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diretto da Romano Luperini

Un antidoto alla disumanizzazione. Perché rileggere “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli Strugackij

Nel 2022 è uscita per Marcos y Marcos una nuova edizione italiana di Picnic sul ciglio della strada, capolavoro dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, noto al grande pubblico anche attraverso Stalker (1979), la celebre trasposizione cinematografica che ne fece Andrej Tarkovskij. Per quanto film e libro restino in certa misura due opere distinte, non c’è dubbio che la fama del grande regista russo, come del film, abbia in parte eclissato il testo degli Strugackij, che comunque collaborarono alla sceneggiatura. C’è però anche un altro motivo (in realtà sono molti) per proporre oggi la rilettura di questo libro, uscito in Italia per la prima volta nel 1982 (Urania). Quella di Marcos y Marcos, infatti, è la prima edizione italiana — realizzata da Paolo Nori e Diletta Bacci — che si fonda sul testo ristabilito dell’opera, depurato cioè degli interventi della censura sovietica. Una censura talmente rozza, ottusa e mortificante che «l’antologia Incontri imprevisti ancora oggi mi dà fastidio prenderla in mano, altro che leggerla» spiegava Boris Strugackij in uno scritto che compare oggi a chiusura dell’edizione di Marcos y Marcos. Nella citata antologia era appunto ospitato anche Pincnic sul ciglio della strada, dal cui testo era stata eliminata tutta una serie di espressioni che la censura riteneva emblematiche del «comportamento immorale dei protagonisti» (esempio: «Devi tirare su il tuo culone grasso»); della «violenza fisica» (esempio: «Strappare l’anima a quei bastardi, lasciare che mangino la merda che ho mangiato io»); di una lingua volgare e gergale (esempio: «Era sporco come un maiale»). Libero dai lacci di queste espunzioni demenziali, anche attraverso il grande lavoro sulla lingua dei traduttori, il testo si offre oggi al lettore in tutta la sua profondità e bellezza.

Un libro di fantascienza, per cominciare…

Siamo in un momento imprecisato del ventesimo secolo, nella cittadina immaginaria di Harmont, in Occidente. Diversi anni prima dei fatti narrati nel libro, in sei precise Zone della Terra, si è svolta una Visita da parte di una civiltà aliena. Non si sono registrate forme di contatto o di comunicazione con gli umani, ma nelle Zone toccate — Harmont è quella di cui tratta il libro — sono rimasti segni innumerevoli e tangibili del passaggio alieno: isolati colpiti dalla peste, persone che hanno improvvisamente perso la vista a causa di un tuono fortissimo udito solo da loro, sostanze dagli effetti terribili e devastanti sugli esseri umani, come la temibile «gelatina di strega». Gli abitanti delle Zone di Visita non possono emigrare, perché è stato rilevato che nei luoghi di immigrazione si verificano eventi infausti con un’incidenza enormemente superiore alla media. Restano poi tutta una serie di altri artefatti e fenomeni fisici nei quali ci si può imbattere all’interno della Zona di Visita. L’Istituto per le civiltà aliene di Harmont, coadiuvato dai caschi blu dell’Onu, studia la Zona e i reperti che vengono rinvenuti al suo interno, ma oltre alle spedizioni legali si è creato nel corso degli anni un commercio di contrabbando e si sono affermate le figure degli «stalker» (neologismo degli Strugackij, da Stalky & Co di Kipling). La Zona infatti è delimitata militarmente, sorvegliata a vista. Gli stalker illegalmente penetrano nella Zona e grazie alla loro lunga esperienza sanno come muoversi al suo interno. Trafugano oggetti e li rivendono sul mercato clandestino, i più spregiudicati perfino agli stessi funzionari dell’Istituto e dell’Onu. Il lettore conosce questo luogo, che è il vero cuore del libro, a poco a poco, principalmente attraverso le tre spedizioni, compiute in epoche diverse della sua vita, dallo stalker protagonista, Redrich Schuhart, detto Red. Nel corso della prima visita narrata nel libro, Red è accompagnato dall’amico fisico Kirill Panov e dal tecnico di laboratorio Tender. Obiettivo della spedizione è reperire una cosiddetta «conchiglia piena». Le conchiglie sono artefatti composti da due dischi paralleli separati da uno spazio vuoto, attraverso il quale possono essere fatti passare oggetti, anche se è impossibile allontanare o avvicinare i dischi tra loro, perché tenuti da una forza sconosciuta. La conchiglia «piena» contiene tra i dischi una sostanza azzurrognola. Si trova in un garage all’interno della Zona. Per raggiungerlo, Red guida i suoi compagni lanciando dadi in aria per delimitare le cosiddette «tagliole», ossia aree di «concentrazione gravitazionale» nelle quali si rischia di essere frantumati. La spedizione si conclude positivamente, ma di lì a qualche ora Kirill, entrato in contratto nel garage con una anomala ragnatela d’argento, muore per arresto cardiaco. 

