Forse, nella selva, la via più breve…
La Fortuna dei Lettori
A volte ci capita tra le mani il libro giusto al momento giusto. Lo avevamo cercato per altri motivi, ma poi succede che lo apriamo, iniziamo a leggerlo e ci accorgiamo – meravigliati – che il libro ci parla d’altro, risponde ad una domanda diversa rispetto a quella che ci aveva spinti a cercarlo e, guarda caso, ci regala proprio ciò di cui avevamo bisogno. È la fortuna dei lettori amorevoli che, talvolta, li bacia sulla fronte.
Recentemente qualcosa di simile è capitato a me e il libro cercato per altri motivi, ma che inaspettatamente sta corrispondendo ad alcune mie inquietudini, è un libro singolarissimo, composto in un frangente particolare da un uomo straordinario: “…quest’uomo dolcissimo sempre sull’alto delle barricate”, così Italo Calvino descriveva Carlo Levi nella sua recensione del Quaderno a cancelli (24 giugno 1979, Corriere della Sera) [1].
Il Quaderno a cancelli
Il Quaderno è venuto al mondo, si diceva, in una situazione singolare: Levi è ricoverato nella Clinica di San Domenico, a Roma, per un distacco della retina causato dal diabete; lo scrittore viene operato il primo febbraio 1973 (a questo seguirà un secondo intervento) e subito dopo la prima operazione inizia la composizione del Quaderno. Si tratta di una stesura faticosa, complessa, ardimentosa perché – è bene esplicitarlo – chi scrive (e disegna) lo fa da bendato, lo fa da caduto in una cecità imprevista.
Com’è stato possibile, per lo scrittore, riuscire a comporre mille pagine da un letto di ospedale e, soprattutto, limitato da una cecità improvvisa e spaesante? Gian Paolo Berto, allievo di Carlo Levi, fa approntare per il maestro – su sua richiesta – un telaio a cordicelle metalliche tese. Durante i difficili mesi del ricovero, lo scrittore bendato utilizzerà quotidianamente quel doppio telaio e alternando biro e lapis riempirà mille pagine, anzi, 999 perché l’ultima pagina, la millesima, ad eccezione della numerazione in biro blu, resterà totalmente bianca.
Lo strumento che consente a Levi di continuare a scrivere e disegnare è composto in realtà da due telai, uno incorniciato ai lati e vuoto al centro, l’altro attraversato da cordicelle metalliche; proprio queste cordicelle guideranno la mano sul foglio e la punta della biro/lapis lungo gli stretti corridoi delimitati dai fili tesi.
La malattia, il buio opprimente e straniero per quest’uomo impastato di colore, l’ennesimo scacco esistenziale (dopo la prigione, dopo il confino e l’esilio) vengono affrontati – in un corpo a corpo quotidiano – grazie ad una scrittura difficilmente decifrabile e che non mi interessa nemmeno tentare di definire. Tolte le bende dopo il secondo intervento, Levi deve indossare un bizzarro occhialino per rieducare la vista, occhialino che costringe l’occhio destro a seguire una direzione precisa, ad avere una visione del mondo (il suo letto, la stanza della clinica, lo scorcio del corridoio) ridotta e parziale, bidimensionale. Levi continua ad utilizzare il suo telaio anche in questa seconda fase – la fase dell’Occhialino – sperimentando una visione distorta della realtà che quasi sempre lo disturba, lo opprime, ma, talvolta, lo incuriosisce e lo spinge ad interrogarsi sulla differenza tra l’Occhio e l’Occhialino, sul rapporto tra il vedere e l’essere visti, sull’essenza della Visione: Levi continua a scrivere, a disegnare con quella “grafia ondosa” – amalgama vibrante – che testimonia, pagina dopo pagina, un coraggioso tentativo di orientarsi in quella situazione-limite che la vita gli ha ben apparecchiato e servito.
Carlo Levi cerca e trova un modo tutto suo, straordinario, potente, unico per orientarsi nel buio della cecità, nello spaesamento dettato dalla malattia, per reagire alle svariate limitazioni che lo impacciano, per dare forma al suo desiderio di affrontare quelle questioni che lo tormentano da sempre. Ne esce il Quaderno a cancelli, un vero e proprio esperimento di Orientamento del Sé (della mano, del corpo, della mente, dell’anima, del Geist o di quel che volete voi). Così scrive Levi, grazie al suo telaio doppio, grazie alle esili cordicelle metalliche (quanto le avrà amate e detestate?) e alla sua ostinata determinazione:
“…è difficile essere certi delle cose vaghe e che sono belle e certe proprio solo per la loro vaghezza e incertezza, e la cui profondità è tanto immensa quanto più rischia di essere più sottile e trapunta di una ragnatela.”
