Biografia e autobiografia
Per Carocci editore è da poco uscito Biografia e autobiografia. Scritture di vita dall’antichità a oggi, a cura di Riccardo Castellana. Pubblichiamo l’introduzione del curatore, ringraziandolo insieme all’editore.
Life-writing
L’italiano non possiede ancora un equivalente, sufficientemente accolto nell’uso, dell’espressione life-writing, che in inglese designa l’insieme di quei generi del discorso come le biografie e le autobiografie, le memorie e i diari, gli autoritratti e i ritratti in forma scritta, orale o visiva, che, pur avendo caratteri formali e funzioni ben distinti, sono accomunati dall’essere, appunto, “scritture di vita” (e non “scritture dell’io”, come a volte, impropriamente, si dice). In alcuni casi il termine può avere un’accezione persino più ampia, quale quella che si può leggere nel sito dell’Oxford Centre for Life-Writing, nato pochi anni fa nella prestigiosa università britannica per studiare questi fenomeni in una prospettiva interdisciplinare:
La “scrittura di vita” include biografie, autobiografie, memorie, lettere, diari contenenti mere informazioni pratiche o riflessioni di natura privata, dati antropologici, testimonianze orali, racconti di testimoni oculari, biopics, performance teatrali e musicali, obituari, giornali scandalistici, e articoli di pettegolezzi, blog e social media come i tweet e le “storie” di Instagram. Non è solo qualcosa per specialisti di storia e di letteratura, ma è rilevante per le arti e le scienze e può coinvolgere filosofi, psicologi, sociologi, etnologi e antropologii.
Un campo potenzialmente sterminato, come si vede, e la cui estensione suggerisce anzitutto una riflessione: quanto sia divenuta rilevante, nella contemporaneità, la vita privata e quale importanza rivestano, per noi oggi, le esistenze degli altri e i loro racconti. Ma non è sempre stato così, e lo scopo principale di questo libro è quello di mostrare, attraverso gli strumenti della storia letteraria e culturale, come si sia arrivati ad attribuire oggi un simile valore alle scritture di vita.
Non ricostruiremo tuttavia nel dettaglio la vicenda delle life-writings, né delle loro forme principali (la biografia e l’autobiografia), non solo perché su questi due generi esistono già valide opere di riferimento, che saranno di volta in volta citate nei singoli capitoli (dai lavori di Momigliano, Misch e Berschin per l’antichità e il Medioevo fino a quelli di Lejeune, Beaujour, Madelénat, Battistini, D’Intino e Zatti per l’età moderna), ma soprattutto perché ci è parso più utile procedere per campioni che mostrassero in modo chiaro gli scarti decisivi, gli snodi e le fratture. Moltissimo (è bene dirlo subito) rimarrà fuori dal nostro discorso, che privilegerà da un lato i generi retrospettivi di lunga durata, prendendo le mosse dall’Età classica e dal Medioevo per dare poi ampio spazio alla modernità, soprattutto in Italia ma con i necessari riferimenti alla cultura francese e a quella inglese. Allargheremo il discorso anche all’antropologia culturale, al cinema, alle arti visive e ai social media, perché biografia e autobiografia, i due generi perno del nostro discorso, hanno, o hanno avuto in passato, anche scopi extraletterari: storico-cronachistici, didattici, morali, politici, religiosi e via dicendo. La dimensione letteraria coincide di rado con lo sconfinamento nei territori della finzione e ha a che fare piuttosto con questioni di stile o di struttura narrativa. I casi limite della biofiction e dell’autofiction, che sono stati già trattati in un altro manuale di questa serie (Castellana, 2021) e che quindi qui non affronteremo, non segnano infatti una svolta significativa nella storia delle life-writings, ma ci aiutano a capire meglio certi spostamenti della linea di confine tra il discorso finzionale e quello fattuale: un confine mobile, certo, ma non impossibile da definire.
