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“Velare il discorso e ri-velarlo”. Intervista a Enrico Terrinoni

a cura di Loris Magro

Noto soprattutto per le sue traduzioni in italiano dell’opera di James Joyce, Enrico Terrinoni ha di recente esordito come romanziere con A Beautiful Nothing, in cui tre ex allievi di un docente universitario sui generis investigano, in un’atmosfera da giallo esoterico, sul periodo trascorso a Roma dallo scrittore irlandese, argomento a cui l’autore era già dedicato nel saggio biografico Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma, pubblicato nel 2022 in occasione del centenario dell’Ulisse.

Se da un lato il romanzo si inserisce nella schiera di narrazioni accademiche diffuse negli ultimi anni – da Il pieno di felicità (2019) di Cecilia Ghidotti a La scrittrice nel buio (2024) di Marco Malvestio, passando per Due vite (2020) di Emanuele Trevi e La ricreazione è finita (2023) di Dario Ferrari, a cui va affiancato La cospirazione delle colombe di Vincenzo Latronico, pubblicato per la prima volta nel 2011 ma riportato in libreria questo maggio in un’edizione rivista dall’autore, dall’altro contribuisce a un rinnovamento del campus novel italiano in termini di commistione con generi meno improntati al realismo, fino ad ora frequenti più nella narrativa breve, come nell’apocalittico Due o tre cose che ho da dirti sul mondo (Voi non ci sarete, 2009), sempre a firma di Vincenzo Latronico, o nel saramaghiano Quel luogo da cui tutte tornano (Diario delle mie sparizioni, 2024) di Daniele Comberiati.

Già nel romanzo di Ferrari il dottorando protagonista si trovava davanti a un mistero che, pur se ben piantato nella realtà politica degli anni Settanta e fortemente influenzato dal realismo della letteratura working class, giocava ampiamente – e ironicamente – con una rappresentazione del sottobosco militante di sinistra e del piccolo mondo universitario come spazi settari, governati da santoni, nomi in codice, manoscritti da ritrovare e interpretare; in maniera simile, ne La scrittrice nel buio un giovane ricercatore racconta, diventandone pian piano protagonista nonché unico sopravvissuto, una storia che, approfondendo attraverso le biografie fittizie degli scrittori Vittorio Ferretti e Maria Zanca il contesto dei salotti intellettuali attraversati da Morante, Calvino o Pasolini, vira rapidamente verso un revenge horror dai tratti gotici e new weird ricorrenti anche nel lavoro da critico letterario di Malvestio.

Terrinoni sceglie invece una strada diversa: da un lato, nel raccontare il fascino esoterico esercitato dal vecchio professore sui tre studenti, mette da parte l’alienazione del docente strutturato e gli abusi subiti dai ricercatori precari usuali nelle descrizioni del contesto accademico per dei rapporti, professionali come personali, che intercorrono al suo interno, mentre dall’altro, ricostruendo l’interesse di Joyce per l’anarchismo e il socialismo, restituisce all’intrecciarsi tra storia letteraria e grandi movimenti di massa un potere trasformativo e una dignità spesso negati in molte fra le opere afferibili al sottogenere, a partire quantomeno dal Walter Siti di Scuola di nudo (1994), quando firmate da umanisti.

1. Tradurre Joyce implica un confronto con un maestro di stile, capace come pochi altri di adattare il registro alla psicologia dei personaggi e alle situazioni da loro attraversate. Come ha inciso questo nella stesura del romanzo?

Poter avere a che fare con un Maestro della parola e della significazione segreta come James Joyce è un grande privilegio. Avere poi la possibilità di tradurne quasi tutta l’opera ti fornisce chiavi di lettura intime, quasi sconosciute anche ai più. Perché tradurre è da un lato riscrivere, dall’altro entrare nella “testa del testo” se mi è consentita l’espressione, e quindi, gioco forza si apprende molto anche di come si scriva o si possa scrivere alla maniera di chi si è così a lungo interpretato. Con questo non voglio dire che tradurre Joyce ti insegni a scrivere à la Joyce, ma in un certo senso ti suggerisce come velare il discorso e come ri-velarlo (facendo attenzione al trattino). Credo sia avvenuto con tanti altri studiosi dell’irlandese, in primis Umberto Eco, i cui romanzi, malgrado lo stile differente da quello del Maestro, sono joyciani nel senso profondo del termine.

