Tre appunti su L’ultima sillaba del verso
1. Le cose ultime
Il titolo del nuovo romanzo di Romano Luperini (L’ultima sillaba del verso, Mondadori 2017) istituisce immediatamente, attraverso la parola ‘ultima’, un dialogo con il lapidario incipit dell’introduzione a Tramonto e resistenza della critica (sempre di Luperini, Quodlibet 2013): “Questa è la mia ultima raccolta di saggi”. E del resto quella introduzione recava un titolo, Per chiudere i conti, altrettanto inequivocabile.
C’era, insomma, ad animare quella preziosa raccolta di saggi del 2013, una istanza di ultimità fin troppo esplicita, esibita; forse resa necessaria, al di là delle motivazioni dichiarate, dalle emergenti esigenze di una nuova e diversa stagione di scrittura, dedicata più organicamente, dopo gli esperimenti degli anni Zero, a esplorare quelle cose che “in un saggio non si possono dire, in un romanzo sì” (così ancora Luperini nel suo recente Dialoghetto fra un critico e un autore): lo spazio del romanzo come quello più appropriato per tentare di chiudere i conti; o di farli tornare, che poi è la stessa cosa.
Ma è lecito ipotizzare che questa netta separazione fra un prima dedicato prevalentemente alla critica ovvero a varie forme di militanza (quella propriamente politica, quella intellettuale, quella pedagogica) e un poi dedicato alla scrittura narrativa sia solo apparente: un più o meno voluto depistaggio. Ed è probabile invece che fra le varie stagioni luperiniane ci sia una coerenza più tenace e una continuità più lucida di quanto a prima vista possa sembrare: del resto, quando si inscrive la propria vita e la propria opera nell’ordine della lotta e della radicale ricerca di senso, questa ricerca e questa lotta non possono che continuare, anche se in diverse forme, per sempre; e anzi non possono che farsi, col tempo, più drammatiche e più essenziali.
L’ultima sillaba può essere dunque letta in molti modi, e fra questi anche come una prosecuzione di questa lotta e di questa ricerca. Lotta con la propria storia, i propri fantasmi, i punti oscuri di una vita vissuta agonisticamente; ricerca di uno sguardo nuovo (verrebbe da dire: novissimo) sull’esistenza, in cui rigore e pietas nei confronti dell’umana esperienza possano convivere. Ho provato a segnalare, a suo tempo, come già nel precedente La rancura (Mondadori 2016), grazie anche ad una complessa e stratificata struttura narrativa, Luperini mettesse soprattutto in scena la presa di coscienza di una sconfitta storica e di una fragilità esistenziale. Per farlo, in quel caso, lo scrittore aveva dovuto “uccidere” il suo alter ego, in modo da poter riguardare a tutta la sua storia personale, familiare e politica, come da un lontano assoluto, da un orizzonte vuoto, o da un deserto. Qui, nell’Ultima sillaba, avviene un passaggio ulteriore, che richiedeva un di più di coraggio: Valerio, l’alter ego, stavolta è vivo, ma fragilissimo, e vivo in qualche modo proprio perché fragile, quasi che in quella estrema debolezza risieda l’ultimo paradossale barlume di vitalità. Valerio, oltretutto, è all’inizio ben poco disposto ad accettare questa sua condizione (si vedano le dolorose e acuminate prime pagine del libro), tanto che il romanzo potrebbe essere descritto proprio come la storia di una faticosa educazione alla fragilità.
2. Valerio e Claudine: il potere e la libertà
Tutto il libro è attraversato da questo tema, ma è soprattutto nella vicenda dell’amore fra Valerio, affermato professore universitario, e la sua giovane allieva Claudia che si sviluppa il romanzo di formazione fuori tempo massimo di quest’uomo di cui seguiamo le vicende fra la piena maturità e la vecchiaia.
Si prenda ad esempio la scena, topica quant’altre mai, del primo bacio fra Valerio e Claudia: i due si frequentano da un po’ anche al di fuori delle aule universitarie, e un giorno Valerio porta Claudia (ma lui la chiama Claudine, come la protagonista di un racconto di Musil, perché in realtà lui vuole che lei sia Claudine) in un posto che gli è particolarmente caro, e sarà solo lo slittamento del piede di lui su un sentiero sdrucciolevole – ovvero una sua episodica debolezza – che permetterà la rottura dell’equilibrio fra i due, l’avvicinamento dei corpi, l’abbraccio e finalmente il bacio. Ma la fragilità di Valerio è solo momentanea, e infatti subito lui riveste la corazza del potere (il professore, il maestro) e il giorno dopo liquida l’episodio con una battuta, in verità piuttosto goffa, che rimanda di molto l’abbrivio della storia d’amore, e la segna forse irrevocabilmente.
Analizziamo allora la situazione: tutto il potere è dalla parte di Valerio, lui è il maestro autorevole, lei l’allieva timida e incerta; lui è divorziato e non ha nulla da perdere, lei è sposata da poco; lui decide il posto dove portarla, la guida nel suo mondo; lui sceglie per lei il nome, decide che deve essere Claudine e non più Claudia. E’ chiaro che quello slittamento momentaneo, in questo contesto, è solo un’avvisaglia di quella fragilità che Valerio vuole ancora esorcizzare. La strada verso una vera consapevolezza sarà, per lui, ancora lunga, una laica via crucis di diverse stazioni, fra le quali le principali saranno la separazione da Claudia, la fine della militanza politica, e da ultimo la malattia.
