Illuminare il lutto. Su Cenere di Mario Natangelo
Tutti muoiono.
Il 19 marzo 2023, a 62 anni compiuti da poco, è toccato a mia madre. Il 27 marzo ho pubblicato online un post per dare notizia del lutto e ringraziare le persone che ci sono state accanto. Il 30 marzo sono tornato al lavoro in redazione ma quel giorno ho dovuto fermarmi e andare via perché il dolore mi stava sovrastando: ho raggiunto mio padre e siamo rimasti in un parco a guardare il cane giocare fino al tramonto, senza parlare molto. Il giorno dopo ho pubblicato online una tavola intitolata “Lo spazio bianco” in cui raccontavo come mai sul quotidiano in edicola quel giorno la mia vignetta non ci fosse. Non lo sapevo, ma quei due post sarebbero stati le prime pagine di qualcosa: da quel giorno ho iniziato a pubblicare delle tavole, come un diario, in cui raccontavo in presa diretta e a fumetti il dolore del lutto. L’ultima tavola l’ho pubblicata online il 4 giugno: in totale ne sono venute fuori trenta, le ho raccolte tutte sotto il titolo diCenere e le ho lasciate sul mio sito web. Questo racconto mi ha salvato, ho pensato, magari lì avrebbe potuto salvare qualcun altro. Ed è vero: Cenere mi ha fatto sentire che non ero solo. Che tutti erano come me, che tutti c’erano passati, ci stavano passando o sapevano che ci sarebbero passati a breve. (…) e ciò è stato il regalo più grande che questo diario mi abbia dato. Ha preso il mio lutto particolare e lo ha illuminato con una legge universale, semplice ma spietata: tutti muoiono. (…) Forse anche Cenere potrà essere utile a qualcuno, lo spero. A me ha insegnato che non c’è niente di speciale nel lutto. Che tutti muoiono, certo.
Ma anche che nessuno è solo.
E che una risata non guasta.
(Mario Natangelo, dalla Introduzione a Cenere. Appunti da un lutto. Prefazione di Erri De Luca, Rizzoli 2024, pp.7-8)
Raccontare il lutto
Cenere è un graphic novel e racconta un lutto, in una trentina di tavole. La matita è quella di Mario Natangelo, che solitamente racconta (folgorante) la politica sulle prime pagine del Fatto quotidiano. Non smette di farlo neppur quando il dolore privato sembra sovrastare. Non può. Chi può farlo? La storia, i fatti entrano prepotentemente nelle nostre esistenze; e le determinano a essere come sono – piatte, spesse, ardite, miserabili, appassionate… Per questo soffriamo, perché la storia, i fatti non ci danno tregua, ci impongono di essere presenti proprio mentre facciamo l’esperienza devastante dell’assenza. «Il disegno ha il tratto garbato di ridurre, di attenuare, in contrasto con la violenza della perdita. Più smussa e più rimbomba dentro…» (E. De Luca, p.5). Ma il disegno, l’evidenza dell’immagine o il vuoto d’immagini, la parola del fumetto, concentrata o, se serve, spremuta fino al monosillabo, hanno anche il potere di avvicinare quel dolore privato al pubblico. E di farlo amico, sodale. Non si tratta della spettacolarizzazione dei sentimenti, perseguita dai reality con una volgarità che a chiamarla cinismo le facciamo un complimento. Natangelo non mette i lustrini o le gramaglie alla sofferenza, ma ne costruisce il racconto disponendolo su una linea di percorrenza orientata e, insieme, non obbligata. C’è un evento zero, che è il giorno della morte; e ci sono gli eventi rappresentati dai ricordi (contraddistinti con il segno meno) e quelli legati al lutto propriamente detto (contraddistinti con il segno più); e ognuno, ognuna che legge – le tavole come i fumetti – subito comprende che quel lutto non sarebbe, o non sarebbe lo stesso, senza quei ricordi. Per questo può percorrere quella linea con la libertà con cui ci si muove nel tempo della memoria e della speranza: un tempo affrancato da se stesso. Uno dei doni (incredibile a pensarsi, oltre che a dirsi) del lutto.
