Il bisogno di un nuovo umanesimo
Alle radici di una parola per provare a costruire una nuova visione del mondo
Cosa significa “restare umani” in un’epoca in cui, come individui, avvertiamo in modo sempre più evidente il senso penoso della nostra irrilevanza? Quale significato ha parlare di Umanesimo e di studi umanistici in una cultura dominata dalla dimensione pratica e utilitaristica del sapere? Le umane lettere possono aiutarci a recuperare il senso del nostro stare al mondo?
Questi sono alcuni degli interrogativi sollevati nel convegno La disumanizzazione della vita e la funzione delle umane lettere, organizzato il 3 e il 4 ottobre a Palermo: due giornate intense di riflessioni, interventi, laboratori, con la partecipazione di docenti di tutta Italia in presenza e online, coordinati dai redattori del blog Laletteraturaenoi.it, rese possibili dall’ospitalità e dal supporto di G.B. Palumbo Editore. L’intervento introduttivo di Romano Luperini ha ricordato la lezione di Pico della Mirandola: l’essere umano, sospeso fra cielo e terra, è costantemente in bilico fra il bene e il male; dipende solo dalla sua volontà indirizzare le proprie azioni in una direzione o nell’altra. La dignità dell’uomo consiste nella consapevole scelta del bene e quindi nella difesa della sua umanità. Da qui nasce l’idea di risalire alle radici di una parola che racchiude anche una visione del mondo.
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto» [Sono un essere umano, non considero estraneo a me niente di ciò che riguarda l’uomo]. Queste parole pronunciate dal vecchio Cremete in una nota commedia di Terenzio (Heautontimorumenos) sono la sintesi più efficace di quel concetto di humanitas che, attraverso i secoli, accogliamo come la preziosa eredità dell’esperienza artistica e intellettuale gravitata intorno al circolo scipionico nella Roma del II secolo a.C.
Nel I secolo a.C. sarà Cicerone a sottolineare il valore degli studia humanitatis in quella che possiamo considerare una delle sue orazioni più belle: la Pro Archia. Archia è un poeta di Antiochia, accusato di essersi indebitamente appropriato del diritto di cittadino romano. Cicerone decide di difenderlo in nome del valore della poesia, che è un dono divino e senza la quale la cultura è cosa morta, priva di senso, arida erudizione.
Ecco allora che cominciano a delinearsi i due significati fondamentali contenuti nella parola o, più correttamente, nel concetto di humanitas: da un lato la philanthropia, intesa come disponibilità e apertura verso l’essere umano; dall’altro lato la paideia, cioè la formazione culturale e l’istruzione. Quest’ultimo è lo spazio della scuola e di tutte le discipline, non solo quelle definite umanistiche in senso stretto, che in sinergia contribuiscono alla formazione della persona e dei suoi valori. La paideia pertanto sconfina inevitabilmente nella philanthropia perché i due aspetti sono inscindibili. Nel nostro lavoro di insegnanti ci preoccupiamo spesso non solo della crescita culturale delle nostre classi, in termini di conoscenze, ma anche di quella umana: ci sentiamo pienamente appagati solo quando i due processi procedono di pari passo.
Ma proseguendo nell’individuazione di alcune delle tappe fondamentali che scandiscono la storia della parola e del concetto di humanitas, approdiamo di necessità all’Umanesimo, storicamente definito dai suoi limiti cronologici. I concetti di dignità, di centralità dell’uomo che, dotato di libero arbitrio, è artefice del suo destino ci richiamano la lezione del già citato Pico della Mirandola e di quella fucina di ingegni che hanno contribuito alla costruzione di nuovi significati e di nuove rotte per l’umanità. Esemplare è il dialogo Fatum et fortuna appartenente alla raccolta Intercenales in cui Leon Battista Alberti sintetizza in un’immagine potente il senso della vita, rappresentata come un fiume vorticoso, che gli uomini cercano di affrontare in vari modi. Poco adatti a destreggiarsi nelle correnti e fra gli scogli risultano coloro che si affidano alle lusinghe (otri gonfi d’aria che sono lacerati dagli scogli) oppure al potere (grandi imbarcazioni che si incagliano lungo il corso d’acqua). Destinati a salvarsi sono invece quanti si affidano ai propri strumenti, alle proprie capacità (oggi parleremmo di competenze) metaforicamente rappresentati da tavolette costruite con perizia e pazienza. C’è poi una schiera di eletti che sorvolano le acque come se fossero alati: si tratta dei sapienti che dispensano all’umanità le conoscenze necessarie per costruire le sue tavolette.
