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diretto da Romano Luperini

La controriforma di lunga durata della scuola e i venti di guerra

Per i tipi di Marx Ventuno è da poco uscito La controriforma permanente. La scuola italiana tra mercato e guerra, a cura di Luca Cangemi, con testi di Luca Cangemi, Ferdinando Dubla, Lucia Capuana, Rossella Latempa, Marina Boscaino, Antonio Mazzeo, Francesco Cori, Pina La Villa. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione del curatore, ringraziandolo insieme all’editore.

Una lunga battaglia

Dieci anni fa, nonostante mesi di straordinaria mobilitazione, veniva approvata (a luglio) la legge 107, la cosiddetta “Buona Scuola”. Si consumava così un altro passaggio rilevante – certo non l’ultimo – di uno scontro prolungato, tremendamente asimmetrico ma non per questo dall’esito scontato. L’oggetto di questo scontro era (e continua a essere) la scuola italiana: la sua funzione, la sua costruzione materiale, i suoi fondamenti culturali.

È necessario indagare i protagonisti, le motivazioni, le culture di questo scontro, ma prima di ogni altra cosa è necessario riflettere sulla durata, sulla lunga durata di questa battaglia per la scuola.

Anticipato innanzitutto culturalmente dalla riforma Ruberti dell’università, nell’estrema propaggine degli anni ‘80 (così come la resistenza ad essa viene anticipata dal movimento studentesco della Pantera, in cui militano molti di coloro che da insegnanti si contrapporranno alla lunga stagione di controriforma), l’attacco alla scuola pubblica prende forma nelle finanziarie costituenti dei governi Amato e Ciampi. In questi atti di governo (e anche in alcuni accordi sindacali ad essi collaterali) si trova non solo il quadro generale dell’attacco al welfare, ma anche alcune direttrici che saranno costantemente perseguite nei decenni successivi:

  1. un taglio radicale e lineare delle risorse;
  2. un’operazione di gerarchizzazione connessa alla ristrutturazione generale del pubblico impiego;
  3. le basi per la cosiddetta autonomia scolastica, interpretata in senso manageriale.

In generale, vengono poste in questi anni cruciali le premesse per una svolta liberista. La stessa neolingua del liberismo, in parti- colare nella declinazione scolastica, inizia in quegli anni a conquistare egemonia.

La breve durata del primo governo Berlusconi impedì al ministro dell’istruzione Francesco D’Onofrio di lasciare un segno ma la centralità sulla scuola dell’autonomia, accompagnata da D’Onofrio con un’attenzione particolare alla scuola privata, nel- le dichiarazioni programmatiche rimane significativa di un clima che matura trasversalmente ai nuovi schieramenti della “seconda repubblica”.

Anche il governo Dini – che vede come ministro dell’Istruzione un esponente direttamente proveniente da Confindustria, Giancarlo Lombardi – ha una funzione importante e preparatoria, in particolare in tema di autonomia e valutazione.

Ma è solo con il governo dell’Ulivo, e in particolare con il ministro Luigi Berlinguer (che già aveva avuto un ruolo nella discussione sull’autonomia universitaria da segretario della CRUI), che si concretizzano nel giro di due anni l’autonomia scolastica, la legge di parità scolastica e la nascita dell’INVALSI. La stagione riformatrice si infrange (e il suo promotore è costretto a lasciare la scena) nella dura e vastissima reazione dei docenti al “concorsone”, primo radicale attacco alla funzione docente, corollario necessario di tutto l’apparato “riformista” messo in campo.

Grande impatto e conseguenze rilevanti ebbe, con il ritorno di Berlusconi al governo, il lungo ministero Moratti. Pur essendo chiari alcuni elementi simbolici e culturali propri della destra – le famose tre “I”: informatica, inglese, impresa – la continuità con le riforme di Berlinguer appare evidente, soprattutto su autonomia, valutazione, didattica per competenze. La Moratti anticipa poi tendenze che saranno successivamente molto forti e condizionanti: l’attacco al tempo scuola, il largo spazio ai poteri delle regioni (che evoca l’autonomia differenziata), un’accentuazione del potere regolamentare del governo (che sarà ampiamente usa- to in seguito); largo spazio all’ideologia dell’impresa, e per la prima volta viene eliminato, in riferimento al termine “istruzione”, l’aggettivo “pubblica”.

