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diretto da Romano Luperini

QUASI DISCRETO = 6/7 = 6.75 = VA BENINO?

Appunti per un dibattito non ideologico sulla valutazione

Gli alunni seri non sono soddisfatti. Dicono che nelle altre classi l’insegnante gli dice che cosa devono sapere. L’insegnante lo spiega e tu lo devi imparare. Poi l’insegnante fa l’esame e uno prende il voto che merita.

Gli alunni seri dicono che è bello sapere in anticipo che cosa si dovrebbe sapere, così uno si mette a impararlo. In questa classe invece non si sa, e quindi come facciamo a studiare? E come caspita facciamo a valutarci da soli? In questa classe si vive alla giornata, e alla fine del quadrimestre sorge il grande interrogativo: come fa il professore a stabilire il voto?

E lo dico io come stabilisco il voto. Prima di tutto, come avete frequentato il corso? Anche chi è rimasto seduto in silenzio all’ultimo banco ma ha ragionato sulle letture avrà imparato qualcosa. Secondo: avete partecipato? Al venerdì vi siete alzati in piedi e avete letto qualcosa? Qualunque cosa: racconti, poesie, opere teatrali. Terzo: avete commentato i lavori dei vostri compagni? Quarto, e questo sta a voi stabilirlo: siete in grado di riflettere su quest’esperienza e di chiedervi che cosa avete imparato? Quinto: siete rimasti lì con la testa fra le nuvole? Se sì, non buttatevi giù.

A questo punto l’insegnante si fa serio e pone il Grande Quesito: D’altra parte, che cos’è l’istruzione? Cosa si fa in questa scuola? Voi potete rispondere che volete diplomarvi per andare all’università e prepararvi a una professione. Ma non è tutto qui, cari colleghi studenti. Io stesso ho dovuto chiedermi che cavolo ci faccio in quest’aula. E sono arrivato a formulare un’equazione: alla lavagna scrivo a sinistra una P maiuscola, a destra una L, poi disegno una freccia che va da sinistra a destra: da PAURA a LIBERTA’.

F. Mc Court, “Ehi prof!” 2006 Adelphi, pagg. 302 e 303

Questa citazione racchiude molte delle componenti sfaccettate e complesse di ogni pratica di valutazione scolastica, su cui chiunque insegni non smette mai di interrogarsi: esperienza, abilità da artigiano e da artista, onestà intellettuale, assunzione di responsabilità, capacità di ascolto. Sono temi destinati a suscitare un confronto animato; su di essi il mondo della scuola si divide, in un modo che intristisce tutti coloro che non ambiscono soltanto a ingiuriare il “nemico” di turno o a avere l’ultima parola, in un dialogo social che si esprime per lo più tramite categorie come “antidemocratico!” (variante: “fascista!) e “fuffopedagogista!”.

Quest’articolo nasce dal desiderio di contribuire a un dibattito civile: rinuncia quindi in partenza a qualsiasi pretesa di “verità”.

Esplorerò invece in modo discorsivo i miei territori, di esperienza e di convinzioni, su voto e valutazione, sempre messi alla prova dall’incontro con una nuova classe; più ancora, quest’anno, una nuova prima, quando si avviano i delicati processi che sul lungo periodo (si comincia a valutare dopo qualche settimana, in un percorso di cinque anni) devono produrre acquisizione di conoscenze, incremento della capacità di comprendere e farsi comprendere, fiducia in sé nel formarsi un’opinione, rispetto e responsabilità nell’esprimerla in un confronto dialettico. Cercherò semplicemente di fare emergere con onestà intellettuale alcuni luoghi comuni di conflitto, rispetto ai quali decidere se vincere come singoli o cercare di farlo come comunità.

Soggettività e oggettività

Un punto di partenza da (ri)stabilire, spesso incerto e ambiguo nelle discussioni su voto, criteri, griglie e scatole degli attrezzi varie, è che la valutazione è il territorio della soggettività. Per me, all’inizio del cammino con la 1C di quest’anno, una simile constatazione s’impone sin dalla tabulazione dei voti e dei giudizi con cui le ragazze e i ragazzi sono stati licenziati dalla secondaria di primo grado.

