Sì, io.
Durante l’ultima tornata di scrutini mi sono trovato a mettere a fuoco una riflessione che, ora che provo a scriverla, mi rendo conto di portare dietro da qualche buon anno. Il fatto è semplice, banale. Inizia lo scrutinio, come accade oramai in ogni scuola viene condiviso il tabellone con i voti. Il coordinatore inizia a scorrere l’elenco degli alunni, chiede a noi insegnanti se qualcuno voglia modificare qualche voto. Io, che fin dai primi anni di scuola ho sempre fatto in modo di arrivare allo scrutinio con voti certi, decido eccezionalmente di cambiarne uno: «sì, io. Enrico Bottini passa in Italiano da sei a sette». Il coordinatore esegue senza commentare, lo scrutinio continua come niente fosse. Niente fosse per gli altri. Complice forse l’aria consumata del terzo scrutinio consecutivo, mi rintrona in testa una campana a festa, ma che per essere sentita anche da chi legge ha bisogno di qualche riga che spieghi chi sia Enrico Bottini.
Enrico Bottini, il mediocre
Enrico Bottini, sì, proprio lui, è uno studente perfettamente mediocre, che ho con me dall’inizio del triennio. Fin dall’inizio mediocre l’interesse per le mie materie, mediocri le sue capacità, mediocre l’impegno, mediocre la presenza della famiglia. Una somma di mediocrità che però ogni anno ha onestamente fruttato il necessario per arrivare a una mediocre sufficienza, senza troppi patemi e senza indebiti e ingiustificabili aiuti da parte mia. Enrico Bottini, lo ammetto senza cautele, fin dai primi mesi del primo anno pareva candidato al novero degli studenti che il mio personalissimo ur-insegnante (che ogni docente cova in sé, fin dai primordi della propria vocazione pedagogica) avrebbe dimenticato una volta consegnatogli il suo mediocre diploma di maturità. Il motivo? Semplice a dirsi: Enrico Bottini non appartiene alle due categorie comuni che delimitano i confini netti del mio (del nostro) indomabile impulso di dare identità alla propria patente esistenziale da insegnante. Vediamo quali sono.
Né Franti, né Derossi
Anzitutto Enrico Bottini non è un Franti sul quale riversare tutte le mie (le nostre) proiezioni pseudodonmilanesche, non è un alunno difficile da salvare, non è un portatore puro della categoria di caso umano. Non è uno di quegli alunni che dannano l’anima (e le diciotto ore settimanali) dello stare in classe, uno di quelli che magari finisce sui giornali perché ha tirato una sedia al professore ma a noi no perché noi l’abbiamo capito, tantomeno uno di quei casi di indigenza dura e pura e a seguire ogni immaginario possibile da idealtipo di alunno da recuperare. Non è insomma uno di quegli alunni che però l’insegnante motivato potrebbe immolare a propria ragione di vita al fine di salvarlo, elevarlo, redimerlo. Enrico Bottini non è un alunno difficile.
Enrico Bottini però non è nemmeno un Derossi. Uno di quegli studenti definiti dal sistema “eccellenze”, ovvero autentici portatori sani d’aria al nostro bisogno di essere confermati, solleticati nelle nostre presunte capacità di suscitare genialità a secchiate, futuri ricercatori, docenti, scrittori, astrofisici, archistar, geni della finanza, al limite al limite nobilissimi cervelli in fuga, comunque debitori del nostro potere maieutico che potentemente ha dato la stura a tanto talento. Quegli studenti insomma piovuti direttamente dal cielo, maratoneti dell’impegno e scoiattoli della genialità i quali probabilmente, affidando loro il semplice libro di testo a settembre per poi rincontrarli a giugno, si presenterebbero con tutto il programma mandato a memoria, posseduto, rielaborato in conoscenze e competenze (che mai manchino), forse meglio di quanto avremmo potuto fare con tutto il nostro genio didattico.
