A proposito di L’Avversario di Emmanuel Carrère
L’avversario e altri nemici
Perché ci ricordiamo dove eravamo e cosa stavamo facendo il giorno in cui è accaduta una sciagura? Cosa ci spinge a ricostruire il preciso momento della nostra vita che coincide con l’istante che ha sconvolto l’esistenza di un essere umano a noi ancora ignoto? Cosa, poi, può spingere uno scrittore a scrivere di un delitto compiuto da una persona a lui del tutto estranea?
Nella decisione “rapidissima”, come scrive Carrère, di raccontare una vicenda tragica e di ricercarne le cause, a seguito delle quali varie vite sono state travolte, talune spezzate, influisce un demone interiore.
Si tratta di una vera ossessione che induce a scendere giù nel buio della coscienza umana, a indagarne le pieghe più profonde.
L’avversario suona come il titolo di un film western; in realtà la vicenda narrata non potrebbe essere più lontana da quel contesto, ma una certa eroica e dannata solitudine del protagonista si percepisce in questa parola: il protagonista, infatti, è avversario di se stesso.
Homo sum, humani nihil a me alienum puto
Ciò che ci interroga in quanto esseri umani è il bisogno di sapere come ci si sente nei panni di un altro. Alcuni sanno già cosa si prova, sono dotati di tale empatia che immediatamente sentono le stesse emozioni, provano i medesimi stati d’animo di altri loro simili. L’autore de L’avversario fa parte di questa categoria di persone. La sua postura è intensamente empatica, compassionevole e lucidamente analitica allo stesso tempo.
[…] La mattina del sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean Claude Romand uccideva sua moglie e i suoi figli, io ero a una riunione all’asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia. Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand…il mercoledì mattina ho letto il primo articolo di «Libération» sul caso Romand. Così esordisce Emannuel Carrère nell’incipit de L’avversario.
Quella mattina i vigili del fuoco di Prévessin, nel dipartimento francese del Giura, al confine con la Svizzera, chiamati a domare un gravissimo incendio scoppiato nella villa di un noto professionista, il dottor Romand, in forza all’OMS di Ginevra, trovano la casa distrutta e portano via i corpi senza vita di Caroline e Antoine, sette e cinque anni e di Florence, loro madre. Romand viene trovato privo di coscienza ma ancora vivo e trasportato all’ospedale di Ginevra dove, trascorsi alcuni giorni fra la vita e la morte, sopravvivrà, nonostante l’intenzione di suicidarsi dopo aver sterminato la sua famiglia. (p.4)
Carrère decide subito di occuparsi di questa vicenda, di avvicinarsi all’uomo che ha ucciso la sua famiglia e gli anziani genitori per impedire ciò che ormai era inevitabile, il crollo del suo castello di menzogne. Un uomo da tutti considerato mite, perbene, affidabile, stimato professionista, amico sincero. Impossibile immaginare cosa covasse dietro quell’apparenza così rassicurante e onesta.
[…] Si chiedevano tutti la stessa cosa: come abbiamo fatto a vivere così a lungo accanto a quest’uomo senza sospettare nulla? E tutti cercavano nella memoria il ricordo di un momento in cui erano stati sfiorati dal sospetto, o da qualcosa che avrebbe potuto suscitarlo. (p.11)
La morte della fiducia
La storia de L’avversario è il classico incubo a occhi aperti, un tipo di esperienza nella quale chiunque potrebbe, in teoria, trovarsi, rischiando di impazzire nel tentativo di comprendere dove ha sbagliato, cosa non ha capito, cosa gli è sfuggito.
Il libro, insomma, racconta e analizza un’atroce storia di sopraffazione e inganno ma anche di smarrimento, in essa si delineano alcune delle più comuni dinamiche comportamentali del nostro tempo, alla base delle quali c’è sicuramente una fragilità di fondo, un’incapacità di reggere le frustrazioni, di dominare il senso di fallimento che per natura gli esseri umani sperimentano nel corso delle loro vite. Al centro di questa narrazione campeggiano individui dalle personalità frammentate, solitarie e tendenzialmente propense alla menzogna, alla mistificazione.
Emmanuel Carrère, nelle pagine di apertura del suo libro, esprime chiaramente il suo desiderio, quasi un bisogno di addentrarsi nei meandri di questa tragica vicenda:
“Quando ho preso la decisione di scrivere sul caso Romand, una decisione rapidissima, ho pensato di precipitarmi sul posto, di piazzarmi in un albergo a Ferney-Voltaire e recitare la parte del giornalista invadente e ficcanaso. (p.15)
Poi, invece, lo scrittore prende il sopravvento sul cronista, e Carrère chiarisce a sé stesso e ai lettori le reali motivazioni che lo spingono a interessarsi di questa vicenda:
Anche se avessi condotto un’inchiesta per conto mio, anche se fossi riuscito ad aggirare il segreto istruttorio, avrei portato alla luce soltanto dei fatti. I particolari delle appropriazioni indebite di Romand, il modo in cui un anno dopo l’altro, aveva organizzato la sua doppia vita,[…]erano tutte cose che avrei saputo al momento opportuno, ma non mi avrebbero rivelato nulla di quanto mi premeva davvero sapere: che cosa gli passasse per la testa durante le giornate in cui gli altri lo credevano in ufficio…ma ”andava a perdersi da solo, tra le foreste del Giura”.(p.15)
Ai miei occhi, scrive Carrère nella sua lettera di presentazione a Romand, chiuso in carcere, nella quale gli chiede di prendere in considerazione l’ipotesi di lasciargli raccontare la sua storia, «ciò che lei ha fatto non è il gesto di un comune criminale, né di un pazzo, ma di un uomo spinto agli estremi da forze che non controlla, e vorrei mostrare all’opera proprio queste terribili forze». (pp.16-17)
Ora, se qualche orrore tralascia la notte, il giorno si precipita a compierlo.