Avverte il collega cui il tempo ha insegnato la diffidenza che “tanto i voti delle medie non dicono niente”. Non credo che sia così: i voti delle medie dicono che non esiste una scuola teorica, sulla carta, che possa essere misurata oggettivamente da uno sguardo clinico esatto. Dicono che nelle classi ci sono delle persone diverse, che vengono da percorsi diversi (come confrontare una bella scuoletta del centro città benestante con una della periferia povera e deprivata?), e sono state valutate da docenti e gruppi di docenti diversi, accomunati da professionalità e onestà. Eppure, spesso chi insegna preferisce ignorare queste evidenze scientifiche – nel senso che il termine scientia aveva prima di cadere preda della specializzazione, della settorialità e del mito della quantificazione numerica – risolvendo la questione della debole soggettività altrui con l’imposizione di una propria soggettività forte, spesso spacciata per “oggettività”. Nei licei che si pensano più prestigiosi si dice apertamente, anche negli incontri di orientamento, che la “vera scuola” comincia dopo le medie, e che chi sceglierà di frequentare il tale liceo dovrà dimenticarsi i voti alti che otteneva “prima”. Il puntuale lavoro per screditare chi insegna nei gradi più bassi dell’istruzione ambisce a costruire dell’insegnante delle superiori un’immagine assai migliore della realtà: sappiamo bene, infatti, che all’interno di ogni singola istituzione scolastica esistono enormi discrepanze nelle pratiche valutative, e che essere (come studente e come docente) in un consiglio di classe o in un altro fa tutta la differenza del mondo. Se cerchi “oggettività”, la troverai soltanto sui documenti che dipingono della scuola un quadro esatto e unitario, o sugli opuscoli finalizzati al mercato e agli stakeholders.

Per restituire al dibattito sulla valutazione una cornice meno conflittuale e più vicina alla realtà serve prima di tutto la consapevolezza che la scuola è un lungo percorso in cui non esiste un momento più importante e uno meno, né uno in cui si gioca e uno in cui si fa sul serio. Un simile atteggiamento implica la ricerca di una continuità fra le valutazioni di ciascuno studente nei differenti momenti di questo percorso, non cancellando il passato in nome di un presente migliore ma esplorando mediazioni e equilibri possibili. In poche parole: interrogarsi sugli effetti di lungo periodo del processo di valutazione, e misurare la nostra capacità di indirizzare chi apprende – qualunque sia lo strumento che utilizziamo, e in qualunque momento – verso un incremento del proprio patrimonio critico e culturale.

In concreto, nella 1C di quest’anno, quest’intenzione non genera seri problemi in una disciplina “nuova”, dall’impianto “tecnico” e orientato da un solido quadro di conoscenze tutte da conquistare, come il Latino. Tutt’altro discorso per l’Italiano, materia in cui ogni studente ha già sviluppato non solo conoscenze e abilità, ma anche profonde aspettative e sentimenti. Nel mio piccolo non so trovare altra via, per cercare coerenza e continuità fra la valutazione di chi mi ha preceduto e la mia, che riconoscere un tempo adeguato (due mesi, o almeno due verifiche) per condividere criteri, orientamenti e pratiche: per questo riconosco a ogni componente della classe il diritto di “rifiutare il voto”, se per qualsiasi motivo non si riconosce in esso. Le lunghe discussioni collettive e individuali che conseguono all’esercizio di un tale diritto hanno un valore semplicemente inestimabile nella costruzione di un percorso condiviso.

Le nozioni e il nozionismo

Una seconda questione è quella, delicatissima, della posizione che assegniamo alle conoscenze nel processo formativo. In quest’ambito, la mia esperienza di insegnante può essere sintetizzata in tre punti:

  1. la necessità di confrontarsi seriamente con il patrimonio culturale che ogni studente porta con sé quando entra alle superiori (più in generale, ogni volta che cambia insegnante); un fattore che ha strettamente a che fare con il riconoscimento della soggettività di cui si parlava in precedenza, e con l’impostazione non autoreferenziale dell’insegnamento: si costruisce su ciò che altri hanno edificato, preoccupandosi – anche attraverso i voti o qualsiasi altra forma di valutazione – di valorizzare questo patrimonio e non di distruggerlo
  2. la semplice constatazione che le conoscenze non determinano, di per sé, un incremento di abilità e spirito critico. Perché questo avvenga, bisogna costruire le condizioni di esperienza che consentano e favoriscano un simile processo: cosa impossibile se non si libera il tempo della lezione, quello dello studio e quello delle verifiche dalla continua pressione dell’accertamento nozionistico. Lo studente paralizzato dalle proprie conoscenze e incapace di liberare il proprio pensiero, o al contrario quello profondissimo nell’intuizione ma debole nell’approfondimento: sono due prodotti, tutt’altro che infrequenti, di una logica che assegna un valore eccessivo alle conoscenze nel percorso di crescita di una persona.
  3. la palese evidenza (anche questa “scientifica”, nel senso attribuito in precedenza al termine) che l’ambito delle conoscenze diventa, con il progredire del percorso di studi, l’unica vera incognita della valutazione. In Italiano, per esempio, chi ha raggiunto un certo grado di competenze di scrittura non lo perde nel mese che trascorre tra una prova scritta e l’altra; né, in questo periodo, diminuisce la sua competenza critica, il desiderio e la capacità di esprimere giudizi e opinioni soggettive. Invece, nell’ambito delle nuove conoscenze oggetto di un’esperienza in classe (fino ovviamente alla verifica) un simile fenomeno si può incontrare.