2. Più in generale, cosa vuol dire approdare al romanzo dopo una lunga carriera da traduttore? Cosa ti piace portare con te di quella metodologia di lavoro nel momento in cui ti dedichi alla narrativa e cosa invece pensi possa influenzarti nella scrittura creativa a prescindere dalla tua volontà?

Io ho sempre sostenuto che siamo tutti traduttori, perché tradurre significa esistere, esistere vuol dire cambiare, e tradurre è cambiare per mantenere. Attraverso la scrittura, attraverso i suoni, che poi sono quello che siamo. Siamo suoni, a volte silenziosi, ma è il suono o la sua assenza a definirci come esseri viventi, sociali, politici, creativi, e via dicendo. Quindi, stando a questo filo di pensiero, siamo anche tutti scrittori, perché riscriviamo la nostra vita in continuazione. La rendiamo romanzo, la rendiamo poesia, la rendiamo dramma. Ho inteso questo mio battesimo con la scrittura detta “creativa” (ma quale scrittura non lo è?) come una naturale prosecuzione di quello che ho sempre fatto, e che tutti facciamo, ossia vivere, cambiare. Non sento la frizione tra il mio passato-presente di traduttore-critico-professore al mio presente-futuro di traduttore-critico-professore-scrittore. In termini di metodo, quello che la traduzione può o deve insegnare a tutti, scrittori e non, è l’attenzione nei confronti di ognuno dei componenti della parola, del dire: stare attenti, ovvero, agli “atomi del linguaggio” perché a volte è proprio con quelli che noi “significhiamo”.

3. Come altri romanzi recentemente pubblicati in Italia, anche A Beautiful Nothing è un romanzo accademico, declinazione italiana – o mediterranea – del campus novel diffuso nei paesi di lingua inglese; sarei curioso di sapere se era tua intenzione inserirti in questa tradizione, o se anche in questo caso si tratta di una suggestione joyciana, ispirata dal nono capitolo dell’Ulisse.

Non direttamente, ovvero, ho sempre sentito una strana fascinazione per i romanzi e i film che hanno come ambientazione quel contesto speciale che è la scuola, il college, l’università. Credo che sia un prezioso spazio in cui ha luogo la trasmissione del sapere, la sua raffinazione, la creazione di nuove idee. Nel romanzo ho solo descritto quello che mi è capitato in questi lunghi anni di insegnamento e ricerca in Italia e all’estero, sempre all’inseguimento di un senso segreto che sfugge, di un mistero nascosto all’interno di tutti i libri che ci appassionano; perché, come spiega Carlo Ginzburg, leggere significa sempre “divinare tracce”, porsi al seguito di un richiamo che può portare alla scoperta di qualcosa di nascosto.

4. Mentre una volta le narrazioni di ambientazione universitaria tendevano a concentrarsi sulla figura del docente strutturato, oggi si trovano più spesso romanzi, racconti e film dedicati alla prospettiva di dottorandi, ricercatori e altre figure che occupano una posizione precaria all’interno dell’istituzione.
Nel tuo romanzo accade invece qualcosa di diverso: la figura del docente-mentore, che peraltro occupa una posizione ereticale rispetto alle convenzioni dell’accademia, è al centro della narrazione, ma sempre filtrata dai tre protagonisti, dei quali invece osserviamo parzialmente l’evolversi delle rispettive carriere in ambiti diversi, per quanto sempre legati alla letteratura.

C’è un giovane prof e il suo mentore, come dicevi, quello che gli ha insegnato non tanto o non solo un metodo di ricerca ma una via di avvicinamento al mistero della letteratura: che, ci tengo a dirlo, deve rimanere tale, altrimenti meglio cambiargli nome. La letteratura nasce e resta misterica, e i tentativi di “spiegarla” sono sempre goffi e fallimentari. Possiamo, credo, da docenti, soltanto “iniziare” al suo mistero, indicare il percorso di un incanto, di una malia. I due si ritrovano fuori dall’aula, spesso al pub, per tentare strade interpretative che da un lato devono giungere a una qualche cognizione di un segreto della letteratura, dall’altro tentano di intravedere il contatto tra la letteratura e la vita da cui nasce e che nasconde, e quindi risolvere un mistero. Ci sono poi colleghi studenti universitari del giovane prof che lo aiutano a portare avanti la sua missione, una volta che il vecchio non c’è più. Sono tutte persone che esistono davvero anche fuori dalla pagina, e le storie raccontate, con i dovuti cambiamenti di nomi, indirizzi, date e altro, sono storie rintracciabili in gran parte anche all’interno dei testi-vita a cui i giovani ricercatori nel romanzo si dedicano.

