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diretto da Romano Luperini

Guerra e paesaggio. Il trauma, l’esperienza estatica, la riappropriazione dell’io attraverso la scrittura

Questo studio prende avvio da un lavoro svolto con due classi quinte negli anni del centenario della Grande Guerra e poi da me proseguito, allargando il campo e interrogandomi in un ambito di studi sempre aperto a nuove riflessioni, anche in considerazione del fatto che la guerra continua drammaticamente a presentarsi nel nostro orizzonte.

In classe erano stati presi in esame alcuni libri considerati tra i risultati più alti nella produzione italiana ispirata alla Grande Guerra: Guerra del ’15 di Giani Stuparich, irredentista triestino che, con il fratello Carlo, sperimenta in guerra il crollo degli ideali; Giorni di guerra,che illustra la guerra-avventura del giovane Comisso; Giornale di guerra e di prigionia, nelle cui pagine Gadda, come sarà suo costume, cerca di “prendere le misure al caos”; ma anche altre pagine, come quelle di Renato Serra, promettente letterato a cui la guerra ha tolto per sempre la possibilità di parlare.

Un lavoro svolto in prevalenza su testi narrativi, ma con qualche incursione nella poesia. Ho dato spazio alla forma narrativa (diari e memorie) perché vedevo, nella pratica scolastica, la tendenza a proporre la rappresentazione della Grande Guerra prevalentemente nell’espressione lirica, e dunque in una sorta di cristallizzazione di momenti. La pagina di diario, che si distende nella durata e presenta una più vasta fenomenologia, mi sembrava utile a completare questa rappresentazione.

L’approccio al tema è stato condotto con lo sguardo rivolto in particolare a due libri, La Grande Guerra e la memoria moderna di Paul Fussel e Terra di nessuno di Eric Leed che hanno introdotto nello studio della Grande Guerra nuovi punti di vista, più attenti alla dimensione soggettiva dei protagonisti: aspetti corporei, psicologici e dell’immaginario.

Lo studio si è sviluppato attraverso un fitto lavoro di schedatura dei temi; un “corpo a corpo” con i testi volto a cogliere analogie e differenze nei dati percettivi e di scrittura. Ne è nata una sorta di ricognizione-narrazione che cerca di dar voce quanto più possibile alle parole dei protagonisti.

Uomo e natura nello scenario di guerra

La Grande Guerra ci consegna l’immagine dell’uomo immerso nella natura: i combattenti sono “incistati” nella terra, abbarbicati alle rocce, accampati o in marcia a cielo aperto. Nel saggio La prima guerra mondiale e l’appropriazione della natura George Mosse illustra come questa guerra modificò, rese più intimo, il rapporto degli uomini con la natura. La natura li aiutò a superare l’impatto della guerra tecnologica, ma diede loro anche «la sensazione di possedere un pezzo di eternità» (Mosse, p. 255). E forse, davvero, nessuna esperienza può cambiare quanto la guerra la percezione umana della natura, del paesaggio. La guerra rappresenta dunque una condizione “fuori dell’ordinario” in cui indagare il rapporto uomo/natura, uno dei temi centrali dei nostri studi letterari.

L’uomo, in guerra, deve osservare con attenzione il paesaggio che lo circonda, ne registra i dati, i mutamenti, per garantirsi la sopravvivenza. Ma, in particolare nelle lunghe pause tra i combattimenti, il suo sguardo può posarsi sul paesaggio in modo diverso, con una disposizione contemplativa forse mai sperimentata nella vita ordinaria.

Nell’esperienza del primo conflitto mondiale il rapporto tra uomo e natura si caratterizza per questa condizione: il combattente ha di fronte a sé una natura “sconvolta” e sperimenta una percezione “sconvolta”. I due fattori sono illustrati in modo sistematico e con grande ricchezza di esempi nel libro di Matteo Giancotti Paesaggi del trauma; riprendo la sua articolazione in questa prima parte.