Partendo da questi presupposti, è possibile e auspicabile concepire e utilizzare strumenti valutativi sempre più raffinati, che spostino gradualmente l’accento e l’attenzione dalle conoscenze alle abilità, alle competenze critiche, alla creatività e alla libertà individuale. Per esempio, in prima si possono ideare compiti che prevedano una parte comune e una opzionale, in cui sia il singolo studente a decidere su che terreno muoversi: ci sarà allora chi preferirà proseguire nel campo delle conoscenze, e chi sin dall’inizio si metterà alla prova con compiti meno esecutivi e più impegnativi sul piano della consapevolezza argomentativa.

Sono convinto – ma non ne sono certo, non avendo nessuna esperienza di insegnamento all’infanzia, alla primaria e alla secondaria di primo grado – che un simile spostamento avvenga anche negli altri ordini di scuola; naturalmente, in relazione a ciò che in ciascuno di essi si intende per “conoscenze”, “abilità” e “atteggiamenti/ scelte critiche”; cioè, con buona pace di chi non sopporta che si utilizzi questo termine, dei diversi aspetti del costrutto teorico delle “competenze”.

Autorità e autoritarismo: il dito e la Luna

Le scelte proposte in precedenza non si compiono nel vuoto di una teoria culturale, ma nell’esercizio concreto della didattica d’aula: in questa prospettiva, un passo cruciale è rappresentato dalla capacità di riflettere sull’esercizio del grande potere che viene affidato a chi insegna. Sul punto le parole di Mario Lodi, quando scrive che si insegna per liberare o per asservire, continuano a costituire la solida pietra di paragone del nostro lavoro. Debole mi sembra invece la posizione di chi da questa giusta considerazione fa discendere l’idea che i voti siano strumento ontologicamente autoritario e di asservimento, e immagina che la loro sostituzione con un differente metodo di valutazione avrebbe come effetto la crescita della libertà e dell’autonomia in chi apprende. Una simile idea mi sembra il prodotto della logica di semplificazione e polarizzazione che domina, purtroppo, nel dibattito pubblico.

L’equivalenza voto-autoritarismo è priva di fondamento, come insegna l’esperienza di chi valuta in una scuola reale e non in una immaginaria: lo stesso strumento che in mano a docenti autoritari serve a conferire una patina di “oggettività” e legittimazione ai loro arbìtri e a volte al loro sadismo, in mano a docenti democratici serve invece ad accompagnare le persone che apprendono verso l’autonomia e la libertà. Tuttavia, come nel celebre proverbio sul dito che indica la Luna, molte persone concentrano la loro attenzione più sullo strumento che su chi lo usa, coerenti con un tempo che chiede a chi lavora nella scuola di non interrogarsi mai sul perché fa le cose, ma solo su come farle. Se invece guardiamo la Luna, constatiamo che non si è insegnanti democratici e libertari se e perché non si usano i voti; né si è autoritari perché li si utilizza: si può essere autoritari o libertari scrivendo valutazioni descrittive, e si può essere libertari o autoritari usando valutazioni numeriche.

La stessa logica e le stesse semplificazioni valgono anche in altri ambiti dell’insegnamento, come il rapporto fra tecnologie e apprendimento. Puoi insegnare in modo efficacissimo con le tecnologie, ma in virtù di quel che sai essere, non delle tecnologie. Puoi invece essere indifferente e mostruosamente noioso senza tecnologie, ma lo saresti anche con esse: perché ascolti e parli solo a te stesso e non a chi hai di fronte.