Dopo l’intermezzo del governo Prodi con il suo ministro Fioroni – significativo soprattutto dell’impotenza del centrosinistra di introdurre sensibili correzioni di rotta (e non solo per ragioni di tempo) – alla stagione della Moratti si connette direttamente l’opera di Maria Stella Gelmini, cioè il più grande ridimensionamento nella storia del sistema dell’istruzione in Italia: un brutale downsizing neoliberista applicato a una struttura che ogni mattina incrocia la vita di milioni di persone.

Vengono attaccati il modulo nella scuola primaria, il tempo pieno e prolungato, le codocenze a ogni livello di scuola; viene ridotto significativamente il tempo scuola, colpendo insegnamenti fondamentali e attività di laboratorio; vengono ristretti i criteri per la formazione degli organici e aumentati gli alunni per classe; vengono colpiti a fondo anche gli organici ATA; viene massacrato il precariato. Alla fine del “bombardamento” della Gelmini (per conto di Tremonti e con la copertura ideologica di Brunetta), e nonostante significative mobilitazioni, in particolare nel mondo del precariato, la scuola italiana si ritroverà significativamente ridimensionata sotto il profilo organizzativo e culturale: con decine di migliaia di cattedre e posti ATA in meno, con la scuola meridionale desertificata, con il tessuto dell’istruzione devastato soprattutto nelle periferie, con una accentuata emigrazione intellettuale dal Sud al Nord. Ferite mai più risanate.

Nonostante gli scossoni politici, la continuità fu assicurata dal governo Monti e dal suo ministro Profumo, con altri tagli alla scuola (senza dimenticare gli effetti sui lavoratori della scuola dei pesanti interventi sul sistema pensionistico e sul welfare in generale). Profumo si industria a rilanciare anche idee come l’aumento dell’orario di lavoro degli insegnanti, il taglio di un anno delle scuole superiori e l’enfasi sulla digitalizzazione della vita scolastica: tutte idee significative di un clima.

La controriforma renziana

Dopo la meteora Carrozza, tutto era pronto per la riforma Renzi: una legge mostruosa sin dalla forma (un solo articolo e 212 commi), che si poneva come sintesi, rilancio e concretizzazione di tutte le idee reazionarie che da circa un ventennio aleggiavano sopra la scuola italiana e che oggi venivano condensate in un im- pianto compiutamente ed esplicitamente neoliberista.

Ciò veniva fatto con un grande investimento politico-mediatico e un’assunzione di centralità dei temi della scuola abbastanza inedita da parte del capo di governo (nessuno ricorda la sbiadita ministra dell’epoca, di nome Stefania Giannini, e tutti parlano di “riforma Renzi”, o la indicano con il paradossale nome pubblicitario scelto: Buona Scuola).

La manovra concepita era particolarmente insidiosa per la sua organicità liberista, che investiva ogni possibile aspetto (dal rapporto con l’impresa, alla valutazione, alla gerarchizzazione estrema dei rapporti di lavoro, al reclutamento), per il fatto che comprendesse anche misure potenzialmente capaci di costruire consenso nel mondo della scuola (in particolare il piano di assunzioni); e, circostanza da non sottovalutare, per la forza – almeno apparente – del capo di governo, pochi mesi prima premiato da un fortissimo risultato elettorale alle elezioni europee.

Per un complesso di ragioni (interne al mondo della scuola ma anche politiche generali), la proposta renziana, il suo percorso (fino all’approvazione della legge 107 nel luglio del 2015 e poi con la sua applicazione e i decreti attuativi), le conseguenze politiche e culturali e nella vita reale delle scuole, così come il movimento di lotta che ad essa si contrappose, meritano un’analisi approfondita, perché sono largamente implicati nella situazione attuale. Per quanto alcune proposte siano state di fatto bloccate e poi superate – in particolare per ciò che concerne la chiamata diretta o il cosiddetto bonus docenti – si può dire che la 107 rappresenti un colpo durissimo, materiale e simbolico, alla scuola e che costituisca, insieme ai suoi decreti attuativi, tuttora un inesauribile vaso di Pandora, da cui escono periodicamente veleni come, tanto per citare un esempio, il cosiddetto curriculum dello studente. Ma è soprattutto sul piano generale che l’impianto organicamente neoliberale della scuola renziana è passato, con tre aspetti particolarmente pesanti:

  • la gerarchizzazione autoritaria (con il ruolo del dirigente e dello staff);
  • il rapporto con il sistema delle imprese attraverso l’alternanza scuola-lavoro e gli ITS;
  • la centralità dell’INVALSI.