Natura sconvolta

Ferita, violazione

Nella memorialistica, accanto alla registrazione delle ferite e mutilazioni prodotte sui corpi, continue sono le registrazioni dell’impatto dell’artiglieria sul paesaggio. Solo qualche esempio, tra le innumerevoli testimonianze nei testi esaminati. Comisso, sul Montello, si muove sul «terreno sbranato» (Giorni di guerra, p. 218); Gadda, sull’altopiano di Asiago, registra la visione dei «bei prati, densi di magnifico foraggio e infiorati dell’estate […] dilaniati dalla guerra» (Giornale di guerra e di prigionia, p. 128). Stuparich non riesce a dimenticare la strada che corre alta tra le trincee (una strada che porta a Trieste, percorsa in bicicletta qualche anno prima) ai lati della quale gli uomini «hanno scavato, torturato la terra» (Guerra del ’15, p. 172).

Le “figure” sono quelle della ferita, della violazione. La modalità espressiva mostra un processo che tende ad annullare le distinzioni tra l’elemento naturale e quello umano culminante nell’espressionistica immagine di Stuparich: «i tronchi dei pini bruciati storcono e agitano nell’aria i loro stecchi come scheletri impazziti» (p. 121).

Disordine e contaminazione

L’esperienza di guerra, come dimostra Leed, è «la continua trasgressione di categorie», l’occasione per «il rovesciamento di distinzioni centrali per il pensiero razionale […]» (Leed, Terra di nessuno, p. 33). Tra esse, quelle che riguardano l’ordine e la pulizia. Nell’universo bellico, osserva ancora Leed, citando l’antropologa Mary Douglas, si verifica la contaminazione tra sostanze e condizioni che normalmente sono tenute separate da regole e tabù (cfr. p. 29). Sconvolgente appare innanzitutto la contiguità con gli escrementi e con i cadaveri. A questo proposito risulta interessante porre a confronto il tono diverso con cui gli scrittori registrano il fenomeno.

«Non ci sono latrine, ognuno evacua all’aperto, quanto più può vicino al suo o al ricovero degli altri […] E così questa collina rivestita di teneri pini e profumata d’erbe e di resina, questa collina su cui si viene a morire, si spoglia a poco a poco e diventa un letamaio» (Stuparich, p. 59).

Dolente ed elegiaco il tono di Stuparich; altro registro, altri accenti, quelli utilizzati da Gadda:

«Merde: sono sparse, di tutte le dimensioni, forme, colori, d’ogni qualità e consistenza, nei dintorni immediati degli accampamenti: gialle, nere, cenere, scure, bronzine; liquide, solide ecc.»; oppure, parlando dei cadaveri: «[…] numerosi cadaveri in putrefazione, verdi, cerei, neri, paonazzi» (Gadda, pp. 218 e 118, corsivo dell’autore). Idiosincratico, tendente all’enumerazione, Gadda è già lo scrittore che conosceremo. E forse, attraverso lo stile, Gadda controlla il turbamento, si difende dal trauma.

Renato Serra, nel suo folgorante Diario di trincea, riunisce tutti questi fattori: violazione, contaminazione e selvaggia antropizzazione in un passo di particolare intensità.

«[…] e poi tutti i segni dell’agglomeramento di uomini, che passano e sanno di non restare, elasciano il peggio di sé, le traccie del vivere abbandonato, bestiale: brani di carta che s’ammucchiano in tutti gli angoli coi vetri, e gli stracci, biancheria sporca buttata sui cespugli secchi e sui rami scortecciati, avanzi di cibo tra il fango, pasta che si macera e mescola la sua acredine al puzzo degli escrementi e delle lordure disseminate per tutto […] paglia, ovatta, fiaschi, latte interrate e ammucchiate su questo terreno spelato, in questo sottobosco rado dove il sole che filtra tra i riflessi del verde pare un’ironia sulla terra gibbosa, nuda e tetra […] non un angolo, non un ramo, non una zolla che non conservi la pesta e la sporcizia dell’uomo» (Serra, Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, p. 326).

Secondo Giancotti, Serra esprime in questo passo l’idea di «fine della natura» (Giancotti, Paesaggi del trauma, p. 43). La radicalità della violazione intacca l’idea stessa di natura.

Percezione sconvolta

Gli effetti della guerra tecnologica si producono anche sulle strutture percettive del combattente sottoposto a quello che Gibelli definisce un vero e proprio «bombardamento sensoriale» che lo disorienta facendo smarrire i codici di riferimento e sconvolgendo l’ordine naturale.

