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diretto da Romano Luperini

Particolarismo identitario e impotenza trasformativa. Considerazioni sul libro di Mimmo Cangiano

I. Demistificare l’ovvietà

Guerre culturali e neoliberismo (nottetempo, 2024) di Mimmo Cangiano, su cui è già stata avviata una riflessione su questo blog, è un libro esemplare per la ripresa saggistica della critica dell’ideologia. La critica dell’ideologia, va ricordato, implica la demistificazione dei luoghi comuni del pensiero dominante e dei dispositivi di costruzione dell’ovvietà. Viene, a esempio, attualmente percepito come “ovvio” che in economia il privato sia preferibile al pubblico, che l’uomo sia un animale naturalmente votato alla proprietà e alla concorrenza o che l’innovazione sia “migliore” della tradizione. La critica dell’ideologia muove dunque dallecontraddizioniinterne di una situazione data: spesso si limita a mettere in dubbio ciò che è dato per assodato. In una prospettiva materialistica, tuttavia, questa ermeneutica del sospetto tende a coinvolgere la dimensione della prassi.

Il saggio di Cangiano si propone di analizzare le implicazioni della Woke e delle cosiddette Cultural wars da una prospettiva materialistica (p. 10) e mette al centro la contraddizione “culturalista” che da tre o quattro decenni mina il pensiero e l’azione delle sinistre occidentali, determinandone la crescente subalternità: vale a dire l’accettazione del neoliberismo ‘in cambio’ dei diritti civili. Si tratta di un’ aporia che informa di sé il nostro inconscio politico e che implica lo “scollamento” (p. 24) fra cultura e economia: la prima, terreno di battaglia delle élite culturali, la seconda abbandonata all’egemonia del capitale. Il libro è il risultato dell’esperienza dell’autore nelle università americane, e si avvale di una bibliografia di prima mano pressoché sconosciuta in Italia, ma eccede di gran lunga tanto il quadro concettuale tipico dell’acquario accademico statunitense quanto l’ambito della polemica banalizzante sulla Woke o sulla Cancel culture degradate a feticci o bersagli dall’infotainment nostrano.

Woke, come è noto, è un aggettivo entrato nell’uso comune sull’onda del movimento afro-americano Black Live Matter e si riferisce allo “stare in stato di veglia” nei confronti delle discriminazioni razziali: più di recente il termine è rovesciato di segno dalle destre come sinonimo di dogmatismo, intolleranza e censura imposte dalle minoranze etniche o sessuali. La destra occidentale ha iniziato a bollare il “politicamente corretto”, le rivendicazioni multiculturali come “cultural marxism” (così come, più rozzamente, in Italia esponenti della Lega o di FdI invocano di farla finita con il “buonismo” o con l’“ideologia gender delle sinistre”); al contempo, è sotto gli occhi di tutti come sul piano concretamente politico e economico, il marxismo e le sinistre non sembrino avere più alcuna forza materiale di trasformazione dei rapporti sociali.La contraddizione generale messa in luce da Cangiano è dunque quella inerente l’impotenza rispetto all’azione trasformativa che soggiace alle cosiddette “guerre culturali”: in occidente è divenuto luogo comune percepire il radicalismo – e addirittura il marxismo – solo sul piano meramente simbolico. Secondo Cangiano,il primo rischio “è dunque che, mentre politicizziamo tutto, finiamo per depoliticizzare proprio l’economia, per cui possiamo vedere come correttivi concetti quali l’“inclusione” – cioè, la richiesta di partecipazione paritaria a un sistema che resta, tuttavia, basato sullo sfruttamento” (p. 34).

II. Tre esempi concreti

Questa contraddizione “culturalista” ha ricadute di ampia portata su fatti materiali inerenti svariati campi della vita associata. In generale, come argomenta Cangiano, l’odierno capitalismo riesce a colonizzare le differenze o le dinamiche identitarie, fino al punto da creare un marketing all’insegna del black, del pink o del rainbow washing

Un primo esempio specifico potrebbe riguardare il mondo della formazione: in una scuola e in una università sempre più aziendalizzate, i professori sono ormai letteralmente “parlati” dalle neolingua neoliberista (merito, competenze, facilitatore, talenti, competizione, soft skills, Pcto, Tutor, orientamento, Terze missioni, eccellenza, innovazione) ma trovano un risarcimento alla loro subalternità nell’“inclusività” o – in ambito umanistico – nella “libertà” di costruire insegnamenti e progetti di taglio interculturale, incentrati sulle diversità, sul queer, sul postcoloniale nonché sui temi “di eccellenza”, digital o green, finanziati dal Pnrr. Le parole-chiave della diversità o della decolonizzazione diventano repertori di slogan psicopedagogici, semanticamente accostabili alla sfera del marketing perché prescindono dalle concrete azioni, militari e finanziarie, con cui si custodiscono gli interessi della minoranza proprietaria del pianeta.

Un secondo esempio pertiene all’ambito del “mercato” elettorale: nel saggio di Cangiano si fa riferimento all’economista Paul Krugman che, fattosi ideologo della campagna di Hillary Clinton, ha sostenuto come la vera sfida per gli Stati Uniti consistesse nella “disproporzionalità razziale e culturale”, bollando il progetto di redistribuzione economica di Bernie Sanders come “un sogno impossibile” (p. 177). La messa in risalto neoliberale del binomio meritocrazia-inclusività a detrimento dell’eguaglianza sociale è la cifra dei programmi delle sinistre democratiche in occidente: non più volti a limitare i dislivelli ma a diversificarli, a offrire “opportunità” ai soggetti di “talento” o “emergenti” dei gruppi svantaggiati. In tal modo, il neoliberismo “progressista” ha proseguito le politiche economiche della destra liberale: è in base a questo postulato che, a esempio, il PD italiano ha appoggiato incondizionatamente nel 2021-22 il banchiere Mario Draghi, aprendo la strada alla vittoria di Giorgia Meloni.