Sono tratti che non nascono con la 107 e che vengono rafforzati continuamente negli anni successivi, ma è con l’entrata in vigore della 107 che occupano un posto sistemico e un’influenza ideologica, con cui caratterizzano la scuola attuale.

Lo stesso senso di impotenza diffuso dall’approvazione della legge, dopo mesi di enorme mobilitazione della scuola dell’intero Paese, è stato un elemento che ha pesato. Quel movimento, che – come dimostreranno i mesi successivi – era stato in grado di pesare persino sul piano politico generale, aveva troppo chiara in testa la decisiva portata dello scontro per non subire un riflusso terribile nel momento in cui, comunque, la Buona Scuola era diventata legge, lasciando in tanti istituti campo libero al dispiegarsi di fenomeni di passivizzazione, corporativizzazione, frammentazione, in particolare del corpo docente.

Del resto, i meccanismi della 107, continuamente oliati da un’amministrazione solerte, sollecitavano esattamente questi esiti.

I ministri successivi, a partire dall’insignificante Valeria Fedeli (Stefania Giannini fu, certo non a caso, l’unico membro del governo che perse il posto nel passaggio da Renzi a Gentiloni – a parte lo stesso Renzi), si limitarono ad attuare la 107.

La legge della controriforma sopravviveva, paradossalmente, alla catastrofe politica di chi l’aveva imposta.

La scuola tra mutamenti politici e pandemia

Anche il cambiamento politico rappresentato dal governo Conte, dopo le elezioni del 2018, dimostrò soprattutto la resistenza dell’impianto della legge 107 come sintesi e rilancio delle passate controriforme (e piattaforma delle future). Una forza che si annidava nelle burocrazie ministeriali e nei pensatoi padronali, nella cultura dominante dei ceti dirigenti diffusi, e che si rivelò più forte dei programmi elettorali – in particolare quello del Movimento 5 Stelle, fortemente critico nei confronti della legge.

Molto significativa fu la circostanza che, nel Conte I, il Ministero dell’Istruzione venne affidato – in quota leghista – a Marco Bussetti, prima e dopo l’incarico ministeriale burocrate periferico del Ministero in un’area decisiva come la Lombardia: centrale per l’insediamento leghista, per i rapporti con l’industria e per le spinte alla dissoluzione dell’unitarietà del sistema scolastico trami- te l’autonomia differenziata. Bussetti, nel poco più di un anno di permanenza al Ministero, al di là di qualche squallida vicenda di scontrini, si caratterizzò per una gestione “tecnica” della Buona Scuola, in assoluta continuità con i governi precedenti (con particolare attenzione ai rapporti con l’industria, attraverso sviluppi come gli ITS, particolarmente funzionali alla struttura produttiva del Nord). A ciò si aggiunsero episodi di brutale repressione del dissenso, come quello che colpì la professoressa Dell’Aria a Palermo: episodi che tracciavano un percorso, poi ripreso dal successore leghista Valditara.

La forza dell’architettura della controriforma fu ulteriormente confermata, paradossalmente, quando nel Conte II il Ministero dell’Istruzione passò direttamente sotto la responsabilità del Movimento 5 Stelle: prima nei pochi mesi con Lorenzo Fioramonti, che – dopo aver espresso posizioni innovative – si dimise (con una coerenza inedita) nel momento in cui tentò di invertire la tendenza al sottofinanziamento dell’istruzione, uno dei punti essenziali dell’attacco al welfare nel nostro paese; poi con Lucia Azzolina. Alla fine, gli anni di permanenza al governo del M5S, sotto il profilo del rapporto con la 107 e più in generale con la controriforma scolastica, si limitarono a eliminare – sul piano legislativo – di alcune parti della Buona Scuola già affondate dalla resistenza delle scuole, dalla contrattazione e dalla stessa inapplicabilità di norme figlie del furore ideologico liberale, che non tenevano conto della complessità del sistema dell’istruzione italiano (in particolare la chiamata diretta e il bonus premiale), e a cambiare nome all’alternanza scuola-lavoro (divenuta PCTO – Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento), lasciandola però intatta e pronta a essere rilanciata dagli esecutivi successivi.