La Zona, ovvero l’inconoscibile

Attraverso le spedizioni successive, nel corso delle quali si dipana anche la vicenda personale di Red, il lettore entra in contatto con tutti gli altri fenomeni che si verificano nella Zona, dove gli stalker, alcuni dei quali senza scrupoli come Burbridge, detto l’Avvoltoio, si muovono esclusivamente sulla base della propria esperienza diretta, delle proprie capacità di ascolto e dell’intuito, e di quanto capitato agli altri. Né loro, né gli scienziati, tuttavia, pur riuscendo in alcuni casi a ricostruire il funzionamento di determinati artefatti, sono in grado di comprendere le leggi che regolano la vita all’interno della Zona né i loro effetti. Perché ritornino a muoversi i morti di Harmont, tra cui il padre di Red; perché i figli degli stalker presentino delle strane mutazioni. E poi ancora il perché di altri oggetti dalla natura indecifrabile, gli «spruzzi neri», «l’occhio del gambero», il «tovagliolo a sonagli». E infine, soprattutto, la leggendaria sfera d’oro, che sarebbe capace di esaudire tutti i desideri e che sarà l’obiettivo dell’ultima spedizione di Red. Mentre ci si aspetta inizialmente che vengano spiegate le cause e le ragioni di quanto succede, piano piano si capisce che il punto è proprio questo, che ciò che accade e che costantemente si affastella nel racconto sfugge di continuo alle possibilità di comprensione umana. Gli stessi stalker sono spesso costretti a cambiare strada, perché tutto è mutevole e strano. La Zona diventa quindi una metafora potente dei limiti della conoscenza umana, dell’inconoscibile, e il libro una riflessione filosofica condotta però non per via logico-argomentativa, ma come mostrata nel suo farsi, attraverso i fatti esperiti nel racconto, anche se certamente sono rappresentate posizioni dialettiche, su una molteplicità di piani. Ad esempio, il funzionario Richard Nooan da un lato e il premio Nobel Valentin Peelman dall’altro, il primo alla ricerca di un senso nella Visita, il secondo convinto invece che la Visita sia stata per chi l’ha compiuta solo «un picnic sul ciglio della strada» al temine del quale gli alieni hanno lasciato con noncuranza i loro «rifiuti» su cui il genere umano si sta arrovellando. Si tratta in fondo, anche qui, più o meno metaforicamente, respingendo o accogliendo la possibilità di un’intenzione — magari anche malvagia — di riconoscere un senso o di consegnarsi all’angoscia del caso. 

