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diretto da Romano Luperini

L’articolo si divide in due parti: una introduzione, a cura di Monica Venturini, e l’intervista a Valerio Magrelli realizzata da Iris Furnari e Alessia Garollo.

Una introduzione alla poesia di Valerio Magrelli

Quando guardo di sera la tv
cerco solo le storie,
ma le voglio cambiare di continuo
mescolandole tutte, zip e zap.
(V. Magrelli, Guardando le serie tv, in Exfanzia)

Nell’ultimo trentennio del Novecento si assiste all’affermarsi di un nuovo scenario culturale nel quale i media hanno un ruolo decisivo nell’elaborazione di nuove modalità espressive che oltrepassano i confini dei generi, ibridano linguaggi e richiedono nuovi paradigmi interpretativi. Se è vero che la crisi della critica, per effetto della perdita di centralità della letteratura, non ha trovato argine nel nuovo millennio, la poesia, «dopo la lirica» (Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di E. Testa, Einaudi, 2005) ha saputo però trasformarsi, nonostante le scoraggianti classifiche provenienti dal mondo editoriale e i dati relativi alle abitudini di lettura delle nuove generazioni, trovando inaspettate e inedite forme nell’orizzonte transmediale contemporaneo. E non si tratta soltanto di una maggiore circolazione di testi poetici in rete – espansi, ibridi, in dialogo –, ma di un’interazione che si riflette nella genesi, nella struttura e nella ricezione dell’opera, a diversi livelli, coinvolgendo e determinando una nuova postura dell’intellettuale, chiamato e chiamata a confrontarsi con i cambiamenti in atto.

«Spazio di illimitata libertà» (F. Milani, Interferenze informatiche nella poesia italiana contemporanea, «Between», 2014), la rete si scontra, al contempo, con il moltiplicarsi di esperienze non convenzionali, aperte al cambiamento e al giudizio, spesso non mediato da alcun ruolo e ambito disciplinare, ma affidato al fluire delle opinioni. La poesia acquisisce sempre di più lo status di «oggetto visivo» (P. Giovannetti, in Poesia e nuovi media, a cura di F. Giusti, D. Frasca e C. Ott, Franco Cesati, 2018), di ulteriore proiezione, riflesso, immagine dell’opera in sé, immersa in tali radicali trasformazioni.

In questo quadro così complesso e in divenire, la produzione di Valerio Magrelli rappresenta una di quelle esperienze che, radicata nel canone mobile e in fieri della letteratura italiana contemporanea, non si è sottratta al confronto con i media, un dialogo che non esclude un forte senso critico rispetto ad alcuni effetti mediali, ma anche una dichiarata curiosità verso le potenzialità dei nuovi mezzi. Se il cinema compare nelle prime raccolte, la televisione domina il dittico Ecce Video contenuto nel volume del 1996, Poesie e altre poesie (1980-1992); va ricordata anche l’esperienza sulla rivista «Telèma» e, soprattutto, alcuni dei volumi più noti come Didascalie per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006), Il commissario Magrelli (2018), fino ai più recenti Il sangue amaro (2014), Le cavie: poesie 1980-2018 (2018), dove è raccolta la produzione precedente, ma soprattutto Exfanzia (2022) e Verso a fronte (2023). Ciò ha senza dubbio interessato anche la sua riflessione critica – si pensi a Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry (Einaudi 2002, L’Harmattan 2005) – e la sua produzione saggistica, tra cui in particolare, Il Sessantotto realizzato da Mediaset (Einaudi 2011), Geologia di un padre (Einaudi 2013), La vicevita (Einaudi 2019) e Sopruso: istruzioni per l’uso (Einaudi 2019).