Un po’ poco per un movimento che aveva promesso l’abolizione della legge 107 e che, anche per questo, aveva raccolto un fortissimo consenso nel mondo della formazione. Una delusione per molti, anche se già prima del voto c’era stato un campanello d’allarme: la scelta come candidato al Ministero dell’Istruzione di Salvatore Giuliano, un preside brindisino consulente ministeriale di Giannini e Fedeli, che aveva firmato appelli contro il grande sciopero del 5 maggio per fermare la Buona Scuola. Nell’accordo con la Lega per il Conte I, Giuliano dovette accontentarsi di un posto da sottosegretario. Quale migliore dimostrazione, in questo ormai dimenticato episodio, della capacità egemonica del partito della controriforma scolastica di piazzare alla testa dei contestatori uno dei propri? Un’egemonia fatta di depoliticizzazione delle scelte, di occultamento del conflitto, di falsa neutralità.

Il ministero Azzolina fu interamente segnato dagli effetti della pandemia sul sistema scolastico: effetti che meriterebbero, per la loro rilevanza e le conseguenze di lungo periodo, uno studio specifico. Possiamo sintetizzare dicendo che, esaurita una prima fase di risposta segnata – da un lato – da solidarietà, spirito civico e anche capacità di inventiva (guidata dalla parte migliore della scuola), e – dall’altro – dal riemergere di un bisogno di welfare e dalla sensazione che miti e dogmi neoliberali non potessero più dominare dopo essere stati così clamorosamente e tragicamente smentiti dai fatti, presto le dinamiche presero tutt’altra direzione.

Mentre la più lunga chiusura scolastica d’Europa iniziava a produrre effetti culturali, sociali e psicologici di massa ancora oggi non del tutto compresi, la pandemia metteva a nudo – con violenza – i grandi problemi strutturali del sistema scolastico: dalle infrastrutture ai divari sociali e territoriali.

Troppo spesso dimenticato è inoltre il fatto che la didattica a distanza sia diventata un’occasione per grandi corporation statunitensi per colonizzare la scuola italiana e impadronirsi di una miniera di dati – particolarmente preziosi in un momento cruciale per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. In questo contesto, assume un carattere assai grave il rifiuto del Ministero dell’Istruzione di prendere in considerazione la costruzione di una piattaforma nazionale e pubblica per la didattica a distanza: strumento che avrebbe garantito non solo la sovranità nazionale, ma anche un funziona- mento equo della DAD nei diversi territori.

Prese così corpo una risposta che, invece di fare i conti con le conseguenze disastrose di decenni di sottofinanziamento, degrado edilizio, riduzione degli organici e del tempo scuola, e impoverimento culturale, colse l’occasione emergenziale per rilanciare e approfondire proprio quelle stesse politiche neoliberali e la stessa logica della 107. È la linea che – dal ministero Azzolina, passando per Draghi e il suo ministro Bianchi e il PNRR – conduce fino a Valditara, via via rafforzandosi.

I tecnici e il rilancio della controriforma

C’è una figura centrale in quest’ultima fase, più importante di quanto si ritenga di solito, rilevante non tanto per le responsabilità dirette quanto per gli indirizzi impressi all’azione politica sul sistema dell’istruzione: Patrizio Bianchi.

È opportuno concentrarsi sulla sua biografia intellettuale e politica, perché in essa troviamo una parte importante delle culture che hanno avuto un ruolo decisivo nella lunga controriforma della scuola. L’ambiente politico e intellettuale in cui si forma e muove i primi passi significativi può essere individuato lungo la linea Andreatta–Prodi–Il Mulino, caratterizzata da incarichi accademici a Bologna e nelle università del Nord-Est, attività di ricerca (Nomisma), incarichi pubblici ma finalizzati al “supporto” del mercato (Sviluppo Italia) e un ruolo significativo nel processo di privatizzazione dell’IRI (come membro del consiglio d’amministrazione). Per ben dieci anni, Patrizio Bianchi ricopre il ruolo di assessore all’Istruzione della Regione Emilia-Romagna: un altro luogo istituzionale importante da analizzare per capire come le politiche di controriforma dell’istruzione pubblica abbiano preso forma e abbiano permeato, in particolare, il centrosinistra italiano. In questa veste, Bianchi sperimenta una subordinazione integrale – a ogni livello, dalla formazione professionale ai grandi centri di ricerca – delle strutture pubbliche al sistema delle impresei.