Il problema più complesso per chi debba accingersi a una ricostruzione storica delle life-writings è però un altro: biografia e autobiografia sono categorie moderne, strettamente collegate a una concezione della vita individuale che ha iniziato a diffondersi, in Europa, soltanto tra Sei e Settecento, quando si è cominciato prima (con Cartesio) a riconoscere al mondo delle passioni piena autonomia rispetto a quello dell’etica, e poi (con Rousseau e i romantici) a fare di quel mondo la fonte stessa della morale (Taylor, 1993, pp. 353-4). Moderna è anche l’idea che la memoria, e non l’anima (agostinianamente), sia la vera sede dell’identità (Locke), così che solo da un secolo e mezzo circa siamo disposti a riconoscere che l’autobiografia non è, semplicemente, scrittura della nostra vita, ma scrittura di quanto di essa «si conserva in una memoria individuale che, se scarta e omette, pure può aggiungere e trasformare» (D’Intino, 1998, p. 221). E una frattura si ha anche, più o meno alla stessa altezza, all’interno del genere biografico, se è vero che il materiale su cui lavora il biografo è fatto essenzialmente di documenti e se la moderna concezione storiografica considera il documento non come il depositario della verità assoluta, ma come un oggetto di analisi critica e di interpretazione. Ebbene, solo se siamo consapevoli di tutto ciò possiamo stabilire una linea di raccordo tra le Vite parallele di Plutarco ed Eminent Victorians di Lytton Strachey, o intravedere una continuità tra le Confessiones di sant’Agostino e le Confessions di Jean-Jacques Rousseau.
Come leggere questo libro
Proviamo adesso a tracciare una breve guida alla lettura di questo libro e a dare qualche indicazione su come utilizzarlo. La successione dei capitoli segue un ordinamento per lo più cronologico, alternando pertanto la trattazione dei due generi maggiori, ma nulla vieta di seguirne le vicende separatamente e di costruire percorsi più specifici e limitati. Nel capitolo 1 lo storico Stefano Ferrucci disegna un profilo della biografia antica e dedica ampio spazio alle Vite parallele di Plutarco, che, oltre a essere un capolavoro del genere, offre anche al lettore una prima occasione per ragionare sugli elementi di continuità e di discontinuità della scrittura biografica. Lo scopo della biografia antica, infatti, non è né quello di accertare la verità dei fatti attraverso il vaglio delle fonti, né di restituire al lettore la singolarità irripetibile di un individuo: se leggessimo le Vite parallele o qualsiasi altra opera analoga premoderna con questa aspettativa ne rimarremmo profondamente delusi. Si tratta piuttosto, soprattutto per Plutarco, di ricostruire, attraverso i dettagli biografici e il racconto delle passioni, i tratti di un ethos, di un carattere ideale scelto in virtù della sua esemplarità: un’esemplarità in positivo, certo, ma anche in negativo, dato che il parallelo tra Greci e Romani doveva servire all’autore (un intellettuale formatosi ad Atene e vissuto sotto l’impero romano) a esaltare la superiorità morale dei primi rispetto ai secondi, le virtù dei vinti rispetto a quelle dei vincitori.
Grandi nel bene come nel male, i personaggi della biografia antica ci dicono anche che quello dell’esemplarità è il requisito essenziale per ottenere il «diritto alla biografia» (Lotman, 1985), e tale diritto, per tutta l’antichità, era rigorosamente limitato a una cerchia sociale di persone molto ristretta (santi, re, eroi e grandi condottieri), e tale rimarrà, sostanzialmente, per tutto il Medioevo. Restrizioni persino più drastiche riguardano l’autobiografia: parlare di sé, avverte Dante nel Convivio (1, ii), è cosa oltremodo sconveniente, ed è ammissibile solo se lo si fa per difendersi da accuse infamanti e ingiuste oppure per dare ai lettori un esempio positivo di vita e di condotta morale, come ha fatto Agostino nelle sue Confessiones. Un libro, questo, che nella tarda antichità e nel Medioevo veniva letto non solo come una biografia del santo, ma anche e soprattutto come uno scritto apologetico e parenetico, volto cioè da un lato a difendere le posizioni dell’autore in materia teologica e dall’altro a esortare i lettori a seguire i principi della fede cristiana, come ricorda Filomena Giannotti nel capitolo 2. Per molti secoli, insomma, quello che oggi consideriamo l’archetipo della scrittura autobiografica occidentale, il primo scritto che dedica ampio spazio all’infanzia e alle pieghe nascoste dell’animo umano, fu recepito soprattutto come opera dottrinale, e del resto solo i primi nove libri dell’opera rispettano i tratti del genere, mentre i quattro successivi adottano i modi discorsivi del trattato teologico o del commento alle Scritture, quasi a voler ribadire che il racconto biografico retrospettivo è solo uno dei modi in cui si testimonia l’infinita grandezza di Dio.