Libro della maturità nel quale si riattraversa l’infanzia à rebours, Exfanzia si impone nel panorama poetico contemporaneo, non solo per la chiarezza del dettato e la dissonante prospettiva scelta, ma anche per il convergere di temi che, come fossero i sassolini della favola di Pollicino evocata in apertura e poi nella poesia da cui prende il titolo l’intera sezione («Mi sento così impaurito e solo al mondo / che perdo gli oggetti, uno ad uno. / Per farmi ritrovare da qualcuno?», vv. 1-2, p. 14), conducono ad interrogarsi sul tempo che passa, sull’infanzia perduta, sull’inevitabile smarrimento della condizione umana di fronte al senso dell’esistenza («Siamo fatti di vetro soffiato: / l’unica cosa buona sta nel soffio», vv. 13-14, p. 80) e sul significato della poesia («Poesia’ viene da ‘pus’: / non te l’aspettavi?», vv. 1-2, p. 86). «Ma il fascino di questo libro è che l’«ex» ribalta ma non cancella l’«in». Tutto si tiene insieme» – si legge nella quarta di copertina – «così come insieme al tema generazionale scorrono altri temi […]: la malattia, il ‘sangue amaro’, la musica, la cultura pop».

Il primo dei quattro poemetti finali, Guardando le serie tv, presenta testi fortemente coesi, ognuno dedicato ad una serie televisiva recente: da Chernobyl a The Games of Thrones, da True detective a Boris e The Serpent, i versi magrelliani dialogano, tramite l’abituale e acuta ironia, con personaggi e figure della serialità televisiva, instaurando così un inaspettato e dissonante effetto tra pagina e schermo: «Una specie di fame di racconti. / È come se il cervello cercasse storie / per alimentarsi. / Uno ha bisogno di intrighi che si disfano, / ha bisogno di vedere la maniera / in cui si sbroglia un nodo» (XIV. Sherlock Holmes, vv. 1-6, p. 100). Fine traduttore e attento osservatore della società contemporanea, Magrelli sperimenta qui un’ulteriore potenzialità della sua poetica, rivolgendosi apertamente al lettore-telespettatore e alla lettrice-telespettatrice e condividendo sulla pagina la passione, taciuta e colpevole, come afferma nell’intervista, per le serie televisive che oggi dialogano sempre più intensamente con l’universo letterario tramite esperienze ibride e al confine tra generi, codici e linguaggi, in parte eredi del feuilleton ottocentesco, figlie dello sceneggiato con cui la televisione nasce e si diffonde, oggi protagoniste di un rinnovato sodalizio tra pagina e schermo sotto la cui egida vengono riattualizzati classici della nostra tradizione o lanciate nuove opere non più solo letterarie, non solo televisive. Nei versi di Exfanzia si trovano dunque le tracce di questo nuovo sguardo che dalla pagina conduce allo schermo per tornare alla pagina, in un incessante e perturbante processo di cui vediamo solo ora i primi parziali effetti: «Il risultato è un un’unica matassa / di filamenti e germi, pasta spessa / che mi porto nel sonno a lievitare / per sfornare i miei incubi» (vv. 5-8, p. 95).

L’intervista che segue è stata realizzata nell’ambito del Corso per studenti della Laurea magistrale di Letteratura, giornalismo e nuovi media, da me tenuto presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi Roma Tre, nel I semestre 2023-2024.

Intervista a Valerio Magrelli, a cura di Iris Furnari e Alessia Garollo

D: Cominciamo dal principio: il suo processo creativo. Possiamo dire che lei sia passato “dalla penna al telefono”? Dunque, è cambiato il suo processo creativo nel tempo? L’influsso dei nuovi mezzi tecnologici ha influito?

VM: Devo dire che, effettivamente, vicino al letto tengo sempre un quaderno di appunti, ne ho composti una ventina a partire più o meno dal 1980, quindi sono quasi 45 anni. Ultimamente, diciamo negli ultimi quattro anni, non ci ho quasi più scritto nulla, ma veramente c’è un appunto all’anno! Tutto questo è finito nel computer, ormai ho addirittura dei file di appunti, quindi anche le cose più veloci, più immediate, le tengo nel computer a scapito del quaderno che si è come atrofizzato.

