Il mestiere del traduttore / 3 – Maria Baiocchi
Se oggi sono la voce italiana di John Coetzee devo ringraziare Carmine Donzelli che nel ‘93 mi aveva chiamato a partecipare alla sua avventura editoriale. Prima ancora che la Casa editrice aprisse i battenti eravamo a Francoforte a parlare con Murray Pollinger (allora agente di John Coetzee). Pollinger, figlio di uno dei pionieri delle agenzie letterarie, capì che la Casa editrice che ancora non c’era aveva tutte le carte in regola per affermarsi e da Donzelli uscì per la prima volta, col titolo Deserto, nella traduzione di Paola Splendore, In the heart of the Country. Così era nato un rapporto che si sarebbe consolidato immediatamente quando alla Donzelli approdò il dattiloscritto di The Master of Petersburg. Per me l’ennesima traduzione dall’inglese, ma la prima di un romanzo da quella lingua. Dopo una gran quantità di ponderosi saggi finalmente ero approdata alla fiction, il mio oscuro oggetto del desiderio.
E ci ero arrivata con Coetzee. Meglio di così non mi poteva andare. Ripensato dall’oggi è stato quello il vero inizio della mia vita di traduzione. Quell’incontro mi ha rivelato tutto un universo letterario, un mondo di carta e d’inchiostro nel quale vagavo senza bussola. Perché, a differenza di altri scrittori, questo amava parlare dei “suoi autori” e non solo di quelli morti, come più spesso succede.
Eravamo in aereo da mezz’ora quando mi ha chiesto se conoscevo Giovanni Giudici. Lo aveva appena incontrato in Francia ed era rimasto colpito dall’uomo, voleva approfondirlo.
Così io, che lo avevo letto un po’, ma non certo tutto, ho cominciato a leggerlo anche nella traduzione inglese di Daniel Mendelsohn (che allora non conoscevo e che ho incontrato solo di recente a “Libri Come”, dove presentava il suo bellissimo Un’Odissea, nella traduzione di Norman Gobetti). Da lì è iniziata la costruzione di uno scambio epistolare – l’e-mail ancora non esisteva – in cui io ho fatto un po’ da ponte tra Giudici e Coetzee. Un’altra forma di “traduzione”.
Ma volevo procedere con ordine… cioè à rébours.
A fine settembre 2017 a Oxford si è tenuto un convegno, Traveling with John Coetzee, organizzato da Elleke Boehmer e Michelle Kelly su John Coetzee e in particolare sui tanti modi e i tanti mezzi attraverso cui la sua opera ha viaggiato e continua a viaggiare per il mondo. Il teatro, l’opera lirica, la fotografia, il cinema, la critica letteraria e la traduzione. L’autore ha deciso di intervenire in chiusura per leggere un brano da Boyhood, sottraendosi, come fa ormai da anni, al dibattito, alla discussione e all’incontro col pubblico.
Ha però partecipato, tra il pubblico, a una giornata del convegno: una sola. Quella sulle sue traduzioni. Eravamo invitati in quattro: la sua traduttrice serba, Arijana Bozovic, Eva Cossee, l’editrice olandese, Eva Cossee, Peter Bergsma il traduttore olandese e io.
Assistere a quell’incontro è stato un gesto significativo da parte dello scrittore più schivo che ci sia, che pure con la sua presenza ieratica richiama un pubblico attento, che accorre ogni volta, come per una performance. In quell’occasione io, che avevo cominciato a tradurre a conclusione dei miei studi di lettere proprio perché affascinata da un lavoro che mi avrebbe permesso di fare le cose che mi piacevano, dietro lo schermo del ben più autorevole “altro”, mi sono trovata a parlare “ex cathedra” del “mio” viaggio con l’autore. Il viaggio che mi aveva portato fin lì.