La Zona, ovvero la sovversione dell’umano

Lo strumento attraverso il quale gli Strugackij riescono a costruire mirabilmente la loro Zona è, oltre che ideativo (geniale è certamente l’invenzione di questo luogo), principalmente linguistico. Il linguaggio è fortemente connotato in senso realistico e colloquiale, a sostenere la costruzione del gergo degli stalker, del loro sistema (dis)valoriale, delle storie, delle biografie, delle leggende e del loro intersecarsi con il resto della realtà. Il testo alterna capitoli in prima e in terza persona e è preminente l’uso del discorso indiretto libero, che costantemente porta in primo piano il punto di vista dei protagonisti, in un alternarsi di panoramiche e soggettive. Tuttavia, che siano stati gli alieni a determinare il costituirsi di una Zona speciale nel libro degli Strugackij appare in ultima analisi perfino secondario, se è vero com’è vero che la Zona, in definitiva, è un luogo in cui le leggi umane sono sostanzialmente sovvertite, in cui il dis-umano ristruttura la realtà: strisciare, muoversi nel fango, sostare in un costante stato di angosciosa allerta, in cui qualsiasi dettaglio può essere fatale, mentre il valore di ciò che si è e del niente che si possiede si ridefinisce costantemente.

Scrive Paolo Nori nella sua prefazione che dopo la lettura del libro degli Strugackij nelle sue riflessioni la Zona ha da ultimo assunto l’aspetto dei centri di permanenza degli immigrati; in prima battuta ha rappresentato i campi di lavoro sovietici (chiamati in gergo russo proprio «zona») e il campo di Birkenau, «quando mi han raccontato che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dei civili entravano abusivamente nel campo e scavavano delle buche per cercare i tesori sepolti dagli ebrei, e trovavano invece delle bottiglie con dentro delle testimonianze». A tale proposito è di grande interesse anche quanto riporta in un suo recente intervento sulla rivista Doppiozero il critico Andrea Cortellessa, recensendo il libro Zona, un libro su un film su un viaggio verso una stanza, di Geoff Dyer. Oggi alcuni paramilitari ucraini, che si fanno appunto chiamare stalker, guidano i turisti nella zona di esclusione radioattiva di Černobyl’. Si tratta di un fenomeno documentato, esempio di un inquietante precipitato dell’arte nella realtà, che è possibile sia stato mediato anche dalla serie di videogiochi S.T.A.L.K.E.R. In questo caso, però, il termine è un acronimo, riferito sempre alle guide illegali che si introducono all’interno della zona di esclusione radioattiva, resa ancora più contaminata da un secondo evento catastrofico.

Ma volendo ragionare su un piano strettamente letterario, non si può non pensare a Se questo è un uomo di Primo Levi, alla degradazione del lager, alle impietose oscillazioni della sua Borsa, alla sua umiliante economia parallela, fatta di scambi tra mezza razione di pane e un litro di zuppa. All’incessante logorio che le condizioni fisiche di detenzione e le dinamiche del campo producono nella psiche. A un’analoga esasperazione conduce anche il traffico nella Zona, si potrebbe dire il costante confronto con la disumanità:

Tutto intorno si era arroventato fino a diventare incandescente e aveva la nausea per il caldo secco e atroce, per la puzza, per la stanchezza, la pelle violentemente bruciata gli faceva male, era screpolata in più punti, e gli sembrava che, attraverso la foschia calda che avvolgeva la sua coscienza, la pelle cercasse di gridare fino a lui, implorando pace, acqua, fresco. Logorati fino a diventare sconosciuti, i ricordi dominavano il cervello gonfio, rovesciandosi a vicenda, offuscandosi a vicenda, mescolandosi a vicenda, intrecciandosi in quel mondo bianco torrido che danzava davanti ai suoi occhi semichiusi, e tutti quei ricordi erano amari, e tutti puzzavano, e tutti evocavano una pietà o un odio graffiante.