Enrico Bottini quindi non è un Franti e non è un Derossi. Lavorare con Enrico Bottini non sarà mai l’esperienza per cui il recuperare e il redimere un Franti o l’esaltare e il presentare al tempio un Derossi possa creare una specie di accogliente zona di conforto da cui annunciare al mondo intero il proprio personale «io sono l’insegnante e questi due soggetti ne sono la prova provata».
Con Enrico Bottini è diverso, è tutto diverso.
Il silenzio puro della quotidianità
Enrico Bottini è la fatica pura nel silenzio puro della quotidianità. Quello che riusciremo a cavare fuori da un Enrico Bottini nessuno lo saprà perché in fondo non sarà mai né il salvataggio di un fallimento né la celebrazione di un’eccellenza. Non lo saprà mai o vorrà saperlo nemmeno il nostro ego, perché si tratterà probabilmente di movimenti lenti e minimali, invisibili agli occhi di tutti, persino ai nostri. Inoltre fare muovere un Bottini, farlo migliorare realmente e onestamente sarà sempre tremendamente faticoso. Assolutamente e nemmeno troppo paradossalmente più faticoso della calata negli abissi per recuperare un Franti o delle salite vertiginose per ammirare lo splendore di un Derossi. Perché poi, e qui forse si annida l’inghippo primario, Bottini sarà in grado di suscitare in noi, in modo assolutamente più potente degli altri due, la domanda «ma chi me lo fa fare?» o almeno un più prosaico «farà la sua strada, rimarrà nella sua mediocrità». Ecco, tornando a quello scrutinio, vedere quel sei di Bottini che passava a sette, meritatamente, legittimamente, traguardo finale di un grande sforzo mio (e anche suo) durato mesi per fargli salire quel piccolo ma invalicabile gradino è stata soddisfazione pulita e autentica. Per un sei che diventa sette? Sì, per un sei che diventa sette. Ma chi me l’ha fatto fare? Chi ce lo fa fare? Già, chi ce lo fa fare.
La scuola, la democrazia
Ce lo fa fare il fatto che la scuola è anche e soprattutto i Bottini, oltre i Franti e i Derossi che forse sono davvero meno. E lì si gioca il lavoro quotidiano, silenzioso, portato avanti giorno per giorno da migliaia di docenti validi e innamorati della scuola, assolutamente non quantificabile da indagini di sorta, fondazioni che pontificano, ansie tassonometriche calate a casaccio, rapporti RAV all’insegna del “qui alleviamo solo i belli, i ricchi e i bravi (italiani)”. Fare salire un Bottini da sei a sette è un lavoro lungo, complesso, titanico ma sacrosanto: è il lavoro dovuto, è il lavoro della scuola. Certo, un lavoro da pochi effetti speciali, prima per noi e poi per chi ci guarda, assolutamente tirchio con il nostro ego, decisamente poco redditizio per la nostra fama di Maestri del tempo presente, ma un lavoro che dice ogni giorno il futuro di una scuola che sia pubblica e democratica. Un investimento a fondo perduto insomma, ma che senza andare a scomodare i grandi principi necessari a qualsiasi insegnante che voglia essere funzione e non solo ruolo, è scritto semplice semplice nell’incipit dell’articolo 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti”. Sì, è aperta a tutti e quindi è per tutti, anche per i mediocri. Un ultimo appunto. L’obiezione automatica, in alto e in basso, sarà ovviamente quella che profondere così tanti sforzi per sollevare i tanti Bottini da sei a sette sia stata la rovina della scuola pubblica italiana, a scapito anzitutto dei meritevoli ma anche del recupero delle emergenze. Ecco, a me invece pare che lottare e dare il meglio per il sette di Bottini sia proprio la via maestra anche per portare al massimo splendore sia la celebrazione di un Derossi che il recupero di un Franti. Ma qui, per ora, mi fermo.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2018, GAM.
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