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diretto da Romano Luperini

Il percorso di formazione dei docenti della scuola secondaria: un disegno ambizioso, tra idealità e inciampi

Nel vasto e articolato panorama delle politiche scolastiche italiane, il DPCM del 4 agosto 2023 ha segnato un passaggio rilevante nella strutturazione della formazione iniziale e abilitante dei docenti. Proponendosi come risposta organica alla necessità – più volte evocata – di costruire una scuola fondata su competenze solide, inclusione consapevole e preparazione professionale rigorosa, il nuovo impianto normativo ha suscitato in molti futuri insegnanti – tra cui in chi scrive – un duplice sentimento, fatto di speranza e perplessità, slancio e qualche frizione. La promessa di una formazione ancorata alla ricerca universitaria, alla didattica laboratoriale e al contatto diretto con le pratiche scolastiche reali ha acceso in molti un’attesa fiduciosa. La scuola, nella sua dimensione più nobile, veniva finalmente riconosciuta come spazio complesso, in cui teoria e prassi non possono essere disgiunte. Tuttavia, nel corso del cammino, quella stessa costruzione teorica, così ambiziosa nei suoi presupposti, si è rivelata, per molti versi, irrisolta, farraginosa e affaticata da rimarchevoli contraddizioni strutturali.

L’eccessiva burocratizzazione del percorso, la mancanza di unitarietà didattica tra le università coinvolte, i tempi compressi, le modalità valutative avvolte in una fitta nebbia e una distribuzione delle attività che ha spesso sacrificato la riflessione profonda sull’insegnamento in favore di adempimenti formali sterili e meccanici, hanno incrinato quella tensione ideale che aveva inizialmente animato molti partecipanti, dall’una e dall’altra parte della cattedra.

Ancora più evidente è apparsa la dissonanza tra gli obiettivi dichiarati – come l’attenzione all’inclusione, all’educazione linguistica, alla valutazione autentica – e le modalità effettive della loro erogazione-trattazione, troppo spesso affidata, e non per volere dei docenti, a moduli necessariamente frammentari o a materiali didattici standardizzati, più affini a un’idea “aziendale” della formazione che a un’autentica pratica culturale.

Le luci nel percorso

Non sono mancati, certo, i momenti fecondi: laboratori condotti con dedizione e competenza, docenti universitari  preparati e appassionati, capaci di aprire squarci di pensiero, colleghi con cui si è costruito un confronto sincero. Eppure, ciò che resta, a conclusione del percorso, è una sensazione di scarto, di profondo scarto, tra il progetto originario e la sua incarnazione, la sua concretizzazione tra retorica dell’innovazione e la realtà di una macchina formativa che spesso si muove a fatica, oscillando tra spinte pedagogiche genuine e derive organizzative poco coerenti con l’impianto teorico.

L’impressione è che manchi, in fondo, una visione veramente “umanistica” della formazione del docente: non una figura chiamata semplicemente ad “applicare” tecniche, ma un intellettuale riflessivo, capace di abitare la complessità con competenza e consapevolezza. In questo senso, il percorso vissuto non è stato vano, ma appare ancora come l’abbozzo incompiuto di un disegno più ampio, certamente più bello, che richiede ancora tanto coraggio, ascolto e revisione, nonché una visione di lungo raggio.

In un tempo in cui la scuola è spesso al centro del dibattito pubblico, ma raramente della cura politica, l’esperienza di chi si forma per insegnare dovrebbe essere considerata non come un iter da ottimizzare, ma come un processo da pensare con rigore e responsabilità culturale. Perché da essa dipende, in larga misura, il volto futuro della nostra cittadinanza e della nostra memoria collettiva.

Non può essere taciuto, con altrettanta onestà, che in questa cornice complessa le responsabilità delle criticità rilevate non sono da imputare ai docenti universitari e ai tutor coinvolti nel percorso, i quali hanno anzi mostrato, in più occasioni, un tangibile impegno nel sostenere gli aspiranti docenti, spesso operando in condizioni non ideali ascrivibili ai limiti strutturali del sistema che sin qui si è provato a delineare. Non sono mancati, per altro, ed è un orgoglio poterlo evidenziare, docenti che, in un gesto di generosa dedizione alla causa formativa, hanno scelto di rinunciare a qualsiasi compenso, offrendo gratuitamente il proprio tempo, vale a dire la risorsa più preziosa che, retorica a parte, l’essere umano possiede, e le proprie competenze.

Una formazione in balia del vento politico

Non meno rilevante, e anzi profondamente contraddittoria, è la condizione esistenziale di molti partecipanti al percorso: adulti spesso già in possesso di titoli accademici di livello avanzato, competenze consolidate e anni di studio ed esperienza alle spalle, chiamati a sostenere un investimento economico di portata tutt’altro che trascurabile. Si tratta, non di rado, di persone disoccupate o impiegate in lavori precari, che, talvolta, faticano persino a reperire le risorse necessarie per affrontare il costo – gravoso – di un corso che si vorrebbe abilitante, ma che rischia di tradursi in un ulteriore ostacolo. A queste difficoltà si somma l’amarezza di un impegno portato avanti, spesso, facendo affidamento sul sostegno delle famiglie, a un’età in cui tale dipendenza non dovrebbe più essere necessaria.

Il paradosso è acuito dal confronto con altri sistemi europei, in cui la formazione dei futuri insegnanti è sostenuta dallo Stato, in quanto considerato un investimento strategico e non peso individuale. In Italia, invece, il modello appare segnato da un’impostazione che richiede molto e restituisce poco, sia in termini di garanzie occupazionali sia di riconoscimento sociale, di tutele e prospettive. Una promessa formativa, insomma, che rischia di rimanere sospesa nel vuoto di una progettualità frammentaria e discontinua che si inserisce in un quadro normativo in perenne mutamento, rimaneggiato a ogni cambio di esecutivo, senza continuità né lungimiranza. Ogni governo riscrive le regole del gioco, spesso ignorando il lavoro già avviato, moltiplicando l’incertezza, e trasformando il percorso formativo in una corsa a ostacoli dalla meta incerta. Una promessa, quella dell’accesso all’insegnamento, che rischia così di svuotarsi, lasciando sul campo solo frustrazione, disillusione e tanta, troppa, “precarietà”.

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