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diretto da Romano Luperini

Verso il convegno di LN /1. Dare spettacolo o capire lo spettacolo? Prospettive sulla media education a scuola

Da parecchi anni e governi, la traiettoria dell’istruzione pubblica italiana muove dal pubblico verso il privato, da una formazione della persona e del cittadino a una formazione del lavoratore subordinato e del consumatore, da un sapere critico a un sapere superficiale e conformista. Vettore non secondario di questa trasformazione è la cultura tecnologica, come intesa dai ministri e dalle ministre che hanno governato la scuola negli ultimi vent’anni: lo attestano senza ombra di dubbio le banalità pedagogiche condite in salsa di modernità e inclusione, che figure di rilievo della politica nazionale hanno prodotto in grande quantità – bastino gli esempi di Giannini, Renzi, Bianchi.

Quale potrebbe essere, invece, il contributo culturale di una media education indipendente, orientata alla ricerca sulle rappresentazioni audiovisive che ci accompagnano ovunque, e alla lotta contro la disumanizzazione della vita nel mondo che ci circonda?

Ѐ questo uno degli interrogativi dai quali partiremo, nel nostro imminente convegno.

Dare spettacolo

Nel vasto ambito dei rapporti fra istruzione e media, tre fenomeni socio-culturali molto marcati accompagnano il tentativo di cambiare alla radice l’idea che anima la scuola della Costituzione

Il primo è la negazione di qualsiasi complessità: secondo la legge fondamentale della rappresentazione mediatica odierna, un testo (più alla moda: “una narrazione”) deve rispondere a criteri di semplicità, immediatezza e intensità emotiva. Se per esempio si parla di smartphone, non ci sarà spazio per approfondimenti psicologici, didattici e culturali di un tema così sfaccettato: la struttura comunicativa sarà invariabilmente smartphone sì/ smartphone no. Tutto il resto – dubbi, contraddizioni, esperienze – viene dal maligno. A questa postura diamo spesso un valido contributo, come insegnanti. Con disinvoltura, infatti, assecondiamo nella nostra battaglia culturale posizioni polarizzate e ideologiche, con il sicuro risultato di offrire all’opinione pubblica l’immagine di una categoria litigiosa e impreparata di fronte alla modernità.

Il secondo è l’assoluta centralità di una concezione puramente strumentale delle tecnologie per l’insegnamento/ apprendimento: in base ad essa, la questione è fornire le aule di strumenti e mettere le persone in grado di farle funzionare. In genere, sotto questo profilo, si utilizza la retorica dell’occasione perduta, addirittura dell’opportunità democratica e inclusiva: stante quindi la certezza che la presenza di una maggiore quantità di tecnologia significa ontologicamente un bene e un vantaggio per la scuola, si accusa chi non si adegua di essere retrogrado, disinteressato al “bene dei ragazzi” (evocazione mitica di questo genere di discorso), addirittura antidemocratico. Una simile impostazione serve a scansare gli interrogativi etici e valoriali del tema, legati per ovvie ragioni non al funzionamento e all’utilità delle tecnologie, ma agli interessi (prima di tutto economici) di chi le progetta, le produce e ne gestisce i meccanismi e i dati. Questa cornice culturale orienta le risposte e esclude domande decisive; per esempio, di fronte all’IA non sarà lecito chiedersi se o perché utilizzarla, ma semplicemente come utilizzarla (essendo scontato che “si tratta di un’opportunità”…, e “la scuola non deve rimanere indietro” e “per il bene dei ragazzi”…, ecc. ecc.)

Un terzo elemento è rappresentato dalle esperienze, nient’affatto episodiche, di docenti che raggiungono la notorietà grazie alle loro performance sui social. In genere, questo avviene snaturando completamente le logiche e i meccanismi che stanno alla base della vera comunicazione dentro le aule, prima di tutto perché le persone reali presenti in classe vengono sostituite dalla platea anonima di potenziali spettatori e followers. Le conseguenze di questo fenomeno sono interessanti e contraddittorie. In primis, la legge della notorietà social vuole che chi gode di una qualche fama, non importa per quali ragioni, diventi automaticamente autorevole nel dibattito pubblico, con ovvie conseguenze negative sulla credibilità e sul prestigio della categoria. In secondo luogo, questi paladini di una comunicazione diretta, inclusiva e coinvolgente fanno un uso selvaggio e egocentrato di una sorta di lezione frontale all’ennesima potenza, impartita in contemporanea a migliaia di osservatori passivi. Ma questo, che sarebbe giustamente percepito come dissonante e antiquato se si trattasse di una lezione vera o di un dibattitto serio, non sembra stonare in uno spettacolo o in un dibattito finzionale, come quello messo in scena su vecchi e nuovi media.

