Capuana tra gli «ismi»
LN si prende una pausa estiva. Nel prossimo mese e mezzo ripubblicheremo alcuni articoli usciti quest’anno. Auguriamo a tutti i nostri lettori e lettrici buone vacanze. Ci rivediamo i primi di settembre.
Pubblichiamo un estratto dell’introduzione del volume Capuana e il modernismo di Ilaria Muoio (Pacini, 2023). Ringraziamo autrice ed editore per la concessione.
Introduzione
Capuana tra gli «ismi»
Nella pratica didattica, così come nella ricezione critica, Luigi Capuana è stato spesso implicitamente considerato un eccellente saggista, interprete militante e sagace della letteratura di fine secolo, ma un mediocre narratore, incostante e mutevole, iperproduttivo più per ragioni economiche che per un’autentica vena creativa. In altri termini: un addetto ai lavori, una figura minore e di contorno, da collocare ai margini del canone. A tramandare questa vulgata hanno contribuito, nel Novecento, sia l’uso di istituire un parallelo – già agli occhi di Federigo Tozzi «illogico e affatto arbitrario»1 – con l’opera di Giovanni Verga, sia i giudizi di disvalore formulati a doppia ripresa da Benedetto Croce e Luigi Russo e presto divenuti punto di vista dominante. Non è neppure da trascurare il ruolo esercitato nella rimozione dall’irreperibilità delle opere e dalla latenza filologica. Due decenni di ricerche d’archivio e recupero sistematico di manoscritti e documenti inediti, tra gli anni Settanta e Ottanta, hanno tentato di porre rimedio alla dispersione delle carte dell’autore, ma molto resta ancora da perlustrare. D’altra parte, di diverse raccolte di novelle, racconti per ragazzi e degli stessi saggi critici non esistono a tutt’oggi edizioni condotte secondo i criteri della moderna filologia. E anche per i romanzi, malgrado la pubblicazione recente di ottime edizioni interpretative che riproducono l’ultima lezione licenziata dall’autore, mancano in generale le edizioni propriamente critiche. Indagini pregiudiziali di angolatura verghiana, stato precario delle fonti e oblio dei testi vanno insomma di pari passo. Così, la marginalità di Capuana, più che un dato prima discusso e poi acquisito dalla critica, è un precondizionamento taciuto.
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Nel saggio su Capuana e Neera del 1905 Benedetto Croce polemizzava contro il binomio Verga-Capuana, riconoscendo all’uno e all’altro «particolari attitudini» e una «propria fisonomia», per quanto a partire da un comune senso dei valori e da un’attenzione condivisa per la «vita provinciale e rurale». La differenza tra i due scrittori veniva sintetizzata in tre punti: 1) Verga è un «debole e impacciato ragionatore», Capuana è un «polemista lucido e sicuro»; 2) Verga è un intellettuale dotato di «spontaneità», Capuana è un intellettuale dotato di «riflessione e cultura»; 3) come narratore Verga gode di un «temperamento passionale, triste e amaro», l’opera narrativa di Capuana è generalmente «un po’ fredda»2.