Un terzo esempio è dato dal ruolo sedicente “inclusivo” giocato dalla finanza nella gentrification e privatizzazione delle città pubbliche, universalmente diffuso ma più evidente nel caso milanese dopo l’Expo2015. La creazione cioè dell’immagine di una metropoli globale a partire dalla comunicazione ideologica in cui tutte le diversità sono messe a valore come “capitale umano”: “i giovani possono percepire il proprio valore strategico come animatori della città, gli stranieri come garanti della multietnicità, gli Lgbti+ della diversity, i nerd come avanguardia di una potenziale Silicon Valley, (…) i volontari delle associazioni come promotori dell’identità dei quartieri e così via”. (cfr. Lucia Tozzi, L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane, Cronopio, 2023)

III. Semi di futuro

Le questioni poste da Guerre culturali e neoliberismo meritano di essere discusse da chi vorrà muoversi sul terreno della prassi. In un mondo segnato da una spaventosa crisi globale (povertà, respingimenti, disastro climatico, guerre) il “realismo capitalista” (Fisher) dichiara impotente ogni prassi incentrata sulla giustizia distributiva e concede visibilità alla giustizia del riconoscimento solo nei termini di un particolarismo identitario e “vittimario”. Cangiano, controcorrente rispetto ai luoghi comuni, afferma con Marx che “ogni relazione di oppressione è connettibile al quadro dello sfruttamento a fini di profitto» (p. 40). E, nei due capitoli conclusivi, propone di riattivare la categoria relazionale di classe contro quella individualizzante di identità: “La classe è un posizionamento sociale che, con tutte le possibili differenze interne (di genere, razza ecc.), accomuna un gruppo di persone nella forma in cui si relazionano al modo di produzione (vendita della propria forza lavoro ecc.); e come tale, la classe in cui una persona ricade non è necessariamente fissata per la vita: deriva da ciò che fai, non da chi sei” (p. 149).

Se l’approdo più alto del libro consiste nella demolizione materialistica della presunta obsolescenza del concetto di classe, si rende necessaria una verifica di questa coraggiosa linea di ricerca sulla base, a mio parere, dei seguenti tre enunciati provvisori:

1) la ragione dialettica e la critica dell’ideologia devono fare i conti con questioni rituali e simboliche non riducibili alla contrapposizione fra classi. Franco Fortini chiamava “limiti oscuri” gli ostacoli non superabili che il corpo, la morte, la malattia, il trauma sempre oppongono a ogni progetto umano, anche il più rivoluzionario.

2) Questi “limiti oscuri” nei nostri giorni sono tanto incombenti quanto rimossi: il senso stesso di nozioni come “Fine del mondo” e “Apocalissi culturali” messe a punto nel Novecento da Ernesto De Martino, è totalmente mutato, date per certe le conseguenze nel medio periodo della crisi climatica.

3) La forza di trasformazione della classe lavoratrice globale del XXI secolo è minata dalle frammentazioni (anche da quelle indotte dal “culturalismo”), al punto da essere poco percepibile al di fuori di alcune situazioni “controtempo” (a es. le lotte nel comparto della Logistica, quelle dei metalmeccanici statunitensi delle Big 3, il movimento Insorgiamo alla GKN…).

Occorre dunque connettere cultura e economia, le lotte di classe a quelle contro il patriarcato e il razzismo e, ancor più, alle lotte per l’accoglienza dei migranti e per la giustizia climatica, risemantizzando, come tenta di fare Cangiano stesso alla fine del suo libro, il concetto di intersezionalità: rileggendolo cioè materialisticamente “a partire dalla relazione che intratteniamo con produzione e mercato, non dalla condizione di vittima” (p. 168). Del resto, Sebastiano Timpanaro ha posto con lucida preveggenza il problema radicale, da cui oggi occorre ripartire: “se homo sapiens dimostrasse di essere una specie zoologica (…) incapace di eguaglianza e di autogoverno collettivo, la decadenza e la fine dell’intera umanità sarebbe definitivamente segnata, a scadenza non troppo lunga” (Antileopardiani e neomoderati, 1982, p. 327). L’inconscio politico egemone vieta di immaginare delle alternative alla forma di vita del capitalismo globale: questo scacco favorisce e riproduce tragiche contraddizioni materiali, fra cui lo sfruttamento sempre più acuto del lavoro, la guerra e la distruzione planetaria. Se smettiamo di leggere il presente secondo le categorie dell’esaurimentoe della fine e storicizziamo l’impotenza, potremo sgombrare il nostro sguardo attivo sul mondo fino a riconoscere intorno a noi esempi planetari, esili ma persistenti, di eguaglianza e autogoverno anticapitalista, federativo, femminista: come l’amministrazione autonoma del Rojavà o del Chiapas zapatista. Veri semi di futuro in un mondo che brucia, se Antonio Gramsci nel carcere di Turi poteva scrivere: “Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia”.

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