Se spostiamo lo sguardo oltre il velame delle rappresentazioni stereotipate che sono di moda, capiamo facilmente quale sia il tema reale: quando parliamo di aule immersive, visori, followers, parliamo di una scuola trasformata in spettacolo in cui chi insegna, bontà dell’intelligenza artificiale, non sarà sostituito, “ma diventerà il coreografo dell’apprendimento”.

Capire lo spettacolo

Siamo immersi in una morbida e bellissima narrazione, di cui gli infiniti e avvincenti spot pubblicitari che punteggiano le gare dei giochi olimpici costituiscono un fulgido esempio. La neolingua tecnologica e visiva è con noi, e ci racconta che le aziende non hanno altro interesse che il bene del pianeta e la nostra felicità, in un mondo colorato dove non c’è dubbio né difficoltà, il profitto è etica, la guerra è pace, il finto è vero.

Di fronte ai media e alla cultura tecnocratica che la costruiscono, un’alfabetizzazione centrata sulla diffusione e sulla pratica degli strumenti sarebbe come un’analisi storica del “Mein Kampf” che si limitasse allo studio dei caratteri, della tipografia in cui fu stampato e riprodotto, dei meccanismi della sua distribuzione, ignorandone i temi, gli scopi, il contesto sociale e politico. Proprio questo, ovviamente, auspicano i padroni delle tecnologie, della pubblicità, della propaganda. Noi, studenti, insegnanti, cittadini, abbiamo invece bisogno di una media education che ci metta in grado di smontare questa dolce propaganda, di svelare gli interessi economici che guidano verso la tecnologizzazione del mondo e dell’insegnamento, di vedere chi c’è dietro la maschera dello storytelling.

La trasversalità nella quale si colloca attualmente la media education, soprattutto nella scuola secondaria, è determinata dalla sua natura strumentale e produttiva, veicolare rispetto alle discipline (perché tutte se ne possono servire), neutrale rispetto ai temi etici e politici legati all’uso degli strumenti tecnologici e all’effetto prodotto dalle rappresentazioni più potenti e pervasive.

C’è invece bisogno, credo, di una differente trasversalità e interdisciplinarità: quella delle discipline rispetto alla comprensione e alla critica dei media. Solo in una simile prospettiva, si possono studiare e comprendere a fondo il linguaggio, l’immaginario, i contesti e il ruolo storico e sociale dei media in modo critico: lo studio della logica e dell’argomentazione (Italiano, Filosofia, didattica della lettura e della scrittura nelle sue più diverse forme) consentirà una comprensione precisa e stratificata delle diverse espressioni formali e retoriche che sono alla base della costruzione dei messaggi; lo studio dell’immaginario e delle rappresentazioni artistiche e letterarie nel tempo (Storia, Filosofia, Letterature, Arte) renderà possibile leggerne l’evoluzione e i nessi strettissimi con gli interessi economici, le scelte politiche, le dinamiche sociali; un approccio comparativo e storico allo studio dei linguaggi e della comunicazione (attività intrecciate fra differenti discipline e aree disciplinari, per esempio nell’ambito di Educazione Civica) favorirà una piena consapevolezza dei meccanismi di costruzione delle rappresentazioni sociali di idee, valori, inclinazioni (pensiamo ad esempio a come le serie televisive hanno costruito una rappresentazione complessa e affascinante della ricerca scientifica e della figura dello “scienziato” come portatore di verità) e consoliderà la capacità di operare scelte veramente libere e coscienti di fronte a temi etici sensibilissimi.

Uno dei maestri della media education contemporanea, Henry Jenkins, ricorda che è relativamente semplice ampliare l’accesso alle nuove tecnologie, ma questo non è di per sé un obiettivo significativo; potrebbe anzi essere del tutto inutile, ai fini di realizzare un’effettiva padronanza dell’ambiente ipermediato nel quale viviamo. Serve, invece, costruire conoscenze e competenze culturali approfondite, e una cornice etica al cui interno collocare le rappresentazioni e interrogarsi sul loro significato.

Per noi, il primo passo verso questo progetto educativo è il rifiuto della formazione digitale che ci viene offerta dal mercato.

[Illustrazione di Stefania Melotto]

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