Siamo all’inizio di una contraddizione novecentesca che continuerà anche nei decenni successivi. Per contestare la pratica del confronto Verga-Capuana, l’analisi di Croce procede essa stessa attraverso il confronto. L’intento sarebbe in potenza quello di rilevare il valore del Capuana critico, ma il risultato è di fatto il rafforzamento del disvalore del Capuana narratore. È così che si arriva alla definizione di uno stereotipo e di una formula tautologica che ancora oggi stenta a essere abbandonata. Nei pochi anni che separano il saggio di Croce dalla monografia di Russo su Verga (1919) il processo si è già concluso: per Russo, Capuana è una figura gregaria e «tributativa» di Verga, un fratello spirituale che ha contribuito «con la sua critica militante» all’affermazione della poetica verista, ma che come narratore del verismo verghiano ha prodotto tutt’al più un’«imitazione», una «volgarizzazione» e un «ingrossa[mento]»3. L’ipoteca del giudizio crociano è palese, ma a questo punto la svalutazione si fa più radicale. Non a caso, nel volume successivo sui Narratori (1923) il registro delle differenze si calibra addirittura sul sistema normativo della Stiltrennung: non solo il «temperamento vivace» del critico ha spento in Capuana l’«ardore lirico del narratore», ma l’unico ambito creativo in cui Capuana può davvero spiccare è quello «prosaic[o]» della «commedia» di «provincia»4. Evidentemente, il limite di questa interpretazione sta nell’equazione tra tragico e sublime (Verga) e tra comico e umile (Capuana). Incapace di rappresentare la problematicità della vita quotidiana, Capuana si limiterebbe, secondo Russo, a ridere dei suoi personaggi, a schernirli e a stereotiparli, proprio come accadeva nei generi medio-bassi del classicismo. Nella Conclusione di Mimesis, Erich Auerbach ha invece dimostrato che la mescolanza degli stili non solo è possibile, ma è anche il presupposto ineludibile del realismo moderno. Capuana, specialmente quello postverista e primonovecentesco, è uno scrittore della Stilmischung, dell’imitazione seria e drammatica della vita di ogni giorno, anche e soprattutto nel riso. C’è poi un altro aspetto, ancora più decisivo, da sottolineare: al di là dei fenomeni contenutistici, sia Croce sia Russo si mostrano refrattari a qualsiasi forma di storicizzazione dei procedimenti formali, laddove sono proprio questi ultimi a rendere la scrittura capuaniana, in particolare quella novellistica, maggiormente innovativa e straniante.
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Capuana e il modernismo è un titolo e una presa di posizione critica. Partendo dalla tesi dell’inesistenza di una barriera del naturalismo, a differenza di quanto sostiene invece Barilli5, questo libro intende dimostrare come dopo il 1890 Capuana si sia affacciato, seppure spesso in maniera contraddittoria, allo sperimentalismo primonovecentesco, rinnovando e ammodernando le strutture tecniche e assiologiche del romanzo e soprattutto della novella in Italia. Pochi altri scrittori vissuti a cavallo tra i due secoli hanno anzi riveduto così nel profondo le forme brevi della narrativa, mai per rinnegarle o desacralizzarle, ma per svilupparle e attualizzarle, alla luce di un assiomatico e irremovibile formalismo.
Per Capuana, tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si apre una frattura insanabile tra le cose e il loro senso: cade la convinzione della verità, cadono i parametri empirici del positivismo, cade il vincolo dell’oggettività. Il mondo si soggettivizza, si relativizza, appare inafferrabile e in balìa della pluralità della percezione. La vita quotidiana, i gesti inconsapevoli e le azioni più insignificanti di ogni giorno si impongono sulla pagina letteraria. Il caso, le circostanze fortuite, «il tegolo» che cade «tra capo e collo» diventano il centro dell’azione. Con gli scrittori del primo modernismo il Capuana di questa fase condivide anzitutto il rifiuto del simbolismo del tardo Ottocento, l’idiosincrasia pronunciata per il bagaglio gnoseologico dell’estetismo, l’estraneità alle istanze antitradizionali delle avanguardie. Per inciso: anche il pluricitato entusiasmo iniziale per il futurismo, come si vedrà, si spoglia ben presto di ogni forma di adesione, sino a tramutarsi nella negazione vera e propria.
Modernismo, dunque, e non generica modernità. O meglio, per riprendere la formula di Frank Kermode, paleomodernismo: un modernismo cioè non del tutto compiuto, acerbo, dove soluzioni appieno novecentesche convivono e coesistono con strutture ancora ottocentesche6. Prima in maniera molto confusa e saltuaria (1897-1900), poi in una chiave sempre più definita, soprattutto dal punto di vista formale e delle tecniche narrative (1901-11). I narratori dell’ultimo Capuana, inattendibili, insicuri, ragionatori, bugiardi e impostori, sfidano apertamente le regole della verosimiglianza. Si azzerano le trame, si stravolge l’ordine cronologico del racconto, prorompe la coscienza. Se è vero che il modernismo, che non designa un’epoca né un movimento organizzato né una scuola, identifica principalmente una “somiglianza di famiglia”, all’ultimo Capuana spetta un ruolo apicale nella genealogia di questa famiglia. Anzitutto come novelliere.