Impressionante, nei diari, la quantità delle testimonianze sugli stimoli sonori: il lacerante fragore delle artiglierie ha un forte impatto sulla psiche.

Di grande impatto sono anche gli stimoli visivi: la luce dei razzi e dei riflettori illumina a giorno le notti; le polveri e i gas offuscano il giorno invertendo i cicli naturali e togliendo la nozione del tempo.

Registrati con frequenza sono anche dati relativi alla frammentazione degli eventi percettivi: la visione dalla trincea che ritaglia il paesaggio; l’intermittenza sonora delle esplosioni.

L’alterata percezione della realtà è dovuta inoltre al mutamento di postura del corpo del soldato: quella che Gadda definisce «vita orizzontale». La Grande Guerra, per la modalità di combattimento, costringe il soldato a rimanere sempre appiattito sul terreno o “dentro” la terra. In virtù della lunga permanenza sul terreno si determina un particolare rapporto con la terra. La terra diventa per il soldato elemento protettivo: casa, letto, culla, tana. «La trincea è ancora calda dei corpi che l’hanno abbandonata da poco, per scendere all’assalto; è come un letto, dove altre creature umane, fatte come noi […] hanno riposato, e che ora, anche se forse per brevi istanti, ci accoglie e ci protegge. Non ho provato mai un sentimento cosiffatto di tenerezza, come da vivo a vivo, per questa povera, nuda terra […]» (Stuparich, p. 143). Ma lo stare “conficcati” nella terra è percepito anche come costrizione, esperienza di morte prematura: le lunghe «ore di sepoltura» di cui parla Stuparich. E ancora, nella disperata ricerca di protezione esemplificata dall’immagine ricorrente delle teste che, sotto i tiri, «frugano nel terreno come per entrarvi» (p. 36) si può ravvisare un’implicazione simbolica di regressione alla terra/grembo.

Lontananza dal mondo, “vacanza”, idillio

Il bombardamento sensoriale a cui è esposto provoca nel combattente una condizione di smarrimento che lo trascina fuori da se stesso. Ma tra i fattori che determinano nel combattente un mutamento psicologico-esistenziale, centrali sono la “lontananza dal mondo” e l’esposizione alla morte.

Al fronte si verifica un progressivo allontanamento dal “mondo”; viene dimenticata quella che si definisce vita civile: status, occupazioni, regole, valori che vigevano nella vita precedente la guerra.

Fortini riconosce nell’esperienza di guerra di Ungaretti «una naturale fuoruscita dalla condizione storica», l’approdo ad una condizione «regressiva» che permette una partecipazione, quasi «una identificazione con la realtà naturale» (Fortini, I poeti del Novecento, p. 70).

Rimanendo nell’ambito della rappresentazione lirica dell’esperienza di guerra, un’espressione che rende con particolare efficacia questa condizione è l’«oblio del mondo» di cui parla Montale in «Valmorbia…».

Valmorbia, discorrevano il tuo fondo

fioriti nuvoli di piante agli àsoli.

Nasceva in noi, volti dal cieco caso,

oblio del mondo.

Tacevano gli spari, nel grembo solitario

non dava suono che il Leno roco.

Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco

lacrimava nell’aria.

Le notti chiare erano tutte un’alba

e portavano volpi alla mia grotta.

Valmorbia, un nome – e ora nella scialba

memoria, terra dove non annotta.

Unica poesia di Ossi di seppia sul tema della guerra, «Valmorbia…»(1924)è la rievocazione, a quasi un decennio di distanza, del periodo trascorso da Montale sul fronte trentino della Vallarsa. Montale delinea un paesaggio “incantato”; un’atmosfera di idillio pervade la lirica. Gilberto Lonardi, nella Lettura di «Valmorbia…» apparsa sulla rivista «Versants» (n. 63:2, del 2016, interamente dedicato alla Grande Guerra), parla di «un’aura di vacanza e di sogno, una condizione estatica» (Lonardi, p. 112). «Vacanza» è da intendersi qui come “sospensione”. «[…] lontani il mondo e il cieco caso: o, più in generale, il proverbialmente montaliano ‘male di vivere’» (p. 114). Il soggetto, che Montale, e il Novecento, vedono in conflitto, in disarmonia con il mondo, appare conciliato.

