Perché (ri)leggere “Tristissimi giardini” di Vitaliano Trevisan
La mia esperienza personale, privata, esistenziale, come scriveva PPP [Pier Paolo Pasolini N.d.R]: l’autore non ha ad offrire niente più di questo. Tenendo presente che con PPP ho poco a che fare. Niente estetica della mia vita please, né nella vita, né nell’opera. Questo non significa che le due cose siano separate, al contrario, a tal punto al contrario che pensarle separatamente non mi è possibile. A dire il vero non ci ho mai nemmeno provato, non mi viene naturale, è uno di quei problemi che il mio cervello semplicemente rifiuta, non riconosce, non decodifica, gli manca l’interfaccia adeguata. Una questione di piattaforma io credo. Suonerà strano, ma il fatto è che ho sempre ben presente il suolo che calpesto. Forse perchè cammino tanto, ovunque io sia, e camminando sto attento a dove metto i piedi; sarà che vado spesso e volentieri in moto, e anche lì bisogna stare tanto tanto attenti a come e dove si mettono le ruote e a tutto ciò che succede intorno; sarà che non prendo l’aereo se non quando strettamente necessario, ovvero, finora, in tutta la vita, non più di una decina di volte; o non saranno queste alcune tra le tante conseguenze, piuttosto che le cause, di una sorta di atteggiamento – non saprei come altro chiamarlo, che mi porta sempre ad aver coscienza della mia gravità e del suolo che mi sostiene? Tutta la mia attività si fonda su questo. Tutta la mia vita si fonda su questo. (Trevisan, Tristissimi giardini, Laterza, p. 9)
Tristissimi giardini compare nel 2010: si tratta di uno dei volumi della collana “Contromano” (Laterza) riservata a una serie di reportage narrativi nei quali città e piccoli centri, località e habitat geografici vengono sondati grazie alla sensibilità di chi scrive. A Vitaliano Trevisan viene affidato il compito di rappresentare Vicenza e provincia.
Il testo, dopo la premessa intitolata L’autore a chi legge, si divide in sette capitoli (rispettivamente Periferia diffusa, Tristissimi giardini, Frammenti sulla vecchiaia, Rifacimenti, Centro, Assurdo teatro, La lingua, ovvero: l’amore che ho per loro), corredati da alcune pagine conclusive di Note. Alla sua uscita, Tristissimi giardini venne letto soprattutto come un testo sul territorio veneto e come uno degli esempi più rilevanti di rappresentazione dello sprawl urbano; contestualmente ai critici letterari, come era già capitato con I quindicimila passi, se ne sono occupati urbanisti, architetti, geografi, evidenziando la capacità dello scrittore di restituire plasticamente la cementificazione del territorio, la capillare presenza di zone artigianali e industriali, la disseminazione dei capannoni, oggi in larga misura dismessi, la realizzazione di una rete stradale volta esclusivamente a facilitare il trasporto delle merci nonché un uso “scenografico” dei molti centri storici della regione. Emblematiche le righe dedicate a Treviso: «Un centro così bello, così spaventosamente pulito e leccato, un po’ stile Benetton per intenderci, che viene sempre voglia di buttare per terra una carta, una cicca, qualcosa, o almeno questo è l’effetto che ha sull’autore» (p.77).
Ferma restando la sua tenuta “territoriale”, Tristissimi giardini si presta anche a osservazioni sulle strategie compositive e sulle scelte formali (Cfr. il recente saggio di M. Giancotti, Trevisan nel territorio in Una (non) prospettiva. Percorsi intorno all’opera di Vitaliano Trevisan, a cura di A. Barbieri e M. Giancotti, Mimesis, 2024, pp. 227-244)
Perché ragiona sul senso e l’uso delle parole
«Concentrarmi sulle parole, sezionarle, guardarci dentro, definirle e ridefinirle, è questo il mio compito, se ne ho uno» (p.14): l’intento programmaticamente espresso in questa frase serpeggia in tutto il personal essay nel quale alcuni termini, in corsivo nel testo, sembrano fungere da pietra d’inciampo. In effetti il modo con cui l’autore seleziona il lessico, spesso “sviscerando” il senso e l’uso di alcune parole, è uno dei punti di forza su cui si fonda la sua argomentazione.
In Frammenti sulla vecchiaia, capitolo funzionale a mostrare l’assunto di tipo anagrafico «Le donne vivono più degli uomini», Trevisan si dilunga, a esempio, sul temine casalinga. Si tratta di una digressione, tipica della sua scrittura e priva di carattere esornativo, che si incista già all’inizio del capitolo: descrivendo il cambio di status sociale delle famiglie insediatesi nel paese dove è ritornato a vivere dopo la morte della madre, Cavazzale, l’autore dà conto di un mutamento di ordine socio-antropologico. Si tratta, scrive, di famiglie «d’altra razza» nelle quali ai mariti professionisti («un medico, un imprenditore, un dirigente») si affiancano le «mogli casalinghe»:
Mogli casalinghe, ma il termine è ingannevole, non lo sento corretto. Mia madre, casalinga, […] era qualcosa di completamente diverso: l’intera economia domestica si concentrava sulla sua persona, e così per tutte le altre donne del quartiere. Niente a che fare con l’attività eminentemente organizzativa, direi manageriale, con cui le tre nuove arrivate occupano il loro tempo. Donne delle pulizie, baby-sitter, giardinieri periodici, smistamento figli e poi jogging, palestra, parrucchiera e cura del corpo in generale […] casalinga. Ecco un’altra di quelle parole che andrebbero portate in officina per una revisione. (pp. 52-53)
La digressione include anche un ragionamento sulla trasformazione degli spazi esterni delle case, quei «tristissimi giardini» che, oltre a aver subìto un’omologazione strutturale «che comprende l’insopportabile prato cosiddetto all’inglese […], l’irritante pietra/blocco da giardino, la claustrofobica […] siepe di alloro, gli alberi nani e […] uno o più ulivi centenari» (p.46), denunciano un’«ansia securitaria» e una netta propensione all’isolamento delle famiglie della «classe media» che vi abitano.