Come nel verso sofocleo (Edipo re, vv. 198-199), così nella vicenda di Jean Claude Romand. Un uomo che non riesce a trovare la strada della realizzazione professionale, mente a sé stesso e poi a tutta la comunità in cui vive dalla nascita, costruendosi una falsa identità, millantando di aver conseguito una laurea in medicina, di aver vinto vari concorsi e di essere infine stato assunto in una posizione di prestigio all’OMS di Ginevra. Jean Claude Romand finge di viaggiare ogni giorno dalla sua casa vicino al confine con la Svizzera verso la capitale, dove in realtà, per quasi diciotto anni, ogni mattina, parcheggia nello spazio antistante gli uffici dell’OMS, entra col tesserino da visitatore, frequenta la biblioteca aperta al pubblico, studia testi di medicina per avvalorare l’idea che tutti hanno di lui (quella di un medico preparato e pronto a rispondere a tutte le domande postegli da amici e parenti, ancorché schivo e modesto), poi torna a casa la sera. Di tanto in tanto Romand passeggia nei boschi del Giura, trascorrendo le sue giornate in completa solitudine, alle prese con chissà quali pensieri. Inoltre egli ottiene, in virtù della sua presenza solida e rassicurante, la piena fiducia di amici e parenti che gli affidano i risparmi di una vita, per investirli proficuamente in una banca svizzera della quale egli asserisce di conoscere bene il personale.
Egli, quindi, vive attingendo ai conti accesi con danaro che i suoi cari gli hanno affidato.
Quando il suocero inizia a chiedere notizie delle somme investite e poi, poco dopo, sotto la pressione degli amici e degli anziani genitori, il castello di menzogne tanto accuratamente costruito comincia a sgretolarsi.
Le parole non dette sono armi
Non esiste altra via d’uscita che uccidere tutti per impedire il disvelamento della verità. Così accadrà. I due anziani genitori di Jean Claude Romand saranno uccisi dal loro figlio, in casa, a colpi di fucile; l’indomani la moglie Florence muore per i colpi inferti dal marito con un mattarello da cucina, mentre i bambini dormono. La mattina dopo toccherà a Caroline e Antoine, uccisi dal loro padre con un proiettile alla nuca, sparato con un’arma silenziata, mentre i due bambini stavano con la testa sotto un cuscino, nei loro lettini, seguendo le regole di un nuovo gioco proposto dal papà.
Romand, dopo pochi giorni di degenza presso l’ospedale di Ginevra, sarà in grado di rispondere alle domande degli inquirenti che hanno rapidamente ricostruito la dinamica degli eventi smascherandolo, verificando tutte le falsità da lui raccontate e meticolosamente inanellate nel corso di quasi diciotto anni. Non resta molto da dire, l’avversario rende piena confessione dei delitti commessi nel giro di pochi giorni e va subito al processo. Un procedimento durato meno di un mese, a seguito del quale l’uomo verrà condannato all’ergastolo.
Difficile spiegare la sensazione che si prova leggendo queste pagine: pare di trovarsi davanti a un abisso e sentire che il pericolo di precipitarvi è alla portata di tutti, basta perdere il controllo per un attimo, mentire una sola volta e diventa impossibile tornare indietro. Si entra in un vicolo cieco.
La cronaca nuda degli eventi, la solitudine dei protagonisti, l’apparente normalità delle loro esistenze si dipanano come un nastro nelle pagine narrate, diventando paradigma di un disagio sociale sommerso ma molto diffuso, che talora affiora in superficie sotto forma di banalissime vite umane, scandite da una precisa routine che può andare avanti a lungo senza scosse e nella totale insospettabilità.
L’avversario si sostanzia nell’attenzione rispettosa verso le vicende e i protagonisti, conducendo il lettore verso la catastrofe annunciata, a fronte della quale esistono soltanto due alternative: vivere o morire.
Nessuno che sia mortale deve essere chiamato beato, prima che oltrepassi il termine della vita senza aver patito alcun dolore[1]
Carrère, infine, si confessa nelle pagine conclusive di quello che si potrebbe definire un reportage dell’anima.
Egli asserisce, infatti, che dopo la stesura de L’avversario si è liberato per sempre delle sue ossessioni.
Quanti fantasmi si agitano dietro la storia di Jean Luc Romand, quanta luce ha premuto per uscire dalle tenebre, quanti misteri resteranno irrisolti per sempre?
La narrazione letteraria con i suoi tempi dilatati e la sua compassione ha palesato il suo ruolo fondante nelle nostre vite, aiutandoci a capire meglio chi siamo e quale posto occupiamo nel mondo, guidandoci nel rintracciare il non detto, il sottaciuto che non siamo capaci di ammettere neanche a noi stessi. La nostra verità, se ne esiste una.
Lo statuto di questo percorso narrativo che, partendo da una vicenda di cronaca nera, ne sublima eventi e protagonisti attraverso una sapiente analisi dei dettagli e dei moventi, conduce verso una considerazione conclusiva, semmai può essere detta un’ultima parola sul mistero della vita e della morte: il narratore si fa strumento di indagine e filtro da cui vengono trattenute le scorie, i residui, le impurità della vita umana, ciò che resta è un distillato di pietas, che sopravvive all’orrore.
[1] (Sofocle, Edipo re vv.1528-1530)
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