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diretto da Romano Luperini

Professori di desiderio. Seduzione e rovina nel romanzo del Novecento

Pubblichiamo due estratti dal volume di Valentina Sturli, Professori di desiderio. Seduzione e rovina nel romanzo del Novecento, Carocci, 2024, rispettivamente dalla prefazione di Guido Paduano e dal secondo capitolo. Ringraziamo autrice, editore e prefatore.

Prefazione di Guido Paduano

Valentina Sturli affronta in forma sistematica una serie di romanzi, collocati nella civiltà letteraria del Novecento o ai suoi margini, che hanno in comune il centro tematico e, in dipendenza da esso, un modello basilare di trama. L’uno e l’altro investono un rapporto amoroso infelice, che porta al degrado o addirittura all’annientamento la parte maschile, individuata da un tratto specifico aggiuntivo, l’appartenere alla categoria storica degli intellettuali e l’essere quindi in partenza titolare di una superiorità intellettuale e cognitiva: ma è proprio questa che determina la dinamica dell’azione con il suo progressivo declino, che la porta a capovolgere la forza in debolezza.

Oltre a questa uniformità che li costituisce in macrotesto, i vari romanzi presentano nel discorso critico un fitto insieme di relazioni, per lo più bilaterali, che hanno natura diversa. Alcune infatti sono rapporti di dipendenza o “filiazione diretta”, mentre in altre questa filiazione è “impensabile”: termine corretto, perché l’impossibilità non può essere provata, ma la certezza in proposito è sfiorata dall’asintoto.

Si tocca così uno degli snodi più delicati della comparatistica, il problema cioè di quanto essa possa differenziarsi, e quindi emanciparsi, da una scienza più antica e soggetta invece alla categoria del certo, che appunto in quanto tale gode di persistente fortuna in tempi di neopositivismo, la Quellenkunde. Magari travestita da “ricezione”, o “intertestualità”, è una parola, quest’ultima, usata per indicare qualunque fenomeno letterario, e quindi per non individuarne nessuno: assai più felice la definizione di “palinsesto” coniata da Gérard Genette (per quanto coniugata con un trattamento piuttosto schematico ed enciclopedico).

Va aggiunto che la certezza più esplicita è a volte ingannevole, o almeno sdrucciolevole: se da un lato Racine adduce a fonte della sua Andromaca Virgilio, contro l’evidenza che la indica nell’omonima tragedia di Euripide, dall’altro resta misterioso perché Leskov e poi Šostakovič abbiano intitolato Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk una storia rigurgitante di erotismo violento che è del tutto estranea alla tragedia di Shakespeare.

È merito dell’autrice essersi mossa su questo campo minato con un criterio e soprattutto con un animus organico, che smentisce il diffuso malvezzo di considerare “casuale” tutto ciò di cui non si riesce a trovare una causa (bisticcio inevitabile). Di fatto, proprio la sua analisi prova che le “curiose e inaspettate parentele” cui allude non sono affatto casuali: si tratta di risposte parallele a contesti e a codici sociali o psicosociali che, se non sono uniformi, sono almeno reciprocamente comprensibili.

Personalmente non credo che si debba parlare di casualità neanche quando i testi in gioco distano secoli o millenni, perché a monte di un testo letterario possono riscontrarsi situazioni storiche (tanto per intenderci, non metastoriche come gli archetipi junghiani) che in qualche loro ramificazione possono generare affinità parziali neppure troppo sorprendenti. E credo non si debba tacere che se dovesse essere istituita una gerarchia tra relazioni genetiche e non, dovrebbe essere chiaro che una testimonianza autonoma ha un rilievo storico-culturale di gran lunga maggiore di qualunque ripresa o citazione: la gerarchia opposta è paragonabile all’atteggiamento di un filologo che privilegiasse un codice descriptus contro un codice di famiglia diversa, o di un tribunale che anteponesse un “sentito dire” a una testimonianza oculare. […]