Il ruolo dello storico della letteratura è, soprattutto in casi come questo, particolarmente delicato: per un verso egli deve ricostruire, con fedeltà filologica, i tratti testuali dell’opera in rapporto al primo orizzonte di ricezione; per un altro, non può fare a meno di considerarne le potenzialità ermeneutiche che si realizzeranno solo nei secoli a venire, guardando al passato con l’occhio del presente.
In questa prospettiva Francesco Stella sintetizza, nel capitolo 3, ben mille anni di storia della biografia in lingua latina nel Medioevo, sottolineandone la discontinuità sia con l’età antica sia con quella moderna. Il fulcro del suo discorso sta nel concetto di “individualità”, che nel Medioevo era considerata per un verso come manifestazione di una forza esterna (divina) e per l’altro doveva fornire un esempio positivo per l’intera comunità. L’eccezionalità delle vite (di santi e, in misura minore, di laici), ciò che le rendeva degne di essere messe per iscritto, non era ammirevole di per sé o in funzione della ricostruzione di un ethos ideale e archetipico (Plutarco) ma solo in quanto dimostrazione e “prova” dell’intervento divino nelle vicende mondane; oltre che, sulla scorta di Agostino, come esempio per il credente. Ciò è chiarissimo non solo, ovviamente, nelle agiografie, un sottogenere che per statuto propone un paradigma di (irraggiungibile) esemplarità, ma anche nelle vite dei re, che i non specialisti spesso ignorano ma che pure costituiscono una parte considerevole delle biografie prodotte nel Medioevo (e talvolta offrono veri capolavori come la vita di Carlo Magno di Eginardo).
Nel capitolo 4, dedicato a biografia e autobiografia in Italia tra Medioevo e Rinascimento, Vincenzo Caputo illumina quella prima e importante fase di ampliamento del «diritto alla biografia» che avviene, in età premoderna, quando si diffonde il sottogenere delle vite di letterati e di artisti illustri. Partendo dal celebre caso di Vasari, si affrontano anche i motivi dello scarso successo della scrittura di sé tra Umanesimo e Rinascimento, ovvero (e paradossalmente) nell’epoca considerata da sempre come la culla dell’individualità moderna. La vera svolta in quest’ambito si ha, com’è noto, con Rousseau, a cui Sergio Zatti dedica l’intero capitolo 5. È con Rousseau, “padre fondatore” dell’autobiografia moderna, che si afferma il principio per cui ciò che conta davvero non è l’immagine pubblica dell’uomo ma la vita interiore e la dimensione privata, anche nei suoi aspetti più apparentemente insignificanti o sordidi, che però possono rivelare la dimensione più profonda e autentica di ciascuno di noi. È con Rousseau che la definizione più comunemente accettata di autobiografia («racconto retrospettivo in prosa che una persona fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità»; Lejeune, 1986b, p. 12), diventa pienamente operativo.
L’incalcolabile valore modellizzante delle Confessions è chiarito da Zatti in pochi punti essenziali che consentono, anche al lettore non specialista, una comprensione di fondo delle tematiche affrontate nel libro e permettono, inoltre, di avere ben chiara quale importante partita si giochi anche in Italia alla fine Settecento, quando il modello Rousseau entra in collisione con la tradizione classicistica, generando un nuovo campo di tensioni da cui nascono i capolavori di Goldoni, Alfieri e Casanova. Ne parla nel capitolo 6 Francesca Fedi, che offre un quadro aggiornato, anche dal punto di vista bibliografico, del periodo aureo dell’autobiografia letteraria in Italia. Tanto i Mémoires goldoniani (scritti in francese, come l’Histoire de ma vie di Casanova) quanto la Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso non poterono ovviamente non risentire dell’impatto che le Confessions avevano avuto sulla cultura europea di fine Settecento, eppure le soluzioni proposte da questi autori sono lontane da quelle del filosofo ginevrino: più raro e meno compromettente il sondaggio degli abissi oscuri dell’io, più mosso e drammatico il racconto della vita di due scrittori (non a caso) di teatro.