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Luigi Capuana ha scritto novelle per cinquant’anni: dal settembre 1865, quando abbozza Il dottor Cymbalus, che sarà pubblicata due anni dopo nella «Nazione» di Firenze, al novembre 1915, quando esce sulla «Gazzetta del Popolo» L’altra vittoria. Se si eccettuano i raccontini «per fanciulli» e qualche sparuto manoscritto inedito conservato a Mineo, il corpus di queste novelle si compone di 276 unità: 254 licenziate in vita dall’autore (di cui 24 estravaganti); 22 pubblicate postume da Adelaide Bernardini Capuana7. Si tratta, con le Novelle per un anno di Luigi Pirandello e le novelle di Federigo Tozzi, dell’insieme novellistico in assoluto più significativo della letteratura italiana a cavallo tra Otto e Novecento. Un’opera immensa, quantitativamente paragonabile solo a quella di Maupassant, che prende avvio nell’immediato periodo postunitario, ma che conosce il suo momento di maggiore intensità a inizio Novecento. Una ricognizione, anche solo cronologica, del materiale a nostra disposizione rivela infatti che la parte più cospicua della produzione breve di Capuana appartiene alla sua tarda maturità e si concentra nel periodo 1900-15, quando cioè la stagione verista languiva ormai da anni.
Malgrado la sua ampiezza, la sua varietà e la sua continuità, la novellistica dell’ultimo Capuana non ha tuttavia goduto, sino ad anni recenti, di un’attenzione critica paragonabile a quella che è stata invece accordata ai lavori della stagione verista. Questo dato di fatto è cruciale: se è vero che il canone è fondato sul giudizio di valore e che la ricezione ha il diritto e il dovere – se necessario – di mettere a tacere un testo, è altrettanto vero che mai come negli studi critici su Capuana si è registrata una sovrapposizione, davvero scivolosa, tra giudizio di disvalore e condanna preventiva della prolificità. Diciamolo alla buona: poiché da un certo punto in poi Capuana scrive novelle anzitutto per vivere, queste novelle sarebbero il prodotto di una scrittura di routine e di mestiere, perlopiù elaborata su commissione, quindi per la gran parte priva di valore estetico significativo. L’equazione è decisamente equivoca e pone il problema, di ascendenza goldmanniana, del rapporto tra fenomenologia culturale-letteraria e processi economico-sociali. Lo ha spiegato molto bene Isotta Piazza in un suo libro recente su Verga: il fatto di scrivere su commissione rispondendo alle richieste espresse dall’industria periodica, spesso anche in tempi molto ridotti, non determina un esito artistico necessariamente minore. Considerare il testo breve come l’espressione «dogmaticamente libera e incoercibile»8 di un programma estetico, in un momento di decollo dell’industria editoriale com’è quello a cavallo tra i due secoli, è un’operazione figlia di un’idea elitista e antistorica della letteratura. Allo stesso modo, pensare la novella come un mero prodotto di consumo per le masse, compromesso con il mercato delle lettere, è un’idea che deriva dal crocianesimo oltranzista e della quale occorre sbarazzarsi una volta per tutte. Per un motivo su ogni altro: l’esperienza di scrittori come Pirandello, Svevo e Tozzi dimostra, con la datità dei testi, l’esatto contrario. Non solo la novella non è un genere gregario, ma è la forma narrativa che il formalismo modernista contrappone al vocabolarismo estetizzante da un lato e alla destrutturazione avanguardista dall’altro.
