competenze […] possono comportare anche confusioni e problemi: non sono la panacea di tutti i mali della scuola, ma costituiscono un importante vettore di cambiamento» (p. 107).
Anche qui, dunque, conclusioni aperte e problematiche: forse troppo?
Le tre funzioni della scuola e la tradizione culturale
Conclusa la presentazione dei due testi, facciamo qualche considerazione critica.
La scuola, nella sua lunga storia, ha adempiuto e continua ad adempiere a tre fondamentali funzioni:
1) è un servizio alla persona. Si va a scuola per ottenere un diploma, proseguire negli studi, accedere al mercato del lavoro. Insomma la scuola accresce il Capitale Umano, per usare un termine ormai comune. La scuola serve, o dovrebbe servire, all’individuo per migliorare la sua vita, lavorativa e non;
2) è un’istituzione pubblica, cioè dello Stato. In questo senso serve interessi che sono collettivi. In una società democratica sviluppa, o dovrebbe sviluppare, senso della democrazia, conoscenza dei diritti e doveri del cittadino, consapevolezza della comunità – un tempo si sarebbe detto “Amor di Patria”, oggi si dice “cittadinanza europea” –, ecc…;
3) è lo strumento che collega Passato e Presente. Trasmette le conoscenze del Passato e garantisce la continuità intergenerazionale. Nel farlo inserisce i giovani non semplicemente nella società presente o in quella futura, ma in una linea ininterrotta che costruisce il senso della realtà umana.
Da dove nasce il bisogno della cultura? La funzione culturale è una funzione di durata.
Nasce dall’aspirazione di sopravvivenza oltre i limiti delle vite biologiche e dalla fiducia che ciò sia possibile. Se gli esseri umani accettassero l’idea che con la morte tutto finisce, perché non c’è futuro o si disperassero del futuro, non ci sarebbe spazio per la cultura” (Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, 2019).
La dimensione che collega l’esperienza odierna con il Passato è quella che garantisce la libertà, perché mostra le molteplici possibilità dell’esistenza umana. Pensare il Passato in funzione del Presente introduce il germe del totalitarismo così come bene aveva visto George Orwell: «Chi controlla il Presente, controlla il Passato e chi controlla il Passato, controlla il Futuro».
Tutto ciò ci riporta ad un’altra opposizione presente nei discorsi sulla scuola e cioè l’opposizione su Educare ed Istruire, un dibattito nato con la Rivoluzione Francese, che può essere riassunto nel confronto tra Condorcet e Talleyrand (Zagrebelsky, pp. 48 sgg.). Secondo Condorcet la scuola pubblica si dovrebbe limitare a trasmettere conoscenze e non valori: certo possiamo sperare che le conoscenze si trasformino in valori, ma questo compito è affidato all’individuo. Talleyrand invece riteneva che la scuola pubblica dovesse “produrre” il cittadino, dovesse diffondere i valori “nuovi”.
Ovviamente la scuola adempie ad entrambi i compiti, ma se si rompe l’equilibrio a favore di uno solo dei due fattori, o si prepara una scuola funzionale allo “stato etico”, secondo la visione di essa come istituzione statale, o si prepara una scuola funzionale al mercato delle opportunità, secondo la visione del servizio alla persona che vede lo studente o la famiglia come soggetti che esprimono “preferenze” e “bisogni” individuali.
Secondo Zagrebelsky, l’equilibrio tra le tre funzioni dello scuola – politica, economica e culturale – e quello tra educare ed istruire è fondamentale per la libertà al pari del principio liberale della separazione di poteri. Il docente risponde a tre committenti di pari valore: lo Studente, la collettività politica (lo Stato) e la Cultura. Privilegiarne uno conduce ad una scuola piegata ad interessi particolari. Garanzia dell’equilibrio è la libertà d’insegnamento, che vincola il docente ad equilibrare gli interessi fra tutti i fattori in gioco. I giovani hanno diritto ad un istruzione che li lasci liberi di scegliere “come vivere”.