Un’altra cosa da dire invece, questa riguarda però più che altro non la poesia, raramente le prose, ma soprattutto gli articoli di giornale: non scrivo più per i giornali – prima scrivevo moltissimo – e avevo scoperto questa modalità che mi piaceva molto perché equivaleva a poter disporre di un segretario, cioè quelle app dictation, quelle app di dettato che servono per trascrivere il parlato. Mi è capitato di scrivere un articolo seduto, dettandolo al telefono, in macchina; e arrivato a casa, trovavo già il testo. Quindi questa per me è stata una cosa veramente formidabile, una grande scoperta che ho usato molto… Anche se adesso in maniera ridotta.

D: Le capita mai di prendere il telefono e aprire le note per scrivere direttamente lì?

VM: Sì, spesso questo ormai sì, sì. Ah, vede lei parlava di telefono, stavo pensando ancora al vecchio telefono, ah lei dice al cellulare! Ho intere poesie scritte sul cellulare e ogni volta – ecco questo è importante però per me – a ogni stesura diciamo me la invio sulla mail, quindi di nuovo nel computer avrò la versione ultima della poesia, poi magari, due settimane dopo, la modifico e allora la riscrivo e me la spedisco via mail per farla approdare al telefono, dove ho tutte le varianti.

D: L’ispirazione, dal momento che il mezzo è così diverso oggi, è cambiata? Abbiamo letto una sua intervista sul sito web Insula Europea, in cui lei parlava dell’ispirazione non tanto in termini romantici, ma piuttosto come una serie di momenti che andrebbero “accuditi”: in che modo intende “accudire” questi momenti d’ispirazione?

VM: Beh, bisogna sapere che per quanto riguarda quello che per me è l’associazione di idee, io parlo proprio di gioco di sinapsi e non di spirito che cala dall’alto, però, a quel cortocircuito si può arrivare in qualsiasi momento e, dunque, nonostante io non abbia mai girato con un quadernetto in tasca perché, non so, mi pesava, mi intralciava, spesso magari scrivevo sui biglietti dei treni, sui biglietti degli autobus. Ma adesso con il telefonino tutto cambia! Volevo aggiungere una cosa, la dettatura per me si è rivelata formidabile rispetto alle traduzioni, io ho addirittura tradotto un’intera commedia di Molière in versi tutta sul cellulare perché, per esempio, mi sedevo, avevo l’originale sul cellulare e dovevo aspettare mezz’ora il treno, così un quarto d’ora ta-ta-ta facevo tre-quattro alessandrini e poi andavo avanti.

D: Quindi un processo molto agevolato rispetto a prima sicuramente.

VM: Eh sì, decisamente sì. Un mio amico mi dice: “beh ma è come avere un segretario”, e io rispondo “eh sì, chi te lo paga il segretario, appunto!” Si dice che Henry James dettasse i suoi complicatissimi romanzi e adesso potrebbe farlo da solo, no?

D: Possiamo dire che c’è stato anche un cambiamento nella concentrazione, riguardo al tempo e al modo della scrittura, avendo a disposizione questi mezzi?

VM: Beh direi, perché io devo dire la verità, da una parte trovo raramente del tempo da dedicare alla scrittura, dall’altra parte quando lo trovo non lo so usare, mi paralizzo e quindi finisce che quella condizione di cui mi lamento tanto, di emergenza, di scarsità è quella poi alla fine ideale.

D: Potrebbe affermare che per scrivere questa condizione l’aiuti?

VM: Vedete, c’è una bellissima frase della Bibbia che dice: “le olive danno il meglio di sé

quando vengono stritolate nel frantoio”.

Può succedere a certe persone, non è detto che per tutti sia così, per me certamente lo è. Riesco

a lavorare bene solo se c’è questa situazione precaria, altrimenti non è la stessa cosa.

D: Un’altra domanda sul rapporto con i media, sia vecchi che nuovi: quale poesia per lei rappresenta meglio questo rapporto, così complesso? Secondo lei c’è una poesia, una sua poesia ovviamente o anche una raccolta, che racconta il suo rapporto con i media?