La Zona di Tarkosvkij

La prospettiva di accentuato realismo del libro è largamente ridimensionata nella trasposizione cinematografica di Tarkosvkij, per quanto l’ambientazione che fa da sfondo alla Zona del film presenti tutti i tratti di una realtà industriale degradata. Ciò è certamente funzionale alla resa della linea interpretativa del regista, che nel considerare la Zona una metafora della vita («la Zona è la Zona, è la vita» dichiarava Tarkosvkij), rende conto di una sola spedizione, condotta dallo Stalker, che guida altri due personaggi, il Professore e lo Scrittore, plateali allegorie di due contrapposti approcci conoscitivi della realtà, quello scientifico e quello umanistico. Le ragioni per le quali entrambi sono interessati a raggiungere la fantomatica stanza capace di realizzare i desideri più reconditi — l’equivalente della sfera d’oro del libro — sono però tutt’altro che nobili: entrambi cercano la fama, il Nobel l’uno e l’ispirazione geniale l’altro. Miscredenti tutti e due, per quanto consapevoli dei propri limiti. Ma mentre nella prima parte del film la figura dello stalker rimane quasi neutra, piano piano si delinea attraverso di lui una terza via, quella che consente di giungere alla stanza solo attraverso un atto disinteressato di fede, che non pretenda niente per sé. Il film di Tarkosvkij seleziona e esaspera alcuni dei tratti del libro, la mutevolezza della Zona con la quale lo stalker costantemente dialoga diventa una sorta di confronto con la propria dimensione psicologica: «È la Zona, forse a certi potrà sembrare capricciosa, ma in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il nostro stato d’animo» dice lo stalker. Allo stesso tempo la Zona appare quasi dotata di coscienza, e a sua volta lascia passare alcuni e respinge altri, attraverso tranelli e trabocchetti che spesso fanno girare a vuoto i protagonisti, come in un movimento ariostesco. Tutti elementi in certa misura presenti anche nel libro, come detto, ma che nel film di Tarkovskij acquistano un rilievo decisivo e che portati alle estreme conseguenze finiscono per alludere all’elemento religioso. Emblematica a tale proposito la scena in cui lo Scrittore, cingendosi il capo con una corona di spine, indirizza il suo violento sarcasmo allo stalker, equivocando forse volutamente le sue intenzioni in una sorta di dissacrante parodia della figura di Cristo: «Io non ti perdono». Eppure, ciò non significa che quella religiosa sia in effetti l’estrema chiave interpretativa del film, poiché la fede dello stalker in fondo riafferma semplicemente la necessità di un’etica in un mondo svuotato di senso.

La Zona, per noi

Nella stratificazione di letture, traduzioni e interpretazioni che hanno accompagnato la storia e la diffusione di queste due opere, cosa ha ancora da comunicarci oggi la Zona? L’osservazione potrà sembrare banale, ma mai come in questo momento storico stiamo assistendo al drastico restringimento degli spazi di una socialità umana e solidale, sia sul piano internazionale, sia nella società italiana: le guerre in atto, il genocidio a Gaza, le ingiurie all’ambiente, l’irreversibile venir meno di diritti fondamentali per i lavoratori, fino a giungere a fatti di cronaca, che lungi dal rappresentare eccezioni, si configurano ormai come la regola in alcune drammatiche realtà. Ne è emblema l’atroce vicenda che ha portato alla morte del bracciante Satnam Singh, il quale a causa di un incidente sul lavoro lo scorso luglio a Latina perse un braccio. Si ricorderà che il corpo e l’arto amputato dell’uomo vennero abbandonati fuori casa dal suo caporale, che non preoccupandosi di soccorrerlo, gli provocò di fatto la morte. A proposito della condotta del caporale, la gip parlava nell’ordinanza cautelare proprio di «condotta disumana e lesiva dei più basilari valori di solidarietà». Come nel passato, come in altri luoghi, anche nel nostro mondo esistono «zone» dove l’uomo torna di nuovo a lavorare in condizioni disumane, o dove la vita per come la immaginano e vivono i più è semplicemente impossibile. Sono spazi fisici che costruiscono inferni interiori. Se dunque questa è la cifra del nostro tempo, il libro dei fratelli Strugackij ci costringe per via metaforica a farci i conti, a interrogarci e, quanto meno, a trovare un nostro spazio interno di reazione.

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