Recalcati, l’etica del desiderio e l’occhio cieco della psicoanalisi
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
La morte di Cristo non è stata un sacrificio patito per ottenere in contraccambio dal Padre – in una logica economica di scambio, di dare e avere ̶ la possibilità di salvezza del genere umano. Si è trattato invece di una autorealizzazione, della conclusione di un progetto di vita, di una «vocazione» (di un “destino”, avrebbe detto Debenedetti: di un destino in senso freudiano) da porre come esempio agli uomini e così sollecitarli a una vita liberata dai divieti, dalle imposizioni, dai sacrifici che costellano la tradizione moralistica del Vecchio Testamento e continuano a sopravvivere anche oggi, dentro e fuori la religione cristiana.
Questa interpretazione di Recalcati (qui liberamente e molto sinteticamente rielaborata) rovescia un modo di pensare e di vivere un cristianesimo colpevolizzante, ancora largamente egemone nel costume e nella psicologia comune. Nello stesso tempo rivela un carattere della ricerca e della scrittura dell’autore di questo libro (Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Cortina editore): Recalcati è un “urbanizzatore”. Come Gadamer, secondo Habermas, “urbanizzò” Heidegger rendendolo accessibile ma anche temperandone asprezze e angoli, così Recalcati fa con Lacan. In questo suo atteggiamento ci sono meriti indubbi (per esempio, la capacità di riportare gradi problemi filosofici e psicoanalitici alla vita comune di oggi, dalla politica alle psicopatologie quotidiane), ma possono annidarsi anche dei rischi di semplificazione e di adeguamento alle esigenze sociali con esiti di tipo conservatore. Voler essere compresi e accettati da tutti può implicare quei facili adeguamenti, che talora si intravedono nei suoi libri più recenti.
Non in questo, però, che trovo anzi assai coraggioso. Nel senso comune, nel costume e nel modo prevalente di praticare la religione, il dovere e la legge sono visti come argini al desiderio o come sua negazione. Di qui l’ossessione del dovere (Recalcati ricorda l’immagine del cammello dello Zarathustra, che si carica di ogni peso), ben rappresentata dall’imperativo kantiano “tu devi!”. L’uomo finisce schiacciato da un super-io moralistico, che assume la forma della Legge del Padre o della Madre, o della religione, o del lavoro, o della famiglia, e ne annienta a poco a poco la forza vitale, la vita sessuale, la possibilità di scelta, costringendolo a una esistenza sempre più rattrappita, sempre più melanconica e depressa «Nel soggetto melanconico la Legge del Super-io schiaccia la vita nella forma dell’autorimprovero e dell’autoaccusa perpetua. Il soggetto vive costantemente in un rimorso che non lo abbandona mai», scrive Recalcati.
Attraverso il sacrificio l’uomo-cammello rinuncia al desiderio, cercando un godimento masochistico: se faccio tutto come “devo” fare – pensa – avrò la ricompensa di una vita “a posto” e, per il credente, un futuro nel Paradiso. Recalcati mostra come un aspetto estremo di questo atteggiamento si riscontri nei terroristi islamici, ma anche nelle anoressiche che distruggono il proprio corpo sacrificandolo a un ideale di bellezza o al godimento masochistico di una vendetta contro i genitori.
Il lavoro analitico consiste nel riportare il paziente ad assumere la verità del proprio desiderio e a capire che Legge e desiderio non sono in opposizione, ma possono coincidere in una nuova visione dell’etica. Lacan riassume la propria lezione etica in una domanda scottante che rovescia l’assunto kantiano: «Avete agito conformemente al desiderio che vi abita?».
Il desiderio che abita dentro di noi non è il qualunque desiderio, non è la pulsione anarchica, non è l’istinto. È la forza di una spinta interna e di un “destino”, una «vocazione», in cui gli aspetti emotivi e quelli intellettuali convivono (torna in mente il discorso di Matte Blanco), un progetto di autorealizzazione, in cui ogni scelta viene compiuta come seguendo il filo di una corrente interiore. La responsabilità della scelta consiste nel non tradire il desiderio che ci abita. Il compito dell’analista è anche quello del “buon rieducatore” (avrebbe detto Jervis), il cui fine è ridare possibilità di scelta a un soggetto nevrotico che non è più libero perché prigioniero della coazione a ripetere l’atto del sacrificio. In questa fedeltà alla vocazione, scrive Recalcati, «il desiderio si differenzia non solo dal comando del Super-io, ma anche dall’arbitrio del capriccio».