Nel 2020 viene chiamato a coordinare la task force ministeriale per la ripartenza della scuola dopo la pandemia, anche se presto i rapporti con la ministra Azzolina si deteriorano (e si sviluppò una polemica che fu uno dei tanti sintomi di ciò che maturerà con Draghi). È in quel contesto che emergono le direttrici per il grande utilizzo della pandemia – e di ciò che seguirà – per approfondire la controriforma della scuola. Da questa esperienza nasce, tra l’altro, un illuminante saggio del prof. Bianchiii, che sintetizza chiaramente il suo pensiero e dimostra che le proposte contenute sono orientate a trasformare una scuola ritenuta responsabile della scarsa crescita economica del Paese. Il tema centrale è: riprendere il percorso dell’autonomia iniziato con Prodi e Luigi Berlinguer, percorso considerato troppo poco vigorosamente perseguito.

La pandemia, quindi, come occasione da non perdere. Nel libro si nota nitidamente anche un linguaggio particolare, “sociale” e “democratico”, intessuto di richiami alla Costituzione e a parole come “solidarietà”, “diritti”, “questione meridionale”: un linguaggio dolce per veicolare contenuti di ben altro segno. Dopo pochi mesi, nel febbraio del 2021, con la nascita del governo Draghi, Patrizio Bianchi si ritrova nel ruolo ideale – e nella congiuntura politica più favorevole, considerati gli orientamenti e lo stile dell’ex presidente della BCE – per dare attuazione alle idee esposte nel libro. Se chiara, codificata nello “specchio della scuola” e ribadita in numerose occasioni pubbliche, era la linea direttrice, altrettanto evidente era lo strumento privilegiato per concretizzarla: il PNRR. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, infatti, diventa ben più di uno strumento d’intervento: si configura infatti come il vincolo esterno indiscutibile (tratto caratteristico dell’ideologia europeista delle “riforme”, soprattutto nell’area progressista e centrista), il motore propagandistico e il centro organizzatore politico, attorno a cui far crescere una vasta produzione normativa e regolamentare. In questo quadro si rivendica una nuova centralità dell’istruzione, corroborata da atti come la prima riunione della cabina di regia del PNRR, istituita e presieduta da Mario Draghi, che dedica la sua prima sessione proprio al tema della conoscenza e individua sei leggi di riforma da accompagnare al PNRR.

Sul canovaccio tracciato in quei mesi opererà poi, in assoluta sintonia, Giuseppe Valditara: si può dire che la destra si troverà gran parte del lavoro già fatto.

Possiamo dividere in due grandi parti la valutazione sull’impatto del PNRR nella scuola:

  1. Sul piano strutturale e dei servizi, le promesse di adeguamento e riduzione dei divari territoriali sono state tradite. Le risorse erano insufficienti rispetto alle carenze (in particolare sull’edilizia scolastica), e la difficoltà degli enti locali nel progettare e gestire, unita alle inefficienze del governo di destra e alle sue rimodulazioni di spesa, ha fatto il resto. Questo è evidente soprattutto su temi delicatissimi come asili nido, tempo pieno prolungato e palestre. Possiamo dire che la situazione strutturale non ha fatto neanche lontanamente il salto di qualità promesso e che i divari territoriali – in particolare tra Nord e Sud – restano invariati.
  2. Sul piano ideologico e delle riforme, invece, il PNRR ha avuto completo successo, con il concorso attivo sia del governo Draghi sia di quello guidato da Giorgia Meloni. Si è realizzata la sacralizzazione definitiva della didattica per competenze, l’accentuazione del ruolo dell’INVALSI, un ulteriore attacco al tempo scuola (e agli organici) con l’espansione della sperimentazione del taglio di un anno delle scuole superiori (inserito da Valditara nella riforma degli istituti tecnici, anch’essa in ambito PNRR), una penetrazione sempre maggiore dell’ideologia e del sistema d’impresa, attraverso il rilancio del PCTO e degli ITS – in cui i privati definiscono programmi e organici – e la destrutturazione della funzione docente.

A questo si aggiunge la crescita del middle management, cioè di cerchie di insegnanti che, in stretto rapporto con le dirigenze, gestiscono la proliferazione di corsi indotti dal PNRR e che godono, di fatto, di un differenziale retributivo molto più consistente del bonus previsto dalla 107. E si potrebbe continuare.

In sintesi: il PNRR ha rappresentato una seconda ondata di attuazione e una radicalizzazione della Buona Scuola.

i Per un’analisi critica del ruolo di Patrizio Bianchi come assessore regionale all’Istruzione, vedi anche: F. Fiorentino, “Scuola e neoliberismo in Emilia-Romagna”, in Lo specchio della scuola, Franco Angeli, Milano.

ii Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, Il Mulino, Bologna 2020.

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