Ma il Settecento, scrive l’anglista Paolo Bugliani nel capitolo 7, è anche il secolo in cui nasce la scrittura biografica moderna. E se il rinnovamento dell’autobiografia parte dalla cultura francese, l’arte della biografia viene invece canonizzata in Inghilterra, negli stessi decenni in cui prende forma anche il romanzo moderno. Mentre Defoe, Richardson e Fielding diventano gli acclamati maestri della fiction, a Johnson viene riconosciuto il merito di aver codificato la biografia letteraria moderna presentando i suoi biografati come individui del loro tempo, assillati dalle cure e dalle preoccupazioni quotidiane di ogni altro essere umano. Non più eroi e condottieri, ma esclusivamente poeti e scrittori (a conferma di quella estensione del «diritto alla biografia» avviata in età umanistico-rinascimentale), gli eroi di Johnson sono artigiani della parola del tutto restii a prestarsi alla futura mistificazione romantica del genio artistico. Agli inizi del Novecento, poi, il movimento della New Biography (che a suo modo tenta di accodarsi al movimento modernista, rivoluzionando la biografia oleografica di età vittoriana) contribuisce ulteriormente alla fortuna che questo genere continuerà ad avere nella tradizione anglosassone (e molto meno nella nostra); e lo fa ricorrendo a strategie retoriche tipiche del romanzo: concentrazione drammatica in scene clou, creazione di motivi ricorrenti che offrono una chiave interpretativa del carattere del biografato e altre tecniche narrative che, più tardi, sarebbero state riusate nel biopic cinematografico e televisivo.
Concludono il discorso sullo sviluppo dell’autobiografia letteraria i capitoli 8 e 9, dedicati alla contemporaneità rispettivamente in Francia e in Italia. Francesca Lorandini, dopo aver ricostruito la discussione teorica che proprio in area francofona ha avuto il suo centro nevralgico, in particolare con gli studi di Lejeune, ripercorre le tappe principali del genere dagli anni Trenta (Gide, Colette, Leiris) fino al presente (Ernaux e Carrère), mentre Riccardo Castellana studia un secolo di scritture autobiografiche (dagli anni Dieci del Novecento agli anni Dieci del nuovo millennio), articolando il suo discorso in quattro momenti chiave o, meglio, quattro angolature dalle quali appare particolarmente chiaro il modificarsi del sistema dei rapporti tra autobiografia, memoriale e memoir, individuando proprio in quest’ultimo sottogenere la forma privilegiata di scrittura autobiografica nel presente.
Gli ultimi capitoli propongono infine ulteriori integrazioni al discorso svolto, nei primi nove, sulle scritture (auto)biografiche in senso stretto, e lo fanno varcando in modo deciso il confine che separa la letteratura non solo dal “non letterario” ma anche da altre forme di espressione. Nel capitolo 10, la comparatista Valeria Taddei ricostruisce la storia della principale forma non retrospettiva di scrittura di sé, ovvero il diario, per poi definirne i tratti salienti dal punto di vista teorico. Se i presupposti di questo genere del discorso si hanno, nell’Europa di Quattro e Cinquecento (e soprattutto in ambito protestante), grazie alla consuetudine religiosa dell’introspezione o per influenza di forme di scrittura pratica (registri contabili mercantili, libri di famiglia, resoconti di viaggio), nella modernità il diario interessa soprattutto nella misura in cui può diventare il contenitore indifferenziato di quelli che Eric Marty ha chiamato «gli scarti dell’io», ovvero di tutto quanto non viene filtrato dalla memoria retrospettiva e non concorre, quindi, a restituire un’immagine coerente e orientata a un fine preciso di sé, ma rivela piuttosto, almeno in potenza, i risvolti più autentici della personalità.