Certo, può apparire paradossale, e va perciò ricordata la lettura proposta da Francesco Zambon che vede la rimozione dell’esperienza traumatica della guerra e la proiezione del trauma rimosso, nella visione del mondo e nei motivi profondi della poesia di Montale (cfr. Zambon, L’elegia nella notte del mondo. Poesia contemporanea e gnosi, pp. 49-50).

Lonardi, pur ricordando che la Prima guerra mondiale ritornerà nel Montale del dopo-«Valmorbia…»con diverso tono(ad esempio in due “mottetti”), sottolinea l’autenticità, la peculiarità dell’esperienza consegnata ai versi del ’24 e vede la guerra come la sola condizione per poter vivere quell’esperienza. «[…] quelli che, come quel primo Montale, nella Grande Guerra hanno scavato, e poi affidato alla scrittura, in poesia o in narrazione, il dono dell’avventura anche gioiosa (vedi da noi anzitutto Comisso), o la salvezza della condizione sospesa, estatica (vedi questo Montale), che solo quell’esperienza, paradossalmente, poteva offrire» (Lonardi, p. 111, corsivo dell’autore).

Tornando ai nostri diari, quelli che Lonardi definisce paradossali «ritagli estatici» nell’orrore, appaiono esperienze vissute, non soltanto nelle retrovie. Stuparich, che nelle trincee del Carso ha ormai conosciuto l’orrore della guerra, alla pagina del 17 giugno, registrando le ore del turno di guardia sulla Rocca di Monfalcone, scrive: «Sopra lo spiazzo, in mezzo ai pini, il cielo stellato, al quale non so alzare gli occhi senza sentirmi in pace e come fuori del mondo. L’anima s’è staccata dai sensi, emigra lontana […]» (p. 53, corsivo mio). Al di là del riscontro puntuale – quel sentirsi «come fuori del mondo» – va però precisato che i momenti estatici di Guerra del ’15 sono racchiusi nella rappresentazione quotidiana della tragedia che si sta compiendo, una tragedia che si abbatte sugli uomini che condividono la sorte di chi scrive.

Certo, colpisce la frequenza con cui, nel diario di Stuparich, lo sguardo si posa sul paesaggio, sulla natura, ricevendone conforto e momentanea compensazione ai mali della guerra.

Ma si tratta di ritagli, di parentesi, mentre l’universo del combattente rimane dominato dalla morte.

Esposizione alla morte, esperienza estatica

L’altro fattore che concorre a determinare quella che si configura come un’esperienza estatica, è l’esposizione alla morte.Nelle scritture della Grande Guerra, continui sono i riferimenti alla morte come unico orizzonte aperto: «[…] ci siamo accorti che in guerra, avanti tutto, si muore; poi si combatte, poi si vince o si perde […]» (Stuparich, p. 71, corsivo mio). I combattenti colgono con lucidità la loro condizione di morituri.

Tra le distinzioni del pensiero che il fronte dissolve, centrale – ricorda Leed – è infatti quella tra vita e morte (cfr. p. 33). La morte è per il soldato un’esperienza continua, «strutturale». La “morte” non è solo la prospettiva di perdere la vita – questione di centimetri, di attimi – ma è la condizione che indica il progressivo allontanamento dal mondo, percepito dal combattente. Se l’uomo, in guerra, si allontana dal mondo, va fuori dall’ambito delle certezze abituali, lo fa inmodo radicale.Entra nella condizione «liminare» che Leed definisce: «[…] l’esperienza di essere stati inviati oltre i limiti della vita sociale, posti fra il noto e l’ignoto […]» (p. 26, corsivo mio).

«Oltre i limiti»: nei diari e nella lirica, quella della Grande Guerra è spesso rappresentata come un’esperienza dai caratteri assoluti. «Vita assoluta» (l’espressione è di Jahier), per la riduzione all’essenzialità e l’esposizione alla morte. “Assoluta”, in quanto sciolta dai limiti,i limiti a cui è soggetta nella condizione ordinaria. Innanzitutto, sciolta dal limite dell’io,quell’io che ci radica nel mondo e che presiede alla nostra lettura del mondo. Ma è proprio la perdita dell’io a consentire l’approdo alla condizione «regressiva», all’identificazione del soggetto con la «realtà naturale» di cui parlava Fortini. Vedere il mondo senza più essere un “io”, dissolversi nel tutto e cogliere così ciò che sfugge alla percezione “ordinaria”: questo poteva accadere al combattente, esposto alla prolungata esperienza del superamento del limite che fu la Grande Guerra.