L’assunto che l’amore sia male è in pratica coestensivo a quello che la donna sia male. Ancora Aristofane dà ragione dell’estensione del pregiudizio quando nelle Rane si sostiene (a torto) che Euripide non abbia mai rappresentato una donna virtuosa, e a ciò viene risposto che non si deve alla sua misoginia, ma alla statistica delle esperienze reali. In una prospettiva a schiacciante prevalenza maschile – anche in molte scrittrici – è scontata la criminalizzazione della donna, che ha la sua giustificazione originaria nella colpa di Eva, anche se la sua chiamata in causa da parte di Adamo nella Genesi è un marchio incancellabile sulla vigliaccheria maschile.

Eppure il primo personaggio letterario che riceva discredito sociale dal legame amoroso che intrattiene è una donna, Elena nel terzo libro dell’Iliade. Dopo il duello tra Paride e Menelao ignominiosamente perso dal primo, a Elena, satura di rimorsi oltre che di disprezzo, si presenta Afrodite che, dopo aver salvato Paride, esercita a suo pro le funzioni di mezzana: Elena reagisce con furia adducendo l’opinione pubblica – sarebbe nemeseton (“criticabile”) mantenere il legame con un uomo così disonorato («alle mie spalle tutte le donne troiane / mi biasimeranno»; vv. 411-412). Ma la situazione contiene entrambi i poli emotivi di quella che fa da base ai romanzi analizzati da Sturli; nel momento stesso che viene negata la libido se ne afferma l’irresistibilità: Afrodite annienta Elena col ricatto del suo potere divino, ma insieme – ce lo insegna la tesi della “doppia determinazione” elaborata da Albin Lesky – è il prepotente impulso sessuale che piega Elena alle avance del secondo marito, ispirandole una rassegnazione fatale («così disse, e per primo entrò nel letto, e lo seguì la sua sposa»; v. 447). La tragedia attica, testimone di una civiltà ancora più sfavorevole alla donna, normalizzerà il triangolo che sta alle origini della guerra troiana prendendo ripetutamente Menelao a bersaglio per il suo attaccamento a un oggetto d’amore indegno, che lo spinge a una guerra sanguinosa per motivi non solo futili ma autolesivi; il culmine di questo atteggiamento è nell’Oreste di Euripide, quando il protagonista implora l’aiuto dello zio con queste parole: «a tutti i greci sembra che tu ami tua moglie: in nome suo ti supplico […] me infelice, a che punto sono arrivato!» (vv. 669-672). Il degrado si estende addirittura a chi utilizza per i propri fini la scandalosa dipendenza sessuale di Menelao! Tornando all’anomalia dell’Elena iliadica, confesso che mi ha provocato una certa emozione ritrovarne traccia – più che mai “curiosa e inaspettata” – nel corpus di Sturli, e in particolare nella Silvia di Parise e nella Stella di McGrath: ciò a riprova della varietà di sfaccettature e combinatorie affettive e relazionali che il sistema ammette al suo interno. […]

Cap. 2 “Anatomia di una caduta: il libertino e il pedagogo”

Tutti i romanzi che analizzeremo partono da una situazione di dislivello: chi desidera è posto più in alto, dal punto di vista sociale, culturale, economico di chi è desiderato; c’è dunque uno squilibrio di partenza. La tradizione letteraria prevede alcune possibilità codificate in cui inquadrare amori di questo tipo; una è quella, di matrice antica e nobilissima, del Simposio di Platone: l’amante e l’amato, separati da una certa differenza di età e di esperienza, non devono perseguire il puro piacere carnale, ma nobilitarsi a vicenda. Così, come è compito del giovane darsi a uomini di valore, in cerca di modelli di virtù e di saggezza, è compito del più anziano non ingannare chi è inesperto, usandolo per soddisfare le proprie voglie, ma agire per il bene e l’elevazione di entrambi. Inteso in questo senso, l’amore ha un evidente significato paideutico, e ha come scopo quello di procedere dal singolare all’universale: nel discorso che Diotima tiene a Socrate (Platone, 2001, pp. 89-121) l’amore più grande è quello capace di trascendere l’attrazione per un singolo oggetto e le sue doti fisiche, per aprirsi a una dimensione di contemplazione della bellezza ideale. Allo stesso tempo, Alcibiade riferisce come nel processo di seduzione Socrate gli abbia fatto presente una paradossale verità: non è il vecchio e povero filosofo a guadagnare qualcosa dal contatto amoroso con un giovane bello e ricco come lui, bensì il contrario. Il saggio, con la sua virtù, ha infatti il potere di rendere migliore l’amato, e possiede una bellezza vera e imperitura, mentre l’altro ha da scambiare solo una bellezza apparente e deperibile (ivi, pp. 135-43).