Fin qui Recalcati (seppure riassunto molto sinteticamente e con qualche libertà linguistica). La sua è una tesi affascinante sul piano filosofico e utile su quello terapeutico perché può essere di grande aiuto, per esempio, a chi lotta contro la depressione. Ma proprio a questo punto si può cogliere il limite inevitabile di questo discorso per il resto accettabilissimo. Si tratta del lato oscuro o dell’occhio cieco della psicoanalisi. La maturità, che questo progetto di vita comporta, come può competere con le esigenze di una società alienata non tanto dal cristianesimo colpevolizzante quanto dai consumi e dall’imposizione vorticosa di sempre nuovi desideri sollecitati dalle pulsioni più elementari ed istintive? Insomma, direbbe Svevo, come si può vivere sani in una società organicamente ammalata? In una società simile la vocazione stessa non può essere deviata e corrotta?
Il fatto è che ogni “vocazione” è storica e deve realizzarsi storicamente. E se si tratta di contribuire a far sviluppare un progetto di autorealizzazione non si potrà agire solo sul singolo individuo, come fa la psicoanalisi, ma anzitutto su tutte le agenzie che concorrono con questo progetto o lo contrastano, a partire da quelle economiche e, oggi con particolare urgenza, da quelle educative, cioè culturali. Insomma bisogna chiamare in causa il grande assente in questo pur brillante discorso di Recalcati: la società.
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Insegnante
Gentile Prof. Luperini come fa a non trovare insopportabile uno come Recalcati?
Lei così sobrio e austero nel suo pensiero
Solo il titolo del libro fa rabbrividire.
mi rispecchio ,ma
Non ho letto il libro. Di Recalcati ho solo ascoltato qualcosa sul filgliol prodigo, il fratello minore (mi è piaciuto ed è collegato al tema del libro in questione), e sul rapporto uomo- donna (su questo il suo pensiero non mi sembra molto fine, mi sembra sottovalutare la tenerezza e l’aspetto del riconoscimento). Mi ritrovo a essere stata anoressica e ad aver interrotto una facoltà, per cominciare a studiare, senza aver avuto il coraggio di cambiare facoltà, una cosa che mi affascina, ma per cui non sono portata. Anche per studiare questa cosa mi faccio del male, forse anche perché appunto per me è troppo pesante. E’ una facoltà che non offre un lavoro con sicurezza come la prima, il lavoro sarebbe meno remunerativo. Insomma, le prospettive sono peggiori, sia per la società, sia perché non sono portata, dunque non posso ben competere. La soluzione sarebbe una terza facoltà. Insomma non c’è solo la società, ci sono anche desideri meiei che derivano da false esigenze (giudizio altrui, che distinguo da necessità, perché non comporta un bisogno); aspirazioni personali; timore di non studiare qualcosa di scientifico, c’è l’incertezza che mi accompagna e l’incapacità di fare i conti con ciò che sono e ciò che mi manca e che mi mancherebbe se facessi una scelta. . C’è insomma anche un limite personale: le mie capacità. Prendere sul serio il proprio desiderio significa anche farsi carico delle conseguenze che ciò comporta. Come crescere e non rimanere nel limbo? Non ho scritto chiaramente.
RE: Recalcati, l’etica del desiderio e l’occhio cieco della psicoanalisi
forse nel [quote name=”lanvin”]Non ho letto il libro. Di Recalcati ho solo ascoltato qualcosa sul filgliol prodigo, il fratello minore (mi è piaciuto ed è collegato al tema del libro in questione), e sul rapporto uomo- donna (su questo il suo pensiero non mi sembra molto fine, mi sembra sottovalutare la tenerezza e l’aspetto del riconoscimento). Mi ritrovo a essere stata anoressica e ad aver interrotto una facoltà, per cominciare a studiare, senza aver avuto il coraggio di cambiare facoltà, una cosa che mi affascina, ma per cui non sono portata. Anche per studiare questa cosa mi faccio del male, forse anche perché appunto per me è troppo pesante. E’ una facoltà che non offre un lavoro con sicurezza come la prima, il lavoro sarebbe meno remunerativo. Insomma, le prospettive sono peggiori, sia per la società, sia perché non sono portata, dunque non posso ben competere. La soluzione sarebbe una terza facoltà. Insomma non c’è solo la società, ci sono anche desideri meiei che derivano da false esigenze (giudizio altrui, che distinguo da necessità, perché non comporta un bisogno); aspirazioni personali; timore di non studiare qualcosa di scientifico, c’è l’incertezza che mi accompagna e l’incapacità di fare i conti con ciò che sono e ciò che mi manca e che mi mancherebbe se facessi una scelta. . C’è insomma anche un limite personale: le mie capacità. Prendere sul serio il proprio desiderio significa anche farsi carico delle conseguenze che ciò comporta. Come crescere e non rimanere nel limbo? Non ho scritto chiaramente.[/quote]
Forse nel mio caso è diverso: potrei farlo, solo che dovrei desiderare anche il lavoro meno remunerativo. Ma ho ancora un’età abbastanza valida e i mezzi economici necessari. Certo tutto ha un costo.
mi rispecchio ,ma
oppure , ancora, non tollererò mai il mio vero desiderio, non farò mai cose che mi interessano e che mi possano risultare facili, se esistono