Quando si parla da un palco ho capito che i timidi devono scegliere un interlocutore privilegiato tra il pubblico e fingere che si tratti di un dialogo. Così ho fatto, e il mio interlocutore era proprio “il mio autorevole altro”. Quando alzavo la testa leggevo, con una qualche trepidazione, l’effetto che quelle parole sortivano sul diretto interessato.
Dunque il paradosso di questo viaggio nel mondo della traduzione letteraria, iniziato con John Coetzee e con lui continuato, come in un pellegrinaggio contemporaneo al quale strada facendo si associavano altri compagni di strada, che arricchivano il mio cielo di stelle fisse e di pianeti in un continuo sconfinamento tra generi, lingue e terre, mi aveva portato – mi ha portato – a fare quello che non avrei voluto fare: uscire allo scoperto e dire IO. Invece di tenermi sempre e solo ben difesa dietro lo schermo delle parole dell’altro. La mia comunicazione ad Oxford l’avevo scritta di getto in inglese, per un curioso rovesciamento dei ruoli, migrando, per parlare di Coetzee, verso la sua lingua – io che mai mi azzarderei a tradurre in una lingua altra dalla mia. E adesso qui, per contribuire alla bella avventura nella quale mi ha voluto coinvolgere Morena Marsilio, ho fatto un esperimento di autotraduzione della mia comunicazione per Oxford e ho capito che, come dice Umberto Eco, l’originale non è mai fedele alla traduzione… eccolo:
Viaggiando… è stato così che ho incontrato John Coetzee, nel 1994, all’aeroporto di Roma per andare a Palermo, anzi a Mondello, dove avrebbe ricevuto il Premio internazionale assegnato a un autore straniero per l’intera opera. In quel momento il suo ultimo romanzo, The Master of Petersburg, ancora circolava solo nella mia traduzione italiana. Solo mesi dopo sarebbe uscita la prima edizione inglese. Ricordo che Luigi Meneghello, l’autore italiano premiato in quell’occasione per il suo bellissimo Dispatrio, chiese a Coetzee quando avrebbe potuto leggerlo in originale (Meneghello viveva in Inghilterra dove insegnava a Reading) e Coetzee rispose: ma perché? c’è qui la traduzione italiana!
Erano i primi sintomi – che potevo osservare – della tendenza di questo autore ad essere schivo quanto e più di me. E dunque il mio solido schermo immaginario cominciava già a traballare.
Quel romanzo l’ho tradotto 25 anni fa, all’epoca felice in cui potevo lavorare a tradurre un testo amato quasi non-stop – con una furia e una compulsione che mi inchiodavano alla tastiera per ore e ore di fila. E The Master, pieno com’era di echi dei Demoni, mi aveva catturato.
Eravamo già in aereo quando John mi chiese quanto ci avessi messo a tradurlo. Risposi candidamente “17 giorni” e lui sussultò.
“Ma 17 giorni non-stop” aggiunsi, sperando di rassicurarlo.
Da allora ho perso quel dono divino del tradurre con furia, invasata. Ma allo stesso tempo penso di aver acquisito una qualche competenza in più che mi piacerebbe saper trasmettere, anche se ho l’impressione che quello del traduttore non sia un mestiere che si può insegnare, altro che lavorando nel contesto molto specifico del testo stesso. Ma tornando al “dono”, in che cosa questo consista, non so bene, non sono in grado di articolarlo. E di fatto trovo difficile estrarre regole o schemi utili per gli altri – o perfino per me in futuro – dal mio stesso lavoro. Oggi, dopo aver tradotto decine di opere da tre lingue, non sono diventata più saggia, né più sapiente, ma certamente più lenta. Più lenta per il bisogno di capire il mondo dietro il romanzo con tutti i dubbi che questo solleva laddove prima ero più ingenua, diretta, immediata.