Ma cosa succede se un rapporto del genere viene pervertito, ovvero se chi è dotato di potere decide di usarlo per i suoi scopi, ai danni di chi è più sprovveduto? In questo caso, si profila un altro grande modello attivo nella letteratura occidentale, che ha il suo punto massimo di espressione tra xvii e xviii secolo nella figura bifronte del libertino-filosofo, ovvero del seduttore-corruttore. Anche il libertino è per definizione più sapiente ed esperto dell’oggetto del suo desiderio, tant’è che può usare i mezzi a sua disposizione – intelligenza, prestigio, denaro – per piegarlo ai suoi voleri. Quando il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte seduce Zerlina prospettandole un tenero idillio matrimoniale, noi spettatori (e in parte anche lei) sappiamo che lo fa in malafede; da cavaliere, dovrebbe proteggere i più deboli, e invece sfrutta il suo potere per scopi tutt’altro che nobili. Se le prospetta il matrimonio è solo per meglio raggirarla; è conscio della sua supremazia, che non esita a utilizzare per il proprio tornaconto. Lo stesso dicasi per altre celeberrime figure di libertini come il Valmont dei Legami pericolosi (1782) di Choderlos de Laclos, che seduce la giovanissima Cécile allo scopo di rovinare la sua ingenuità e restituirla al promesso sposo tutt’altro che casta. Valmont, come tanti personaggi di Sade, è il campione di una pedagogia al contrario: insegna vizi e non virtù, erudisce in direzione contraria alla morale. In quanto libertino è padrone del campo, e non esita a usare i propri strumenti intellettuali e dialettici, parte integrante della sua identità, per attuare una sorta di ideale platonico virato al nero, che ha appunto in Sade il suo esponente estremo; in questa cornice il desiderio perverso non sarà usato solo come fine, bensì come mezzo per raggiungere verità filosofiche di più ampia (e tremenda) portata.

Ancora all’inizio del secolo successivo il dottor Faust di Goethe, ringiovanito grazie al patto con Mefistofele, può sedurre indisturbato un’ingenua ragazza provinciale, Margherita, che crede a tutto quello che le vie ne detto e non si capacita che il grand’uomo possa essersi innamorato di lei. Faust, che ha dalla sua ricchezza, prestigio, intelligenza e soprattutto la fascinazione onnipotente della magia, ha un influsso intellettuale chiarissimo sulla ragazza del popolo, che non solo cederà alle sue lusinghe, ma si rovinerà trascinando la sua famiglia nella disgrazia. È un altro esempio evidente di dotto-libertino che non solo esercita con efficacia la sua funzione di corruttore, forte del suo relativismo e della sua spregiudicatezza, ma che riesce a portare a termine il corteggiamento, ottenendo quello che vuole, proprio perché è dotato di un prestigio che l’oggetto del suo desiderio non mette in discussione. In altri termini, ancora all’altezza del Faust chi sta più in alto ha il potere di sedurre chi sta più in basso, sia in senso positivo (ideale platonico) sia negativo (ideale libertino); ciò non toglie che ci riesca.