Capuana, che appartiene alla generazione di intellettuali direttamente coinvolti nel processo di unificazione nazionale, è uno dei primi e al tempo stesso ultimi fautori di questo rinascimento della novella. Nato siciliano nel 1839, morto italiano nel 1915, ha attraversato le principali tendenze letterarie di fine Ottocento e inizio Novecento. Ha esordito nel periodo postunitario nel segno della fascinazione scapigliata; ha fondato con Verga il verismo; ne ha tenuto la commemorazione definitiva; ha ripreso per via di contrapposizione il discorso dannunziano; ha acquisito la lezione del primo modernismo, precorrendone con un tempo di anticipo le istanze tematiche e formali. Scrivere novelle per lui non è semplicemente un lavoro, ma è una scelta di campo. A partire da questi presupposti, la periodizzazione che propongo si articola in cinque fasi:
- il primo Capuana: tra Scapigliatura e racconto mondano (1865-1877)
- il secondo Capuana: l’avanguardia verista tra Milano, Mineo e Roma (1878/79-1893/94)
- il terzo Capuana: la transizione postverista (1897-1900)
- il quarto Capuana: la svolta paleomodernista (1901-1911)
- il quinto Capuana: l’involuzione solipsistica delle ultime raccolte (1912-1915). Rientrano nelle maglie stilistiche di questo periodo anche i volumi di novelle pubblicati postumi tra il 1920 e il 1923. Con la cautela di una precisazione preliminare: si tratta, come vedremo, di una produzione contaminata dalla mano della curatrice, Adelaide Bernardini.
Questo volume prende in esame le fasi 3, 4 e 5, con sporadici ma necessari sconfinamenti cronologici nelle prime due, già sondate da Carlo Alberto Madrignani in Capuana e il naturalismo (1970)9. L’analisi si concentra in via prioritaria sulla novella, ma si apre anche ai romanzi, nel tentativo di coniugare l’approccio narratologico e l’impegno ermeneutico, sempre nel quadro di un’attenzione filologica alle dinamiche compositive. Di pari passo si procede a una ricostruzione storico-bibliografica della novellistica capuaniana, completa delle nuove acquisizioni. Una considerazione particolare è inoltre riservata alle teorie delle forme narrative (romanzo, bozzetto, racconto, novella), in cui Capuana si cimenta nel duplice ruolo di teorico e di narratore. L’intento è quello diproporre un’interpretazione dell’autore che trascenda i luoghi comuni dell’apostolo dello zolismo e del sostenitore fuori tempo della poetica naturalistica, mettendone in evidenza la forte componente novecentesca. Contestare il canone, non per distruggerlo, ma per ricostruirlo su nuove basi.
1 F. Tozzi, Il binomio Gozzano-Moretti ed il «Giardino dei frutti», in «Sapientia», III, 3-4 (marzo-aprile 1916), pp. 112-20; ora in Id., Pagine critiche, a cura di G. Bertoncini, Pisa, ETS, 1993, pp. 138-47: 147.
2 B. Croce, Luigi Capuana – Neera, «Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX», XIV, in «La Critica», 3 (1905), pp. 341-72 (il profilo di Capuana è alle pp. 341-53), poi in Id., La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 1922, vol. III, pp. 101-18, da cui si cita.
3 L. Russo, Giovanni Verga (1919, 1934, 1941), Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 11-12.
4 Id., I narratori (1850-1950). Nuova edizione integrata e ampliata, Milano-Messina, Principato, 1951, pp. 87-89: 87. Nella prima edizione (Fondazione Leonardo, 1923), il profilo di Capuana si leggeva alle pp. 74-76.
5 R. Barilli, La barriera del naturalismo, Milano, Mursia, 1964.
6 F. Kermode, Continuities, London, Routledge & Kegan Paul, 1968, pp. 8-10 e passim.
7 Di questo numero così come delle nuove acquisizioni, fra cui L’altra vittoria, si rende conto nella Bibliografia delle novelle di Luigi Capuana riveduta e aggiornata, offerta in appendice al volume.
8 I. Piazza, Lo spazio mediale. Generi narrativi tra creatività letteraria e progettazione editoriale: il caso Verga, Firenze, Franco Cesati, 2018, p. 50.
9 C. A. Madrignani, Capuana e il naturalismo, Bari, Laterza, 1970.
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