Nel capitolo 11 l’antropologo Pietro Clemente affronta le autobiografie degli illetterati, dei marginali e dei soggetti subalterni, i quali, da quando esistono forme di registrazione meccanica della parola come il magnetofono e il registratore (e adesso i dispositivi elettronici dotati di microfono), hanno potuto “scrivere” le loro vite pur non possedendo le competenze scrittorie adeguate a farlo. Protagonista del rinnovamento della ricerca folklorica avvenuto negli anni Settanta, Clemente ricostruisce dall’interno il clima culturale e politico con cui l’antropologia del secondo Novecento ha riscritto, anche grazie a questi documenti, la storia del mondo contadino e, più in generale, dei ceti subalterni.
L’aspirazione alla biografia è un tema ricorrente, inoltre, nella storia del cinema. Lo era già agli albori della cinematografia e poi negli anni Venti del Novecento, quando il film ha svolto la funzione di storiografia “pubblica”. Come sostiene Giacomo Tagliani nel capitolo 12, il biopic è stato sin dagli esordi la vera vocazione della nona musa, che intorno alla figura del singolo personaggio storico e alle sue qualità umane ha spesso costruito un racconto capace ora di suscitare l’immedesimazione dello spettatore (e di proporre veri e propri modelli di vita negli spettatori e nelle spettatrici), ora di sfidare il pubblico con ardite sperimentazioni formali (come nella scena finale di Napoleon di Abel Gance, girata con la tecnica della Polyvision, che permette la scomposizione in tre sezioni contigue dello schermo e quindi la moltiplicazione dei punti di vista). Palese il rischio cui va incontro il biopic classico: quello di un conformismo oleografico in parte ancora presente in alcune pellicole (o serie tv) dei nostri giorni; ma è un rischio scongiurato dalle “controstorie” della nazione che, sostiene ancora Tagliani, si moltiplicano a partire dagli anni Sessanta e Settanta, quando Penn, Peckinpah e Altman rileggono la storia americana attraverso le vite dei suoi eroi criminali (Butch Cassidy, Bonnie e Clyde, Billy the Kid), distanziandosi, anche da un punto di vista formale, dal classicismo biografico hollywoodiano.
A chiudere il libro è il semiologo Tarcisio Lancioni, che affronta il genere dell’autoritratto visuale in una prospettiva di lunga durata, partendo dagli esordi della modernità per arrivare ai nostri giorni. Prima che la fotografia liberalizzasse la pratica del ritrarre sé stessi, e che gli smartphone rendessero il selfie alla portata di chiunque, solo un pittore possedeva le competenze necessarie per farlo: a partire da questo semplice dato di fatto, il capitolo 13 si interroga su un gesto (per noi) apparentemente naturale, ma in realtà determinato da cambiamenti tecnologici che influiscono anche sullo stile. Funzionale a quella sorta di diario in pubblico che è un profilo social, composto per un buon dieci per cento, secondo alcune stime, proprio dai nostri autoritratti, quella del selfie è una pratica rivelatrice e ci dice quale importanza rivesta l’immagine con cui ci mostriamo agli altri. Rarissimo prima del Cinquecento, l’autoritratto pittorico à la Dürer segna un punto di svolta fondamentale nell’autocoscienza dell’artista e nel riconoscimento sociale della sua funzione. Spesso però, anche dopo il Rinascimento, la pratica dell’autoritratto non dà luogo a un genere autonomo ma è funzionale al disegno complessivo dell’opera: Raffaello nella Scuola d’Atene (almeno secondo Vasari) si ritrae defilato sullo sfondo e guarda verso di noi, vuoi per “firmare” il quadro (un po’ come farà Hitchcock con le fugaci apparizioni nei suoi film) vuoi per proporre un enigma all’osservatore, quasi a volerci dire “sì, sono proprio io”; Caravaggio quarantenne, invece, sceglie di dipingersi come Golia decapitato da Davide, prestando cioè il proprio volto e le proprie fattezze a un personaggio di primo piano del suo dipinto. Diversissimi, come si vede, possono essere gli usi dell’autoritratto, e forse sono proprio le sperimentazioni formali di artisti e scrittori a mostrare anche a noi, semplici lettori, spettatori e osservatori, le infinite possibilità nascoste nelle “scritture di vita”.
i https://oclw.web.ox.ac.uk/what-life-writing.
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