Le cose vanno già diversamente in Notre-Dame de Paris (1831) di Victor Hugo, che non a caso costituisce un antenato della situazione di cui ci occuperemo. Le vicende ruotano intorno allo scontro fra tre uomini per il possesso della gitana Esmeralda, innamorata del capitano Febo, che la seduce al puro scopo di approfittare di lei. Ma altri due la desiderano: uno è il campanaro Quasimodo, capace dei più alti sacrifici; l’altro è l’Arcidiacono Frollo, il personaggio che ci interessa. Ambientato nel 1482, ma scritto nella prima metà dell’Ottocento, il romanzo costituisce un precursore del nostro tema: se Frollo non è (né potrebbe essere) rappresentato nel romanzo come un intellettuale borghese, per la buona ragione che è un chierico tardomedievale, a tutti gli effetti è un personaggio in cui Hugo proietta valenze che sono invece pienamente ottocentesche. La sua alienazione e la sua scissione interiore sono del tutto moderne e post-romantiche. […] Il caso è emblematico, perché Frollo può essere considerato uno dei primi esempi – insieme al suo immediato predecessore Faust – di rappresentazione letteraria di un intellettuale moderno che si vorrebbe austero, incorruttibile, moralista in senso più borghese che religioso, eroe dello spirito che dovrebbe resistere a tentazioni, e invece cede sotto il peso di un improvviso conflitto interiore. Questa è proprio la parabola che l’Arcidiacono Frollo compie all’interno del romanzo quando entra a contatto con Esmeralda. La morale è evidente: chi troppo si contiene, opponendo la razionalità ai sensi, nel momento in cui abbassa la guardia verrà travolto da esiti imprevedibili. In effetti, prima della fine della storia, Frollo avrà pugnalato il rivale, causato la morte del proprio fratello, fatto impiccare Esmeralda, e tutto questo a causa di una passione fuori controllo perché non educata e non temperata. […]

Frollo affermerà di essersi smarrito nel momento in cui ha visto la ragazza per la prima volta, con un percorso di errore/erranza che salda insieme potenza letterale e metaforica. In realtà, il suo degrado – prima ancora che con la lussuria – ha a che fare con la perdita della capacità di autocritica, e la continua necessità di autoingannarsi a proposito dei propri desideri e dei propri scopi; una costante dei testi che analizzeremo sarà l’incapacità (più o meno consapevole) dell’intellettuale di gestire le forze aggressive, dirompenti, inquietanti dell’inconscio, troppo a lungo rimosse. Si tratta di una conversione al contrario, e anche nei romanzi che prenderemo in considerazione l’incontro avrà spesso i tratti di un’epifania che conduce il soggetto ad agire agli antipodi delle sue convinzioni e delle sue abitudini. Un modello di questo cambiamento violento può essere rintracciato in un passo delle Confessioni di sant’Agostino (un altro esperto di conversioni) analizzato da Auerbach (2000, pp. 75-9): il giovane Alipio, studioso e morigerato, viene forzato da una compagnia di amici ad assistere a uno spettacolo di gladiatori, intrattenimento per cui prova disprezzo. Ma una volta circondato dalla folla che urla, nell’eccitazione collettiva e alla vista del sangue, Alipio non riesce più a distogliere gli occhi da quello che vede, e anzi ne resta tanto avvinto che diventa un accanito spettatore. Con lui, chiosa Auerbach, viene sopraffatta «tutta la cultura razionale e individualistica dell’antichità classica: Platone e Aristotele, la Stoa ed Epicuro» (Auerbach, 2000, p. 78). Allo stesso modo, in Frollo, ad essere sopraffatto è il sogno razionalista dei Lumi, passato attraverso la critica romantica e proiettato nel personaggio di un dotto tardomedievale. […]