VM: Ci sono delle poesie, per esempio, già di una ventina di anni fa, nella raccolta Didascalie per la lettura di un giornale, anche molto violente anche contro la tecnica, perché se ho acquistato tanto con la tecnica ho perduto altrettanto…

C’è addirittura una poesia nei Disturbi del sistema binario: una sestina, è l’unica sestina che ho scritto, in cui seguendo questa forma particolare, seppur in settenari, mi scaglio contro chi ripara i computer e non li sa riparare, il titolo è Si riparano personal. Ci fu un periodo in cui andavo ininterrottamente da questi negozianti che mi ridavano il computer, sempre rotto e alla fine ho scritto questa poesia di puro odio verso di loro. Per me è la lumpen tecnologia. Lumpen è una parola tedesca che vuol dire “straccione” e Marx parlava del proletariato che era un po’ l’aristocrazia del popolo e degli straccioni del proletariato, i Lumpenproletariat: quindi ho creato questo neologismo, la lumpen tecnologia cioè una tecnologia stracciona ed è terribile da vedere! Ora si è tutto un po’ assestato, però ho passato anni veramente terribili, perché poi dovevo consegnare dei testi e non funzionava il fax, non funzionava questo e quello…

D: In riferimento alla sua poetica, ci interessa soprattutto la sua lirica in relazione e in risposta al disordine del mondo contemporaneo. In un certo senso, essa è volta a trovare un ordine proprio, anche solo a livello di forma. Cosa ne pensa? Poi, però, leggendo anche altre interviste, abbiamo visto che, in alcuni casi, la poesia diventa per lei il contrario, uno spazio libero rispetto al resto del mondo.

VM: Ah non me la ricordavo questa! Sì, è vero indubbiamente.

D: Ci chiediamo dunque, quale sia la sua opinione in proposito, riguardo al disordine del mondo, la poesia è nuovo ordine o c’è anche del disordine nei versi?

VM: Certo! Sono tutti cardini molto molto giusti, il disordine del mondo è il punto di partenza, io da un lato diciamo cerco di tamponarlo (a livello pratico) e dall’altro mi affido alla poesia, forse più che per correggerlo, per raccontarlo ecco; soprattutto il terzo libro Esercizi di tipologia è quello che più sottolinea questo disordine e lo racconta, quello che lo denuncia, anche. Per il resto ho cambiato modalità, ecco uno dei miei precetti è quello di non ripetermi, e quindi non voglio rifare le stesse cose meglio: non vorrei mai rifare un libro in bella copia! Secondo me ogni libro deve avere una sua mèta, una sua modalità, deve inventarsi nuove risposte.

D: Quindi è proprio cambiata la sua poetica, possiamo dire, in fieri, e magari cambierà ancora nel corso del tempo.

VM: Sì, però ritengo ovviamente che ci siano delle costanti: ci sono delle cose, per esempio la strofa: io non avevo mai suddiviso il testo in strofe, fino a sette/otto anni fa quando ho iniziato a giocarci. C’è sempre qualcosa di inatteso, sì anche per me è molto divertente e appassionante, non è studiato a tavolino ecco! E poi io aspetto che mi arrivino dei segnali, dei suggerimenti ed è questa la cosa bella con la poesia: non sapere dove si sta andando. È un po’ come affidarsi alla poesia stessa.

D: Come è cambiato il rapporto con la televisione nel corso degli anni? Dal momento che è sempre stato attivo, anche con collaborazioni in molti programmi culturali.

VM: Ho scritto delle poesie sulla televisione e, diciamo, innanzitutto che è cambiata molto la televisione, sono emerse le serie, tanto che nell’ultimo libro Exfanzia c’è un capitolo intero dedicato alle serie TV. Per me la televisione è un punto di riferimento o anche come si chiamano i desideri colpevoli, ogni tanto vedo delle trasmissioni orrende per il gusto di capire fino a dove si spingono.

D: In merito al suo rapporto con i social, come usa il canale di Instagram? Con lo scopo di una semplice promozione delle sue opere, o invece, si può considerare uno spazio di condivisione virtuale con il pubblico?