Quanto all’opera di John Coetzee, potrei elencare i tanti vantaggi, sia intellettuali sia pratici, che ho ricavato dal tradurla – ho tradotto quasi tutto quello che ha scritto. Quasi. Lavori per me tanto preziosi. Ma spero che i vantaggi siano in qualche modo reciproci. A parte l’ovvio servizio di tradurlo, ci sono anche altri modi in cui credo di essergli stata utile.
Per esempio a Mondello, alla cerimonia di premiazione, quando venne chiamato sul palco a parlare, mi diede una spinta e sussurrò “vacci tu, a me viene il vuoto pneumatico”. Così ci andai io e Maria Luisa Spaziani – che presiedeva – finì per interrogare me sulla mia traduzione e io lessi due pagine del Maestro di Pietroburgo. Dopo, John Coetzee salì sul podio, disse “Grazie” e intascò l’assegno e l’applauso [e nel pronunciare questa frase ho alzato la testa dal foglio in tempo per vedere John che scoppiava in una sonora risata].
Dunque sì: in quella prima speciale occasione gli sono stata di aiuto…
Ma dopo “Viaggiare con Coetzee” è diventato quasi un tratto del nostro rapporto. Non mi sogno nemmeno di perdere l’opportunità di incontrarlo se va in un luogo dove posso in qualche modo raggiungerlo per assistere agli eventi ai quali lui è regolarmente invitato in Italia, come per esempio a La Milanesiana.
Io però sono timida e la traduzione mi si addice anche perché posso nascondermi dietro l’autore – la tanto spesso vilipesa invisibilità del traduttore è una benedizione per me. E tuttavia avevo accettato l’invito ad Oxford ad affrontare quello che più mi spaventa – un pubblico attento e colleghi brillanti – situazione in cui mi prende la classica paura da palcoscenico e cerco disperatamente qualcosa di intelligente da dire.
Ma, poiché la contraddizione è sempre stata il mio pane quotidiano, ero anche felice e grata di quell’invito a parlare davanti a tante persone a me affini. Perché questo è il premio più bello per chi lavora con la poesia, il romanzo, la musica e l’arte in generale: sentirsi parte di quella patria speciale, quella famiglia allargata che arriva lontano nel tempo e nello spazio.
Ma volevo parlare di quello che ho scoperto traducendo Coetzee. Che mi incanta e che cerco e spero di riuscire a riprodurre nelle mie traduzioni. Qualcosa di molto evidente nel carattere distopico dei suoi romanzi, molto evidente nella trilogia di “Gesù”, ma diversamente presente in tutti.
Per quanto tra loro siano diversi, lo stile dei suoi libri è inconfondibile. Si può cominciare a leggere un suo romanzo o il suo racconto più breve e sapere immediatamente chi scrive.
In questo, invecchiare aiuta: leggendoli riconosco gli autori. Soprattutto questo autore.
Ma cos’è che lo rende per me così riconoscibile?
È questa forse l’unica domanda da fare, l’unica di una qualche utilità per la traduzione in generale: cos’è che contraddistingue in modo speciale la scrittura dell’autore che traduciamo?
Credo di aver identificato quella caratteristica, per John Coetzee – una caratteristica quasi musicale – nel suo “tempo”[1]. Questo è quanto mi succede davanti alla sua pagina: comincio a leggere l’incipit di una frase e so che le parole successive scorreranno in quell’atmosfera rarefatta che è sua e solo sua. E a quello punto nella mia traduzione. La sua lingua è in qualche modo neutra e apparentemente facile, eppure, al tempo stesso, tradurlo non è per niente facile.
E non parlo delle numerose citazioni nascoste, dei riferimenti a filosofi, poeti, musicisti ecc. o a volte delle sue frasi infinitamente analitiche…. ma soprattutto di afferrare quel tempo speciale.