Dall’antichità alle soglie del Romanticismo, passando per Il racconto del mercante di Geoffrey Chaucer, La Mandragola di Niccolò Machiavelli e la Scuola delle mogli di Molière (solo per citare gli esempi più celebri), il vecchio innamorato è confinato alla commedia. Con il Romanticismo le cose cambiano, come è evidente in Notre-Dame de Paris, perché la passione del dotto, la forza micidiale che lo porta fuori di sé e gli fa compiere atti indegni di un uomo nella sua posizione, è trattata con perfetta serietà, come devastante scissione dell’animo tra istanze superegoiche (la religione, la scienza, il proprio posto nella società) e un’istintualità troppo a lungo repressa. Claude Frollo è un personaggio tragico, e questo perché, ancora una volta con riferimento ad Auerbach e alla sua riflessione sulla divisione degli stili, da un certo momento in poi – appunto con la svolta romantica – è diventato possibile trattare in modo serio temi che fino a quel momento erano appannaggio solo del comico: oltre al vecchio innamorato, solo per

fare un esempio altrettanto legato a Notre-Dame, si pensi alla deformità fisica di Quasimodo (la stessa di Triboulet/Rigoletto), che non suscita il riso bensì la compassione. Le corde sono quelle della tragedia e in effetti, come da regole codificate del genere, alla fine di questo romanzo i protagonisti muoiono tutti: si salva (non a caso) solo Febo, l’unico che non è mai stato sfiorato dall’alito del tragico lungo tutto lo svolgersi della vicenda.

Nel frattempo, l’eroe della virtù – che avrebbe dovuto per età e ruolo sociale svolgere una funzione di guida e saper resistere alle proprie passioni – non è più a lungo un eroe; catturato, snaturato, reso altro da sé (o dall’immagine che aveva di sé), incarna adesso l’assoluto disastro e l’assoluta mostruosità. La mostruosità fisica di Quasimodo non è niente al confronto di quella di Frollo: nell’assiologia del romanzo, è chiaro che il campanaro non ha colpa della sua deformità, peraltro compensata da un’indole buona e fedele; la vera malvagità è quella incarnata da colui che ha prima cercato di reprimere in sé ogni passione e poi sotto la pressione incontenibile si è trasformato in un mostro. Frollo è quindi la prima vittima della sua cecità e il più grande colpevole del romanzo: aver voluto con cieca hybris credersi immune dalle tentazioni lo rende non solo drammaticamente vulnerabile, ma anche folle, distruttivo e violento. Se non ha più niente del pedagogo, non ha neanche più niente del libertino: non c’è alcuna teorizzazione della débauche, nessun controllo degli eventi.

Nei romanzi che analizzeremo la polarità ancora attiva nel duplice modello del libertino e del pedagogo risulterà sempre invertita: l’amante, pur superiore per condizione sociale, intellettuale ed economica, non solo smette di avere il potere di educare/traviare, ma si fa trascinare dall’amato in luoghi imprevedibili e sconosciuti, spesso verso un destino di rovina che non risponde a nessun piano intenzionale, ma a un puro gioco del caso. Se l’ideale paideutico dava all’amante un potere attivo, adesso questo potere scompare, si rivela illusorio e inefficace: non solo chi sta più in alto non riesce a sedurre chi sta più in basso, ma anzi si smarrisce mentre deve riconoscere che il potere seduttivo e traviante non è più in suo possesso, ma piuttosto appannaggio dell’altro. […] non ci sarà una morale conclusiva che spazzi via con la risata o col perdono l’errore di un momento; non ci sarà neanche, a differenza di quel che accade per Ulisse, Enea e Rinaldo, un superamento, una vittoria (anche incerta) sulle lusinghe di un potere attrattivo incontrollabile. A mutare saranno i rapporti di forza tra amante e amato, tra colto e incolto, tra maschile e femminile, in una società post-illuministica dove progressivamente si fanno strada istanze, per quanto sempre combattute e controverse, di maggiore parità tra i generi e le classi sociali, ma anche e soprattutto di critica verso gli esponenti di un’élite che nell’età dei Lumi si era assunta il compito di guidare gli altri, e manifestamente non riesce più a farlo.

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