Un Carlo Levi messo all’angolo, disorientato come chiunque sarebbe stato al posto suo, spaesato e incerto come chiunque si trovi nel corso della vita – bambino, ragazzo, adulto – ad affrontare situazioni difficili, crisi, guadi, bonacce insidiose, crocevia decisivi; un Carlo Levi che impugna la biro, si fa costruire uno strumento che possa aiutarlo a tenere il filo (meglio, il segno) e, imparando a riconoscere il tocco lieve delle cordicelle tese e ad orientare la punta della penna sul foglio, ricama il suo Quaderno bello di una bellezza vaga, incerta, profonda. Mi pare di vederlo: l’intreccio che risulta dalle cordicelle del telaio e dai segni sottili dello scrittore, la traduzione grafico-pittorica dello sforzo dell’uomo di orientarsi nello spazio, nel tempo (il suo, quello personale e quello storico), nel buio, nella Futilità, categoria centrale del Quaderno.
Superato il secondo intervento e conclusa la fase dell’Occhialino (“…occhialino di censura, di protezione taumaturgica, ansiolitico, terapeutico, protettivo, censurante, amministrativo, allergico e antiallergico, difensivo, paternalistico, senatoriale, burocratico, luiginiesco, fanatico, poliziesco, mistificatorio fino a essere anche quello che è ora per me, un apparecchio di difesa, che impedisce ogni movimento che può essere Dannoso o Pericoloso…”) si apre una terza parentesi – dentro e fuori la clinica – caratterizzata dall’uso degli occhiali e dalla rieducazione alla “visione sana”; l’itinerario di Levi è sintetizzabile, quindi, nei seguenti passaggi: cecità improvvisa, primo intervento, bendaggio, Occhialino, secondo intervento, bendaggio, Occhialino, dimissione, Occhialino, occhiali, visione che si fa gradualmente più nitida. Sembrerebbe una risalita, una guarigione, un ritorno alla luce, all’aperto: “…ma nessuno potrà far sì che per un certo tempo, più o meno lungo, non abbia visto affatto, e che per un tempo più lungo abbia visto, e sia ancora destinato a vedere, male, e che questo fatto non possa più essere dimenticato”.
Carlo Levi, dimesso e in fase di guarigione, medita la sua convalescenza, fatica a dismettere l’uso del telaio, tentenna nel riconoscersi guarito: “Così, non sapendo se gli occhiali autorizzati mi daranno un grado sufficiente, un angolo sufficientemente chiaro del mondo, se l’uscita sarà ad ogni modo possibile, esito sulla soglia, e accenno soltanto a guardare, di qua e di là”. Non lo sa lui, lo scrittore, se e come sia avvenuta la guarigione, se il tentativo di orientarsi grazie al telaio sia riuscito e, se non lo sa lui, sarà ben difficile che lo possa sapere qualcun altro. Il tentativo è stato realizzato da chi poteva e doveva tentare, da chi – solo – poteva e doveva trovare un modo di attraversare il guado; nessuno avrebbe potuto sostituirsi allo scrittore: non la donna amata, nemmeno gli amici più cari perché orientarsi è un’azione (una serie di azioni, in realtà) che il soggetto deve compiere da sé, è un atto che ha senso e può “riuscire” soltanto se il soggetto lo esercita e, nel farlo, determina i tempi, i modi e i mezzi che risulteranno necessari ad orientarsi (lasciando uno spazio non esiguo al caso, spazio che Levi ha ben presente e tiene in debito conto). Andando oltre le riduttive categorie della riuscita-successo e del fallimento-insuccesso, il tentativo di Levi di orientarsi appare come una testimonianza di resistenza (l’ennesima, nel suo caso), di guerriglia, un venir a ferri corti con il buio, la visione distorta, l’Occhialino, gli Allergici, la Futilità: impressionanti le immagini che prendono forma e fluiscono nell’alternarsi di prosa e poesia (“…viaggio all’incontrario/che riporta al fantastico e vario/in questo nero sillabario/si reimparano le forme consuete/come si prendono con la rete/i pesci nell’acquario”), impressionante la capacità di produrre categorie concettuali luminose come icone contemporanee (vincono su tutti, per me, i Fanti lestofanti, “gli adulti non adulti ma adulterati, deformati in Minanti Bufanti Furfanti”, quei Falsoparlanti che non lo sanno che “non siamo al mercato, dove le parole si possono pesare e vendere e comprare e misurare col metro e le bilance. (…). Non c’è misura né parte per il tutto che è la vita: ma i falsoparlanti (i bisognosi, i vuoti, i letterati, i morti) la rodono, divorano e, senza neppure accorgersene, la distruggono”).
Ma mi sto perdendo e, forse, servirebbero anche a me delle cordicelle tese, dolci e ferme allo stesso tempo, cordicelle metalliche che non mi facessero deragliare e mi aiutassero ad insistere su quanto vorrei mettere in risalto e, cioè, che quello di Levi è un formidabile esercizio di orientamento, un libro ardente che dovrebbero incontrare e conoscere tutti, soprattutto i miei studenti, tutti gli studenti!