Così, quando Valerio e Claudia molti anni dopo si ritroveranno, questa dinamica di amore e sostegno, potere e fragilità, assumerà contorni molto diversi, e anche il gioco dei punti di vista cambierà. Se nella prima parte lei è vista con lo sguardo di lui – idealizzante, deformante, a partire dall’imposizione del senhal: uno sguardo che ci dice più sul soggetto che sull’oggetto del vedere – nella riapparizione finale di lei c’è un tentativo da parte dello scrittore di mettersi davvero nei panni di Claudine, anzi ormai di Claudia. Ma qualcosa – per fortuna – rimane inespresso in questo personaggio femminile, come un punto cieco che probabilmente è quello della reale e irriducibile alterità del femminile; quella alterità sempre sfuggente con cui Luperini cerca un punto di incontro per tutto il romanzo. Non sarà allora un caso se nelle ultime righe del libro (e il finale dell’Ultima sillaba è davvero un piccolo capolavoro di delicatezza e umanità), ad un ultimo tentativo di Valerio di dire a parole (e con questo di nuovo guidare e possedere) i rinnovati confini del rapporto con Claudia/Claudine, lei risponda con un atteggiamento davvero inaccessibile, con un silenzio e un abbassarsi dello sguardo che sono il luogo della sua verità di personaggio. E – se dobbiamo prendere sul serio il titolo del libro, che allude al fatto che sono le cose ultime a dare senso alle precedenti – non possiamo non rileggere l’intero libro alla luce di quell’ultimo silenzioso gesto di Claudia.
3. Massimo ed Eriola: l’impegno e la speranza
Ma il libro non è soltanto una storia d’amore, è anche – programmaticamente – un affresco della storia d’Italia nell’era berlusconiana, e una implicita riflessione sulle possibilità residue della politica e dell’impegno nel contesto attuale. Valerio è figlio di una disillusione e di una sconfitta già ampiamente notomizzate nella Rancura, e che non era necessario mettere ancora in primo piano. Qui lo sguardo è piuttosto sulle generazioni successive, quelle che con la loro giovinezza hanno attraversato non la tempesta del Sessantotto ma le torbide e paludose acque degli anni del disincanto e della crisi. Valerio osserva queste generazioni soprattutto attraverso Massimo, suo allievo prediletto che, orfano di utopie e ideologie, prova a combattere piccole e concrete battaglie di impegno civico, come promuovere un comitato per impedire la costruzione di un aeroporto, inutile per la comunità e dannoso per l’ambiente. Piccoli tentativi di azione concreta, insomma, di politica dal basso come minimo argine alla devastazione dei tempi.
In una scena del romanzo, le generazioni in dialogo diventano tre: un giorno Valerio presenta a Massimo l’ormai vecchio Sebastiano Timpanaro, grande filologo e marxista rigoroso. Timpanaro invita i due a casa sua, e all’inizio la conversazione – tesa – è fra il sessantottino Valerio e il vecchio comunista Sebastiano: il tema è l’impossibilità di azione nella nostra epoca, l’impossibilità di essere protagonisti del cambiamento, lo stato di minorità. Ad un certo punto interviene Massimo, che sostiene che in ogni situazione concreta si può sempre fare qualcosa, allora Timpanaro si rivolge a lui, incuriosito, lasciando Valerio solo con il suo disincanto. Fare qualcosa: questo è il sogno di Massimo, la sua prospettiva in realtà un po’ vaga. Luperini non ci racconta i contenuti di quel dialogo fra Massimo e il grande filologo comunista, perché Valerio è troppo concentrato sull’analisi della sua sconfitta e della sua alterità, e si distrae, si perde nei suoi pensieri e noi con lui perdiamo la conversazione. Ma è un fatto che anche l’impegno di Massimo è destinato a rimanere episodico, prepolitico (o postpolitico), perché “non esiste più un noi”, come sentenzia Timpanaro. E infatti nel finale del libro ritroviamo anche lui, cinquantenne, tutto preso da vicende private, mentre confessa al maestro di vivere una storia d’amore con una sua studentessa, esattamente quello che era successo vent’anni prima a Valerio: è, anche Massimo, una delle tante figure della ripetizione che attraversano il libro, e sembrerebbe, ancora una volta, l’emblema del ripiegamento nel privato come destino obbligato dell’uomo occidentale del XXI secolo, e dell’intellettuale che ne è una peculiare incarnazione.
Questo sembrano dirci Valerio e Massimo con la loro storia. Ma L’ultima sillaba non è un saggio né un conte philosophique, né un romanzo a tesi; e Valerio non è Romano Luperini (puntualizzazioni ovvie, queste, ma forse non inutili, in giorni in cui nelle pagine culturali dei grandi giornali italiani si può fare confusione fra la voce di Leo Bassoli, il prete pedofilo protagonista di Bruciare tutto, e quella di Walter Siti, autore del libro); sta dunque al lettore decidere se e quanto l’autore condivida la disillusione del suo alter ego, e sempre al lettore sta decidere se questo libro duro e spietato ci lasci o no uno spiraglio di luce. Se, ad esempio, tale luce possa essere cercata – come a me pare – nel credo minimo della kossovara Eriola, la donna che ora accudisce Valerio malato (p. 239):
Come mia madre, lei crede solo a poche cose elementari che ha imparato attraverso l’esperienza personale: che la guerra è cattiva, che il lavoro è buono, che per resistere al male che ci circonda bisogna contare su poche persone e aiutarsi gli uni con gli altri.
Una idea di “social catena” che viene da una sapienza popolare, contadina, premoderna; una saggezza dei vinti che lo studioso di Verga ritrova in una donna umile e forte, in una migrante venuta in gommone dall’Albania: un incontro fra letteratura e mondo, fra passato e presente ( ancora una volta all’insegna della fragilità e del sostegno) che forse può essere letto come un ideale passaggio di consegne, e come una paradossale forma di speranza.
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