Colpisce che sia Stuparich, scrittore così poco incline a derive mistiche, a pronunciare, a lasciarsi sfuggire, le parole dell’estasi: «La vista di quassù è tale, che vorrei sciogliermi in quello che vedo, non esister più» (p. 166).Quello che rimane per Stuparich solo un istante di abbandono, mentre guarda dall’alto la sua città, è una condizione di cui ci danno testimonianza, in prosa e versi, molti scrittori della Grande Guerra. Particolarmente significativa è l’esperienza estatica vissuta dal tenente Robert Musil sul fronte austriaco, in Trentino, e narrata nel racconto Il merlo.

Comisso non deve nemmeno enunciarlo a chiare lettere: per tutta la durata dei suoi Giorni di guerra si muove in sincronia con la natura, è “sciolto” nel flusso dei fenomeni. Basterà qui citare soltanto l’avvio della scena della collina sull’Alto Isonzo: «Il vento […] mi accompagnò al solito posto e, appena mi distesi per terra, mi passò con tale tenerezza sul volto da farmi reclinare il capo, tra l’erba fresca […]». O ancora, la sequenza in cui, con un piccolo gruppo di soldati, Comisso cerca di raggiungere il comando dopo Caporetto: «[…] e noi dietro, decisi a fare presto, tra la bellezza dei boschi tutti rossi d’autunno, […] estasiando per fuggenti attimi lo sguardo sullo splendore di fiori azzurri, lungo il torrente che correva con noi» (pp. 117 e 145, corsivo mio). Il vento lo accompagna, il torrente corre al ritmo dei soldati. Comisso, in Giorni di guerra, non è più, come direbbe Lonardi, un io “in” natura, “è” natura.

Come emerge dai testi esaminati, la vicenda eccezionale e tragica della guerra – per la condizione in cui si sono trovati i protagonisti – sembra aver aperto la possibilità di vivere quella che diversi combattenti hanno avvertito come un’esperienza estatica, un’esperienza di superamento dei limiti.

Si tratta di una dimensione a cui l’essere umano può tendere come anelito (la letteratura ce ne offre innumerevoli esempi) ma che, in condizioni “ordinarie”,forse poteva essere dato sperimentare solo al poeta. In questo senso risultano illuminanti le parole che Musil rivolge ai soldati dalle pagine della «Tiroler Soldaten-Zeitung» nel 1916. In polemica con i «poeti delle retrovie», Musil invita a collaborare in particolare i soldati che non avevano consuetudine con la scrittura. «Non è necessario saper fare versi, per essere poeta; il poeta vede le cose come fosse la prima volta; ogni soldato che renda imparzialmente conto di quanto vede, diventa poeta» (Musil, La guerra parallela, p. 20). Vedere le cose «come fosse la prima volta» significa vedere al di là delle categorie, delle rappresentazioni. Ogni soldato diventa poeta quando «rende conto», come il poeta, del non rappresentabile.

Scrivere nello scenario di guerra: la scrittura come riappropriazione dell’io

Anche l’atto dello scrivere abbandona il luogo deputato, lo studio, e si trasferisce all’aperto, nel paesaggio. I combattenti che registrano l’esperienza in presa diretta sono costretti a scrivere su supporti di fortuna e in frazioni di tempo spesso brevi. Ne derivano conseguenze significative per la scrittura stessa.

Ma scrivere nello scenario di guerra assume un significato che investe il rapporto del soggetto con se stesso e con il mondo che lo circonda. Leggiamo alcuni passi del Giornale di Gadda: «Scrivonell’accampamento, davanti alla mia tenda, seduto sopra le cassette porta munizioni»; «la freccia della fig. 1. a (Gadda si riferisce ai disegni che accompagnano il suo diario) indica la direzione delle fucilate […] che mi passano a 1 metro sul capo, mentrescrivo» (pp. 109 e 113).