(pp. 14-15)
Tutti muoiono
Tutti muoiono, scrive Natangelo. E quindi Cenere sembra parlare un poco di ognuno che perde la madre, un genitore, entrambi i genitori, una persona cara. Ma non è solo un processo elementare di “identificazione” quello che ci avvicina irresistibilmente a questo graphic novel dalle tinte più varie – che è anche, a volte, o solo nero o solo bianco (entrambi colori del lutto, in culture diverse). Leggere storie che ci “rispecchiano” (o, viceversa, che ci fanno “evadere”: sono le due richieste che spesso perentoriamente si avanzano alle narrazioni, di qualunque formato) è una pratica comprensibile, ma autoreferenziale e intrisa di autocompiacimento. La nostra è un’epoca che si guarda costantemente l’ombelico. Ma quando qualcuno racconta una storia, quella storia deve anche portarci fuori da noi e condurci, passando per i territori battuti delle nostre esistenze, povere o rutilanti che siano (tanto sempre povere sono, alla fine), nei meandri dove non osiamo entrare perché ci fanno paura; negli interstizi, perfino, dove a volte – è vero – si deposita la sporcizia, ma dove altre volte, più spesso di quanto pensiamo, va a nascondersi quell’oggetto che credevamo perduto – una lettera, la ricevuta di un albergo, un biglietto del bus, una voce, le chiavi della mamma. Ecco, Cenere fa tutto questo. Ci conduce in quei meandri e in quegli interstizi; dove proviamo paura, ma anche sollievo, e dove troviamo lo sporco, ma anche le chiavi. Le gioie ci fanno generosi, anche ob torto collo: ci sposiamo e facciamo grandi feste, compriamo la casa nuova e invitiamo gli amici per inaugurarla… Ma il dolore sembra indivisibile, impossibile da condividere. Pochi sembrano realmente disponibili a farsene carico; e pochi sembrano davvero disponibili a cederlo, ad accettare che non sia appannaggio esclusivo della propria anima, sensibile come nessuna. Natangelo invece lo fa. Lo scava («SPELEOLOGIA DEL CUORE», p.33), lo divide (nel senso che lo disseziona) e lo condivide; e, per farlo, non ricorre ad alcun gesto messianico – spezzare il pane, moltiplicare i pesci: usa il tratto rotondo, senza spigoli, della sua matita. E l’ironia, l’arma più potente di tutte. A cominciare dai suoi capelli turchini.
(pp. 72-73)
Una risata non guasta
Si può ridere del lutto, del dolore? Freud ci aveva già risposto di sì; e in fondo anche Pirandello. La perdita è sottrazione, e nella spoliazione vengono via tutti i travestimenti, cade ogni scudo; e si resta nudi e inermi: più volte Natangelo disegna se stesso non impietrito dal dolore, ma malleabile come il pongo. Sentimento del contrario. Percezione della nostra fragilità nel momento stesso in cui i fatti ci chiedono di essere forti. Disperazione di fronte al vuoto e contemporaneamente sollievo, perché quel vuoto significa scomparsa della persona amata ma anche della sua sofferenza; significa la sua assenza ma anche la sua restituzione a se stessa, alla parte forse più autentica di sé (la mamma deliziosa in salopette di jeans in una assolata Palermo del 1984: è la foto che chiude il libro). L’ironia sottesa all’intero racconto ci mostra la fragilità e la forza; e rivela la verità più difficile da accettare: dolor hic tibi proderit olim, un giorno questo dolore ti sarà utile. Fosse anche soltanto perché Amato Padre, «UOMO DI POCHE MA GIUSTE PAROLE» (p.48), a due settimane dalla morte della moglie, guarda col figlio la spiaggia di Ostia, e i due si parlano, finalmente: un dialogo scarno e struggente, anticipato (se è consentito quello che può sembrare un ossimoro) da didascalie silenziose. Tre bellissime tavole, che raccontano con parole e immagini (la prima è una foto, così stilizzata da parere un disegno o una tela) il lento avvicinarsi del figlio al padre:
(pp. 43, 44, 45)
All’inizio della sequenza i due si danno le spalle, ma l’immagine che rivedono ad occhi chiusi fa incontrare i loro sguardi. E Amato padre stringerà presto a sé un cane, Nero (p.132), dolcissima imposizione del figlio; ma Nero – apprenderemo dalle tavole che, uscito il libro, hanno continuato la storia – è destinato a surclassare presto il figlio «NELLA SODDISFAZIONE PATERNA», perché «SI È LAUREATO IN LEGGE» e «ALTRO CHE VIGNETTISTA: È DIVENTATO MAGISTRATO».
CENERE FINISCE QUI. ORA RESTANO IL DOLORE E UNA CICATRICE CHE SI FARÀ VIA VIA PIÙ PALLIDA FINCHÉ SOLO CHI SAPRÀ DOVE CERCARE POTRÀ SENTIRLA CON LE DITA. LA MALINCONIA È UN METRONOMO CHE TICCHETTA IN UNA STANZA VUOTA. LA MORTE È UNA PORTA CHIUSA DELLA QUALE È STATA PERSA PER SEMPRE LA CHIAVE, MA VORREI DIRTI CHE HO ACCETTATO, CHE VA MEGLIO. MA HO SOLO TIRATO UNA LINEA TRA IL PRIMA E IL DOPO. QUESTO È IL PRIMO PASSO NEL DOPO, E NEL DOPO SIAMO TUTTI SALVI. ADESSO È IL MOMENTO DI ANDARE, MA’. TRANQUILLA: CERCHERÒ, DAVVERO, DI FARE LE COSE PER BENE.
TU RIPOSA, È FINITA
ED È GIÀ RICOMINCIATA (p.135)
(a stampatello nel testo, come tutte le didascalie e le vignette, ndr)
Il resto (molto, moltissimo) lo lasciamo alle immagini. A quelle del libro e a quelle della storia che è già ricominciata.
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