A queste considerazioni didattiche e docimologiche si dovrebbe inoltre accompagnare, a mio giudizio, una necessaria riflessione filosofica sui concetti di “potere” e di “responsabilità” in una relazione educativa. Mi sembra infatti che in molti discorsi sulla natura di una simile relazione si tenda a proporre una via d’uscita dall’autoritarismo decisamente semplicistica, che consisterebbe in sostanza nella rinuncia all’esercizio del potere da parte di chi potrebbe farne un uso illiberale, a vantaggio di un’equa distribuzione fra pari che però, se la relazione educativa ha da essere tale, pari non sono affatto: come in una famiglia, infatti, esiste certamente anche a scuola una gerarchia, determinata dai differenti ruoli, dalle differenti età, dalle differenti esperienze. Abbattere i confini, insegna in modo magistrale Frank Furedi in “I confini contano”, credere o lasciar credere che ciascuno valga come gli altri – non in quanto persona, ovviamente, ma in quanto soggetto attivo in un processo educativo e formativo – potrebbe non portare affatto a un aumento della responsabilità e della libertà di scelta, come alcuni credono; al contrario, potrebbe portare al dominio dell’irresponsabilità e della confusione.

La scuola non è un giardino segreto

E siamo infine al punto cruciale sul quale si sceglie prevalentemente di dividersi, mentre credo sarebbe possibile unirsi: discutere sui voti e più in generale sulla valutazione significa anche interrogarsi sul posto che i luoghi in cui si insegna e si apprende occupano nel mondo. Come insegnanti dobbiamo decidere dove collocarci, nel segmento che ha ad un’estremità l’idea che la scuola possa essere un giardino segreto, al cui interno vivere dinamiche diverse e estranee al mondo di fuori, e addirittura determinare il cambiamento di quest’ultimo; oppure, all’estremo opposto la convinzione che la scuola sia parte conseguente del mondo di fuori, ne sia condizionata al punto da diventare un ingranaggio e un laboratorio per dinamiche sociali e economiche che tutto si prefiggono meno che formare e istruire persone critiche e libere di scegliere.

Confesso di essere più vicino a quest’ultima posizione. Rispetto e ammiro incondizionatamente la passione libertaria che anima tante e tanti fra noi docenti, e partendo da una diversa posizione cerco di essere partecipe del loro e mio sforzo: insegnare per cambiare e per liberare. Diffido però, come già detto, della possibilità che la scuola possa difendersi dal modello di “libertà” offerto dalla società contemporanea e restare innocente di fronte alla gigantesca operazione industriale di promozione dell’ignoranza e della disumanità che permea il mondo occidentale contemporaneo.

Sono quindi portato a pensare che la proposta, talvolta perfino l’esaltazione, di una scuola senza voti, senza autorità e senza ansia possa risultare coerente – ben al di là di qualsiasi intenzione di partenza – con alcuni processi di trasformazione della società e dell’istruzione tanto evidenti quanto pericolosi, per chi abbia a cuore la scuola e la Repubblica della Costituzione.

Il primo di essi si manifesta come fortissima pressione per fare della scuola un luogo di istruzione privata, di fatto cancellandone la dimensione collettiva in virtù di una individualizzazione (altrimenti detta “personalizzazione”) del processo educativo. Il secondo si concretizza attraverso la progressiva medicalizzazione della società e la diffusione di quella che Gioele Cima, in un suo libro importante (“L’epoca della vulnerabilità”), definisce “industria del trauma”. L’uno e l’altro si collocano nel quadro di una progressiva riduzione della “democrazia” a un insieme di processi e di rituali vuoti di prospettive e di ideali che non si riducano alla ricerca di un profitto economico, utilizzati per legittimare decisioni e valori che non hanno niente a che vedere con una qualsiasi idea di democrazia reale. Sono le democrazie, per intenderci, che sterminano i bambini, deportano gli stranieri, distruggono le economie per preparare la guerra: questo, non un altro, è il mondo in cui insegniamo e impariamo.

Discutere sul voto partendo sempre dalla premessa, spesso non enunciata, che si tratti di uno strumento per ferire, emarginare, opprimere psicologicamente in un rapporto malato di potere, significa davvero rafforzare questi processi? E come si può costruire una “democrazia partecipativa” della valutazione – secondo la felice immagine utilizzata da Cristiano Corsini – in classi abitate da quattordic(quindic, sedic, diciassett)enni spesso incapaci di concepire altri che sé stessi, il proprio vantaggio e i propri privilegi (in questo pienamente appoggiati da combattivi genitori)?

A queste e altre domande, tutte difficili, bisognerà prima o poi dare risposta, insieme.

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