Eppure, nonostante il valore straordinario di questa lezione, oggi avvertiamo che l’Umanesimo di cui abbiamo bisogno deve andare oltre. Banalizzando, potremmo dire perché «nessuno si salva da solo» o perché «nessuno è un’isola». Ma in realtà è un’urgenza che nasce da considerazioni più argomentate.
Il nuovo umanesimo a cui si fa riferimento accoglie la lezione del passato, ma ne individua inevitabilmente anche dei limiti perché deve misurarsi con la complessità dei nostri tempi. Per chiarire questo passaggio cruciale e difficile faccio mie le parole di un pioniere nell’elaborazione del concetto di complessità, Mauro Ceruti, che insieme a Francesco Bellusci è autore di un saggio molto interessante pubblicato da Raffaello Cortina Editore: Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro (2023). La riflessione illuminante parte da una premessa molto semplice di cui noi tutti facciamo quotidianamente esperienza: oggi ci troviamo in bilico «tra la promessa scientifica e tecnologica dell’immortalità e il disastro ecologico termonucleare, tra le avventure nello spazio e il degrado ambientale della Terra, tra la preoccupazione di salvaguardare la specie umana e il sogno di aumentare i nostri corpi, forzandone i limiti biologici». Non è più possibile pensare l’umano come entità irrelata, ma dobbiamo piuttosto immaginarlo come «complexus di intelligenza ed erranza, di calcoli e affetti, di potenza e fragilità, di precisione e leggerezza, di adattabilità e disadattamento», nella consapevolezza che ogni evento ha un riflesso planetario. Non esistono più accadimenti, processi, fenomeni i cui effetti rimangono circoscritti ad un luogo e a un tempo in un «pianeta in cui tutto è interconnesso e interdipendente, e dove nessun grande problema può essere trattato, decifrato e affrontato isolatamente e localmente». Questo nuovo, necessario sguardo sul mondo «assume i contorni di un vero e proprio cambiamento di paradigma, cioè di percezione, di pensiero e di valori».
L’Umanesimo storicamente definito si fondava su due spinte per certi aspetti contrastanti: da un lato su una visione sostanzialmente eurocentrica, dall’altro sulla forza di valori comuni a ogni essere umano. Il nuovo umanesimo o, come è stato definito, «umanesimo planetario», superando i limiti della prima, è orientato a potenziare quest’ultima fondamentale componente, in una nuova «solidarietà umana e interculturale nel pianeta e per il pianeta».
E allora, mentre mi avvio alla conclusione di questo ragionamento, che richiederebbe ben più ampio respiro, l’interrogativo sorge spontaneo: quale contributo possiamo dare a questo ambizioso ma necessario progetto noi modesti/e insegnanti di materie umanistiche, impegnati/e quotidianamente nel difficile e delicato compito di trasmettere conoscenze e, possibilmente, valori? Ancora una volta prendo in prestito le parole di un maestro che, parlandoci di «sfida al labirinto», la più nitida metafora della complessità, ridimensiona i nostri deliri di onnipotenza: non dobbiamo chiedere alla letteratura (e aggiungerei a ogni altro ambito dello scibile) la via d’uscita dal labirinto, ma grazie alla letteratura (o alla conoscenza) possiamo maturare l’atteggiamento migliore per affrontare il labirinto, e per trovare possibilmente anche una via d’uscita, certo, nella consapevolezza, però, che «questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro».
Ma sarebbe bello approfondire il discorso in una prossima puntata o capitolo.