In questi passi lo scrivente fa esplicito riferimento all’atto dello scrivere. Nel capitolo La Grande Guerra: evento e racconto de L’officina della guerra, Gibelli, citando Furet e Ozouf, osserva che la scrittura (rispetto alla cultura orale) è un’operazione attraverso la quale l’individuo costruisce uno spazio «privato», interiore. Nel contesto di un’esperienza sconvolgente e spersonalizzante come la guerra, la pratica della scrittura può assumere dunque la valenza del costituirsi di un «soggetto separato dal mondo» e configurarsi, per il combattente, come una «riconquista di sé», una forma di «autodifesa» e di «resistenza» (Gibelli, pp. 61-63).

Questo atto appare ancora più significativo per i soggetti che non sono abituati a scrivere: gli illetterati e i semianalfabeti che in quell’occasione hanno sentito il bisogno di ricorrere alla scrittura.

Rimarcare, mentre scrive, l’azione dello scrivere sembra, da parte del soggetto scrivente, un’ulteriore affermazione del proprio “esserci”: scrivo, ci sono, resisto, anche in una condizione estrema come la guerra.

Punteggiate di riferimenti all’atto dello scrivere e di aperture sul paesaggio sono anche le pagine del Diario di trincea di Serra: ventisei fogli di taccuino, quattordici giorni di vita al fronte, sul Podgora. Quelle del Diario sono pagine che documentano la distanza tra la guerra attesa, analizzata nell’Esame di coscienza di un letterato (pubblicato su «La Voce» nell’aprile del ’15) e la guerra vissuta. Echi e riprese tra i due scritti sono stati rilevati dalla critica.

Lo stesso ricorso alla scrittura sembra subire oscillazioni nel breve volgere delle pagine. «Scrivo, guardando i monti intorno e il cielo velato di vapori di calore […]» (7 luglio); «Son qui a scrivere, nella mattina ancor fresca» (10 luglio); «Ricomincio: accoccolato presso la spalliera di sacchi […] col sole a piombo […]» (11 luglio); «Scrivo che è già buio […] Aggiungo […]» (12 luglio).

Sono enunciati che indicano il bisogno del ricorso alla scrittura. Ma, proseguendo, in data 13 luglio: «Finiamo la cronaca. Dormire, scrivere»; e il 15 luglio: «Giornata pigra, senza mangiare, senza scrivere. Sdraiato per terra, in un torpore […]». Annotazioni che rivelano la stanchezza e la rassegnazione di chi ha conosciuto, fin da subito, «il volto della guerra» e ha visto venir meno la «passione» che, solo qualche mese prima, aveva alimentato la sofferta decisione di aderirvi. Eppure, nella pagina del 18 luglio, quando il cerchio si sta per chiudere, Serra annota: «Poca voglia di scrivere – fin ché non si possa fare un po’ di bilancio: o chiusura». Affermazione che sembra auspicare la possibilità, il tempo, per tentare una revisione e affidarla all’operazione necessaria e chiarificatrice della scrittura. Rimane invece – nell’attesa dell’assalto – soltanto il tempo per un rapido, puntuale confronto tra quella che era la chiusura dell’Esame «Io sono contento, oggi» (Esame, p. 146) e la condizione presente «Che cosa resterà da fare a me? Esame di coscienza; triste» (Diario, p. 327). Segue quel segno trasversale che Serra ha tracciato soltanto nell’ultima pagina del taccuino, la sera del 19 luglio.

Le ultime parole di Serra sono però rivolte al paesaggio. Per tutto il diario lo sguardo di Serra aveva “cercato” il paesaggio visibile dalla trincea o nel bosco intorno, durante gli spostamenti. È uno sguardo che, dal terreno contaminato dalle tracce della guerra, si sposta verso l’alto: le fronde degli alberi, il cielo; verso una “natura” che sembra contrapporre la sua inalterata bellezza alla guerra.

Serra registra la diversa tonalità e consistenza del «verde»; i riflessi del sole sulle mani, sui volti, sull’erba; le variazioni del cielo, ora brillante e limpido, ora immobile, sospeso, associato al silenzio, al “nulla”, in un coesistere di coscienza di morituro e di «istinto del vivere, irresistibile», fino alle ultime parole: «Si fa sera, fra le nuvole e la luce fresca» (Diario, pp. 321 e 327).

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