Spesso mi chiedo perché tanti lo trovino enigmatico, e sconcertante. Perché? I suoi lettori fedeli ben presto scoprono la necessità di entrare in quel tempo speciale, spesso non situabile nella storia o nel pianeta, un tempo in cui i personaggi respirano un’aria più fina, in cui il monologo interiore procede, ossessivo, indifferente alle condizioni sociali e alle strettoie dell’alto e del basso, dove troviamo il dialogo filosofico sulle labbra di ogni sorta di emarginati, da Vercueil (Età di Ferro) a Dimitri (I giorni di scuola di Gesù) o su quelle di un bambino di sei anni. Questo è ciò che collega tutti i suoi romanzi e i romanzi ai saggi, tra i quali s’intesse una rete fittissima di rimandi. Ma questo è ancora un altro discorso …
La verità dei personaggi non è diminuita dalla loro eccentricità e dopo un po’ diventa perfettamente normale leggere le discussioni filosofiche degli scaricatori di porto come respirare in quell’atmosfera senza peso e muoversi in quel tempo rallentato, sentirne le pause, le parole distillate, i dialoghi severi, illuminati da lampi di ironia e da improvvise ventate di poesia.
Voglio raggiungere quella sottile ricchezza, quella complessità; leggo e rileggo il dattiloscritto e in particolare l’incipit, prima rapidamente e poi più lentamente, fino a che non sento l’impulso di scrivere la prima frase. Poi continuo, ma in verità dovrei dire “continua”: non debbo aspettare l’ispirazione io… Qualcuno – l’autore – l’ha fatto per me. Per noi. Allora non spezzerò una lancia per sostenere la creatività della traduzione, almeno non nel mio caso. Ma di una lotta si tratta, sì, una lotta per arrivare a quella “misura”, unica anche nella lingua d’arrivo. Poi va avanti da solo e io mi sento come dicono di sentirsi a volte gli scrittori nei loro momenti di grazia, quando non sanno come sia possibile ma qualcosa/qualcuno “ditta dentro“. Nel mio caso il gentile daimon è un traduttore e detta in italiano.
E quando ci ripenso mi chiedo cosa sia successo 25 anni fa con Il Maestro. Com’è stato possibile? Sarà stato un caso fortunato, o forse allora avevo quel dono di automatismo felice di cui non ero nemmeno consapevole? Forse. O forse tutto quello che ho detto fin qui è una costruzione, inventata da me per spiegare qualcosa – solo in questo paragonabile alla creatività dell’autore – nel suo meraviglioso mistero.
Bibliografia delle mie traduzioni di John Coetzee
Il Maestro di Pietroburgo, Donzelli 1994; Einaudi 2005
Aspettando i barbari, Einaudi 2000
La vita e il tempo di Michael K, Einaudi, Torino 2001
Terre al crepuscolo, Einaudi, Torino 2003
Elizabeth Costello, Einaudi, Torino 2004
Slow Man, Einaudi 2006
Diario di un anno difficile, Einaudi 2008
Tempo d’estate, Einaudi, Torino 2010
L’infanzia di Gesú, Einaudi, Torino 2013
John M. Coetzee e Paul Auster, Qui e ora, Einaudi, Torino 2014
I giorni di scuola di Gesú, Einaudi, Torino 2016
Saggi tradotti con Paola Splendore
Doppiare il capo, Einaudi, Torino 2011
Lavori di scavo, Einaudi, Torino 2010
John M. Coetzee e Arabella Kurz, La buona storia, Einaudi, Torino 2016
In uscita
Bugie e altri racconti, Einaudi 2019 (in uscita il 28 maggio)
Late Essays: 2006-2017, trad. di M. Baiocchi e P. Splendore, Einaudi 2020
[1] Most illuminating of all was Coetzee’s own reading of the first three chapters of Boyhood. It lent support to a comment made by his Italian translator, Maria Baiocchi, in her movingly affectionate speech the previous day: that the essence of Coetzee’s prose lies in its “special musicality”, and above all, its tempo.
Così ha scritto Oliver Ready, critico e traduttore in inglese, tra gli altri di Dostoevsky, nell’articolo pubblicato sul TLS all’indomani del convegno.
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