Anche Baldacci e Batini hanno presente questo rischio, il primo sostenendo il valore del carattere trasmissivo della scuola, il secondo ponendo tra i rischi delle competenze il perdere la dimensione critica dell’insegnamento. Tuttavia ad emergere nelle loro trattazioni è senza dubbio il carattere positivo delle competenze: per Baldacci per il fatto che esse garantirebbero la possibilità di risolvere il carattere “scolastico” dell’istruzione, per Batini perché consentirebbero l’adeguamento della scuola alla realtà e l’incremento delle potenzialità dello studente.
Quest’idea di insegnamento come “insegnare a vivere” proviene in effetti dal cuore stesso della Pedagogia, ovvero dall’opera di Rousseau e Dewey, che ritenevano l’esperienza centrale, non solo come mezzo, ma anche come fine dell’insegnamento. Quello che i due autori sembrano sottovalutare è che quest’enfasi attivistica, sia pur con le prudenze espresse, finisce per essere terribilmente funzionale alle teorie economiche della “società della conoscenza”, del “servizio alla persona”, del Capitale Umano. Se si trascura la capacità di resistenza del Passato, delle conoscenze astratte, “inutili”, quelle che conducono al Bello, al Vero ed al Giusto , che vanno intesi come problemi e non come definizioni, il rischio è enorme.
Si può ritenere che la Cultura e la tradizionale divisione disciplinare siano una mistificazione, come afferma Batini, ma lo è anche assumere la realtà odierna come eterna, data, risolta, non conflittuale. Fare questo non è meno mistificante che pensare ad una trasmissione statica, unilaterale, di idee e valori; semmai lo è di più, perché piega l’intera concezione della scuola a un singolo momento storico, il nostro presente, vivendolo come eterno. Persino la definizione di “globalizzazione” è storicamente controversa ed i suoi esiti incerti. Il Presente ed il Futuro non sono tempi che si diano immediatamente al nostro sguardo, sono il luogo del conflitto; persino il Passato, che in una visione come quella di Batini viene inteso come un orizzonte concluso una volta per tutte, utile semmai come repertorio per il Presente, è un luogo soggetto a mille interpretazioni e reinterpretazioni, ma resiste all’esistente con la sua materialità (monumenti, opere d’arte, libri…) sin tanto che non viene vissuto per la sua utilità presente: in questo caso si trasforma in merce, oggetto di consumo (Hannah Arendt, La crisi della Cultura: nella società e nella politica, in Tra Passato e Futuro).
Conclusione
Ogni epoca ha privilegiato uno dei tre aspetti dell’istruzione. Il fascismo tentò, con qualche successo, di vederla come istituzione politica al servizio dello Stato, o della Rivoluzione Fascista, oggi privilegiamo l’aspetto economico, il servizio alla persona: ma solo il suo carattere culturale è garanzia di libertà per tutti. Ce lo ricorda anche l’ultimo Esame di stato, 2018/19. Infatti uno dei brani proposti, quello di Tomaso Montanari descrive bene l’importanza della trasmissione della Cultura:
Se questo vale per tutta la tradizione culturale (danza, musica, teatro e molto altro ancora), il patrimonio artistico e il paesaggio sono il luogo dell’incontro più concreto e vitale con le generazioni dei nostri avi. Ogni volta che leggo Dante non posso dimenticare di essere stato battezzato nel suo stesso Battistero, sette secoli dopo: l’identità dello spazio congiunge e fa dialogare tempi ed esseri umani lontanissimi. Non per annullare le differenze, in un attualismo superficiale, ma per interrogarle, contarle, renderle eloquenti e vitali. Il rapporto col patrimonio artistico – così come quello con la filosofia, la storia, la letteratura: ma in modo straordinariamente concreto – ci libera dalla dittatura totalitaria del presente: ci fa capire fino in fondo quanto siamo mortali e fragili, e al tempo stesso coltiva ed esalta le nostre aspirazioni di futuro. In un’epoca come la nostra, divorata dal narcisismo e inchiodata all’orizzonte cortissimo delle breaking news, l’esperienza del passato può essere un antidoto vitale. Per questo è importante contrastare l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista […]. L’esperienza diretta di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico va in una direzione diametralmente opposta. Perché non ci offre una tesi, una visione stabilita, una facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci mette di fronte a un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio è infatti anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte a un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi.
Le competenze sono, probabilmente, una risposta ad esigenze giuste, ma anche una minaccia alla funzione trasmissiva della scuola e, quindi, alla libertà collettiva.
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