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
“L’uomo è buono, il vitello saporito”, commentava Bertolt Brecht di fronte a sermoni edificanti ed astratti come rischia di essere quello qui ammannito. Vale dunque la pena di individuare le cause che, nel passaggio epocale da un’economia di mercato ad una società di mercato, hanno determinato la crisi dei cosiddetti “saperi socratici” e posto in discussione il futuro degli studi umanistici. Orbene, le cause della crisi della cultura umanistica possono essere individuate in primo luogo, assumendo l’ottica della ‘lunga durata’, nella progressiva dissociazione fra discipline storico-letterarie e costruzione delle identità nazionali; in secondo luogo, nella diffusione di una cultura di massa, resa possibile dalle Tic e in particolare dagli audiovisivi, che ha ridotto in misura notevole la funzione mediatrice ed orientatrice della scuola e dell’università nei processi di formazione delle nuove generazioni; in terzo luogo, a partire dall’ultimo trentennio, nella globalizzazione capitalistica e nel correlativo dominio, sempre più totalizzante, di una logica di mercato che nega ogni criterio di valore che non sia quello di scambio; in quarto luogo, in un disegno neoliberista ed oligarchico di destrutturazione delle società democratiche dell’Occidente e del loro sistema di valori. In effetti, se si riflette sulle continue riforme degli ordinamenti scolastici che negli ultimi decenni hanno contraddistinto le politiche educative dei paesi occidentali e sul mutamento profondo che subisce la formazione scolastica nel passaggio da un’economia di mercato ad una società di mercato, non è difficile comprendere perché sia dato assistere oggi, non solo in Italia, ad un tentativo di smantellamento dell’istruzione umanistica che, avendo il suo principio ispiratore in un rozzo utilitarismo di ispirazione benthamiana, considera la cultura un costo superfluo e fa della competenza tecnica e della divisione del lavoro un feticcio intangibile. È evidente come le tesi decostruzioniste, improntate ad un nichilismo antisocratico, e quelle liberaldemocratiche, improntate all’ideologia del ‘politicamente corretto’, convergano nel legittimare una selezione dei «saperi che servono», ossia di quei saperi che sono pedagogicamente utili a consolidare le strutture della nostra società. Da un punto di vista orgogliosamente aristocratico, si potrebbe allora sostenere che la vera sfida è quella di legittimare la cultura umanistica anche in quegli aspetti che con il nostro modello di società non hanno alcun rapporto: saperi che ‘non servono’ (né alle democrazie né al profitto). La legittimazione della cultura umanistica, si afferma secondo tale ottica, non va quindi ricercata attraverso una faticosa rincorsa delle scienze o della tecnologia, della pedagogia o del mercato sul loro stesso terreno, ma va perseguita indipendentemente da ogni utilità pratica rivendicando le autonome peculiarità del sapere umanistico. Questa posizione risulta, tuttavia, sostanzialmente sterile e improduttiva: non all’altezza della sfida che deriva, per l’appunto, dalla crisi dei saperi socratici. Quali sono, dunque, le vie che è necessario percorrere per attuare un riscatto e una rivalutazione dei saperi socratici? Finora la questione dell’utilità degli studi umanistici si è limitata a quella dell’utilità di questi studi per gli studenti. Ma ciò che ogni processo di trasmissione culturale chiama necessariamente in causa è l’eredità culturale di una comunità, la sua ‘tradizione’, ossia ciò che merita di essere trasmesso e conservato. Sotto questo profilo, non si può disconoscere che la cultura umanistica è un patrimonio estremamente prezioso per l’Italia, laddove questa constatazione non ha nulla di retorico, ma vale anche in termini molto secchi e pragmatici di politica economica. Può sembrare un paradosso, ma gli studi umanistici sono proprio ciò che oggi ci serve di più. Il futuro del sapere umanistico, in questo senso, è certamente legato sia ad un progetto intelligente ed aggiornato di conservazione e trasmissione del patrimonio culturale sia al rilancio di una educazione che appartiene in modo peculiare al nostro Paese e le cui basi sono la cultura scritta e il senso della storicità. Un modello tutt’altro che statico e conservativo, se è vero che, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, esso è stato integrato e potenziato con la filosofia e la storia della scienza, giungendo, grazie all’opera preziosa svolta dalla scuola di Ludovico Geymonat, a configurarsi in termini dinamici e innovativi e facendo compiere alla nostra cultura un grande passo avanti verso il superamento della separazione tra la scienza e gli studi umanistici. In conclusione, se è vero che l’umanesimo non è un valore in sé, è altrettanto vero che esso ha svolto una funzione storicamente concreta quando è stato assunto come veicolo ideologico di classi o di gruppi sociali in conflitto con lo stato di cose esistente e quindi in cerca di un’espressione simbolica dei loro interessi e dei loro bisogni. In attesa che i conflitti reali riportino in primo piano forze sociali, politiche e culturali simili a quelle che nel passato hanno tentato di praticare quei valori di verità, giustizia ed eguaglianza che hanno caratterizzato prima l’umanesimo cristiano e poi quello socialista e comunista, si può per ora soltanto affermare che il futuro della ‘humanitas’ dipenderà dalla ‘humanitas’ del futuro. «Nell’uomo c’è molto», diceva Bertolt Brecht (ancora lui!), «facciamo molto dell’uomo».