Perchè saggismo e micronarrazione si compenetrano
Nel personal essay per Laterza Trevisan rovescia la natura del rapporto tra saggismo e racconto, da sempre caratteristico della sua scrittura: nella Trilogia di Thomas (1997-2007),l’argomentazione risulta infatti incorniciata da una trama, seppur rarefatta; viceversa in Grotteschi e arabeschi (2009) e in Tristissimi giardini l’impianto ragionativo del testo si emancipa dall’elemento finzionale pur non rinunciando alla libertà di inserire micronarrazioni e apologhi, dando vita a quello spazio narrativo che troverà il suo coronamento in Works (2016): del resto in un’intervista pubblicata su questo sito dopo la pubblicazione del suo capolavoro si legge: «il racconto è solo una parte del discorso; l’ambito della scrittura è ben più ampio e non si esaurisce di certo in esso».
L’«esperienza personale, privata, esistenziale» cui Trevisan accenna, alludendo alla lezione di Pasolini, costituisce la struttura esperienziale su cui si agglutinano ragionamento e narrazione, alimentandosi a vicenda: in Tristissimi giardini, anzi, gli episodi autobiografici ravvivano e rafforzano la parte saggistica del testo come nel caso della digressione titolata Time works (pp.20-23) poi ripresa nel libro successivo. In questo capitoletto il rimprovero rivolto a Trevisan per essersi preso una pausa-sigaretta da parte dell’anziano padrone della fabbrica diviene dimostrazione del fatto che «tutto ciò che si muove in e per questo territorio, si regola sullo stesso metronomo, “lavora” con gli stessi secondi» (p.22).
Un altro excursus esemplare, tra l’interdetto e il divertito, si legge nel capitolo che dà il titolo al libro; l’autore è tornato a abitare a distanza di anni nella casa di famiglia dove è cresciuto ma l’abitazione, inspiegabilmente reattiva e come animata da un senso di ribellione, si comporta «come un organismo irritato dall’intrusione di un corpo estraneo»:
Poche settimane e tutto sembra andare in pezzi: le porte del frigorifero cadono, il forno elettrico va in corto, dell’acqua si infiltra in cucina venendo da non so dove, il bidet perde, il coperchio del wc è sempre più pericolosamente instabile, il diffusore della doccia è da cambiare, la televisione, quella piccola che mia madre teneva in cucina, una sera fa uno strano scoppio soffocato e si spegne per sempre, e mentre le poche piante che ho portato con me sono indecise se continuare a vivere o lasciarsi morire, e nel dubbio deperiscono di giorno in giorno, le stanziali sembrano interdette; non le ho spostate né importunate, ma sentono che qualcosa è cambiato – troppa acqua?, troppo poca?, non ai giusti orari?, e restano in attesa come congelate; e mentre un esercito di formiche prolifera improvviso e rischia di invadere la veranda, varie erbe e piante parassite hanno già conquistato buona parte del piccolo giardino di tristezza devastante. (pp.38-39).
Il gusto per l’aneddoto e, in generale, per le micronarrazioni è percepibile nell’impiego della lunga enumerazione con cui Trevisan assiste all’animarsi degli oggetti domestici, indocili e oppositivi rispetto alle abitudini del “nuovo” inquilino al punto da divenire in parte inservibili.
Dopo aver descritto con quali e quanti modi l’edificio manifesti, se così si può dire, la sua reattività, Trevisan passa a esaminare il suo stesso processo di riadattamento, legato ai cortocircuiti temporali che il cervello deve elaborare. È a questo punto che, fulminea, arriva un’immagine della sua infanzia:
In questo contesto, nuovo e vecchio a un tempo, il cervello ha il suo daffare, i messaggi che riceve sono ambigui, i salti temporali continui e inevitabili, così che non è strano, ma anzi frequente, ritrovarsi immobili a osservare un particolare, ad esempio quei quattro piccoli fori sul telaio della finestra, là dove si conficcò la forchetta che mia madre mi tirò dietro in un impeto d’ira, un pomeriggio di quasi quarant’anni fa, e che schivai abbassandomi al momento giusto, di cui ricordo anche il sibilo, quando mi sfiorò i capelli facendomi rabbrividire, e il rumore sordo, di quando si conficcò nel legno, il vibrato metallico che ne seguì, e mia madre, immobile, che si porta lentamente una mano alla bocca. […] Ecco di nuovo vagare nel passato. (pp. 41-42)
Anche quando la scrittura di Trevisan lascia spazio a squarci autobiografici, in questo caso squisitamente digressivi, gli episodi personali non assumono mai il sapore di una narrazione ombelicale, quanto piuttosto servono da puntello, in soggettiva, di un percorso mentale conoscitivo: si notino la nitidezza dei movimenti prima del figlio e poi della madre, perfetti nel descrivere la tensione del momento e la chiarezza dei ricordi sonori legati alla forchetta (il sibilo, il rumore sordo, il vibrato metallico). L’argomentazione, insomma, trova un rinforzo nel richiamo alla concretezza di un’occasione.
Per concludere, dunque, oltre alla dimensione territoriale e spaziale, Tristissimi giardini è un testo rilevante sia per la riflessione, spesso demistificante, sull’uso del linguaggio sia per la peculiare fusione di saggismo e narrazione che fa di questa opera l’incunabolo di Works.
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