5. Altro tema ricorrente nei campus novel e soprattutto nelle sue declinazioni extra-anglofone è l’esperienza del dispatrio, che anche nel tuo romanzo viene rievocata fin dalle prime pagine, sia per quanto riguarda la comunità anglofona nella Roma d’inizio Novecento, sia nei primi cenni al vissuto dei protagonisti, oltre che nel tuo.

Come entra la migrazione intraeuropea nel tuo romanzo? Nasce come suggestione autobiografica o letteraria?

L’autobiografia è sempre uno specchio incrinato che ci regala visioni distorte. Io per tanti anni mi sono mosso tra l’Italia e molti paesi, Irlanda, USA, estremo oriente, tante nazioni europee. La ricerca, come la letteratura, non ha confini nazionali, e nell’universo infinito e bruniano che descrivo, ogni centro è anche periferia. Detto ciò, citando Orwell, ci sono centri che sono più centrali di altri, e la Roma di inizio secolo è un omphalos di questo tipo, un magnete che attrae per mille motivi, religiosi, politici, sociali, misterici. Attrasse Joyce che in quella città ebbe le intuizioni più importanti della sua vita, e attrae i personaggi del mio romanzo che cercano, tra le altre cose, anche di cogliere l’anima segreta di una luogo eterno e sommerso, sotterraneo.

6. Uno dei primi autori di campus novel in Italia, Pier Maria Pasinetti, tra i curatori della Norton Anthology fra i primi studiosi italiani di Joyce, tradusse in inglese il suo Il ponte dell’accademia appena un anno dopo la pubblicazione originale. Non so se hai già in programma un’edizione in inglese del tuo romanzo, ma sarei curioso di sapere se preferiresti venire tradotto o curare tu stesso la traduzione; in questo caso, quanto pensi che saresti tentato di riscrivere più che di adattare il testo originale a un’altra lingua?

Spero innanzitutto che il libro si muova bene in Italia, e certo, vedrei con felicità una traduzione in qualunque lingua. Essendo un testo disseminato di segreti che riecheggiano opere altrettanto celate all’occhio nudo, forse potrei essere di aiuto a un traduttore, quantomeno per indicare questo gioco di specchi, questo dialogo tra grandi del passato, reso vivo dalle loro riletture presenti. Credo che il rapporto tra traduttore e autore (se vivente) sia molto proficuo per le riscritture delle opere in lingue altre. Non necessario, ma utile. Di certo non mi sottrarrei, se emergesse la possibilità.

7. La trama di A Beautiful Nothing ha forti tinte esoteriche, anche ma non soltanto nelle parti in cui aleggia lo spirito di Giordano Bruno, senza però toccare mai corde weird o gotiche a cui pure si sarebbe potuta prestare; hai avuto la tentazione di inserire elementi sovrannaturali? Perché hai invece virato su un contenuto politico?

Qualcosa di non naturale, o meglio, di non spiegabile ricorrendo a parametri razionalistici c’è eccome. E la dimensione politica, non ovviamente nel senso “partitico” del termine, ma ideale, ossia di dibattito tra grandi idee, in cui includo il versante religioso, con le eresie e le periferie della spiritualità, altro non è che parte del nostro vivere nel mondo. Ci sono tante cose che non vediamo, e che ci piace talvolta lasciare taciute. Non le comprendiamo e ci disturbano. Io credo che in parte la letteratura debba immergersi in quel non detto, in quegli spazi che riposano dietro velami strani. L’abisso, potrei chiamarlo, la dimensione buia che tutti abbiamo dentro, ma che in molti non vogliono riconoscere o ammettere di avere.

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