VM: Tutte e due forse, ma la cosa importante è che non me ne occupo io e addirittura non lo guardo io! Non so cosa accade perché è tutto tenuto da mia figlia, la quale appunto, pur avendo un altro lavoro, ogni tanto si diverte a inserire delle cose, mi chiede dei testi da fotografare per i post.

Per me è una cosa estenuante anche se, insomma, apprezzo molto quello che fa. Quindi no, Instagram proprio no, ho provato un periodo, ma poi ho completamente smesso anche perché ho visto che se ne va una quantità di tempo impressionante, lo stesso vale anche per Facebook. Da questo punto di vista sono proprio fuori dal mondo dei social.

D: L’altra domanda collegata a questo discorso ruota intorno ad una riflessione: si può paragonare il postare le poesie sui social alle precedenti esperienze di divulgazione in tv, per esempio la lettura di una poesia in televisione o in radio. Lei cosa ne pensa?

VM: Sì direi assolutamente, addirittura si potrebbe caricare una sequenza dell’autore che legge, in maniera autonoma da emittenti e produttori tv, sarebbe meglio ancora, forse. Beh, sono convinto che sono tutte modalità utili per aumentare la circolazione dei testi. Anche se per me, che sono ‘vecchio stile’, il punto d’arrivo resta comunque il cartaceo.

D: Il rapporto con i media, dunque, è un rapporto anche conflittuale, nel senso che rispetto alla televisione, per esempio, lei preferisce scrivere, piuttosto che interagire sui canali di comunicazione?

VM: Esattamente, dopodiché a me piace moltissimo la lettura pubblica, il reading, se non ho mai fatto lo slam, ormai non lo potrei neanche fare, insomma farei ridere sono troppo vecchio! Comunque mi piace moltissimo la lettura pubblica perché consente la possibilità di commentare i testi: trovo che per il pubblico sia una bella occasione un bell’arricchimento.

Mentre in televisione ora so che cominceranno nuovi programmi anche di letteratura, ma ho sempre qualche riserva. Adoro la radio questo sì, per me la radio è proprio la camera oscura, la cassa di risonanza in cui la poesia funziona, ma la televisione non so, ho un’unica parola: imbarazzo, mi mette in imbarazzo, cosa che appunto con la radio non avviene mai.

D: Per concludere, volevamo chiederle di approfondire l’esperienza di “Telèma” e quell’idea nata nel ‘98 di realizzare una rassegna di “poeti del computer”. Lei non solo ha curato i numeri, ma anche commentato i testi proposti da poeti affermati ed emergenti. Vivendo la rivoluzione telematica sulla pelle e sulla penna, com’è stata tutta l’esperienza poetica condivisa con gli altri poeti in questo progetto?

VM: Certo, inizio col dire che venni invitato dal direttore di “Telèma”, una persona veramente squisita, a tenere una rubrica sui nuovi media e io dissi: “Guarda – era appena uscito Didascalie per la lettura di un giornale, o stava per uscire – hai chiamato la persona sbagliata…”, perché in quel periodo ero furibondo nei confronti del mondo tecnologico per i guasti e i disagi, nonché le imperfezioni del primo computer. “Perché io detesto in maniera profonda tutto questo lavoro abborracciato che deriva dall’uso di questi nuovi mezzi…” e lui mi disse che, al contrario, nessuno avrebbe potuto farlo meglio di me e quindi alla fine accettai. Ebbi l’idea o la ebbe lui, ora non ricordo più, di invitare un autore per ogni numero chiedendogli di scrivere una poesia che avesse per oggetto il computer e fu molto divertente perché ci fu la possibilità di ospitare in rivista gli autori più diversi da Giovanni Giudici a Spaziani, ai giovani come Anedda, poi Zeichen, Frabotta… Veramente fu una bellissima carrellata in cui ognuno svelava la maniera in cui si era messo in relazione con questa nuova forma di scrittura. Direi che è stato molto intelligente come progetto, non me lo dico da solo,

perché poi certo l’idea del computer come soggetto poetico è abbastanza scivolosa, soprattutto in quei primi anni di fili e cavi. C’era proprio la scommessa di vedere cosa ne sarebbe uscito fuori.

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