A ciascuno il suo (Telaio)
Il Quaderno – fortunata lettura – ha risposto ad una serie di domande che da mesi andavo ponendomi, ne ha sollecitate di nuove, ha dato forma – esperienza tanto consolante quanto preoccupante – alle mie inquietudini, mi ha permesso di rivedere sotto una nuova luce e di amplificare ulteriormente quelle perplessità che già da tempo andavo formulando e condividendo con i miei colleghi (colleghi talvolta esasperati dai miei ripetuti tentativi di mostrare come dietro la rassicurante retorica dell’orientamento, dell’aiuto, del supporto, della facilitazione, dietro un linguaggio che trasforma in questione amministrativa-burocratica il tema esistenziale dell’orientamento e lo riduce a collocamento-adeguamento-consulenza, dietro al paravento dell’estetica luminosa e sorridente di Unica si aprano scenari tutt’altro che rassicuranti e che meriterebbero, almeno, di essere considerati e vagliati).
Se il nostro tempo è il tempo di Unica (il tempo dei servizi personalizzati e del portfolio digitale) può darsi che il Quaderno risulti essere un ottimo antidoto, un talismano da utilizzare ogniqualvolta ci ritroveremo a fare i conti con una concezione riduzionista e procedurale dell’orientamento, ogniqualvolta staremo per cadere nel tranello e ci sembrerà che possa esistere una soluzione uguale per tutti, una via uguale per tutti, un modo unico per tutti, strumenti adatti a tutti per conseguire un qualche traguardo, ogniqualvolta – insomma – scalzeremo il Soggetto che deve orientarsi da sé e scivoleremo nella tentazione dell’Occhialino.
Ma l’Occhialino, oggi, che forme assume? Come si manifesta? In che modo opera? Come riduce, distorcendola, la natura complessa dell’Orientamento? Un solo, piccolo, esempio:
L’E-Portfolio “consente, da un lato, di mettere in evidenza le competenze digitali di ogni studente ed eventualmente accrescerle anche con appositi interventi di sostegno da parte delle istituzioni scolastiche e formative; dall’altro lato, di valorizzare le competenze acquisite, di avere a disposizione le più importanti prove di una trasformazione di sé, delle relazioni con la cultura, il sociale, gli altri e il mondo esterno, a partire dal mondo del lavoro e del terzo settore.” (Linee guida per l’orientamento, DM 22/12/22, p. 5)
L’E-Portfolio – parliamo di documentazione digitale, inserita nella Piattaforma Unica, con la medesima struttura, le medesime richieste di compilazione, le medesime caratteristiche formali, gli stessi campi da riempire con la certificazione delle competenze – metterà a disposizione dello studente (dei genitori e degli enti accreditati a consultarlo) “le più importanti prove di una trasformazione di sé, delle relazioni con la cultura, il sociale, il mondo esterno…”.
Vorrei ribadirlo, vorrei che tutti gli studenti, i genitori, i docenti, gli adulti si fermassero per un momento a rileggere e meditare queste parole che, lo ripeto, si trovano nelle Linee guida per l’Orientamento e contribuiscono a definire la concezione di orientamento che, per l’appunto, funge da fondamento (non discusso) di tutta l’operazione:
avere a disposizione
le più importanti prove
di una trasformazione
di sé
Nell’E-Portfolio? Nella raccolta stratigrafica delle competenze certificate? Nella scelta critica del Capolavoro dell’anno?
Pare di sì. Pare che nell’E-Portfolio e, per esteso, in tutta Unica sia possibile raccogliere, documentare e, quindi, avere a disposizione
le
più
importanti
prove
di
una
trasformazione
di
sé
Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi, e mi pare che avesse proprio ragione: quando le rileggo – le parole scandite sopra, in successione verticale – mi sembra che mi colpiscano come una di quelle sassaiole che talvolta si scatenavano nel lunghi pomeriggi delle vacanze estive. Bum, bum, bum!
Un dolore sordo, bruciante. Mi copro la testa con le braccia, mi ingobbisco per schivare i colpi, spero che finisca presto, ma ho come l’impressione che – a differenza delle baruffe tra bande di bambini – questa sassaiola venga da lontano e sia destinata a non finire presto.
Se affermo che l’E-Portfolio può mettere a disposizione le più importanti prove della trasformazione di sé e che può, quindi, svolgere una funzione orientativa, quale sarà – che io lo sappia o meno – la concezione di orientamento sottesa alla mia affermazione?
Una concezione di orientamento che, per lo meno, si caratterizza attraverso questi assunti: l’orientamento come azione che possono compiere Altri a differenza dello Studente che dovrebbe orientarsi; l’orientamento come ingrediente formativo scorporabile da situazioni concrete e governabile attraverso procedure; l’orientamento come insieme di attività determinabili a priori come orientanti (pacchetti di ore ed esperienze); l’orientamento come adeguamento a richieste già formulate, a domande già poste, a soluzioni già previste; l’orientamento come processo che dovrebbe guidare lo studente verso il successo formativo e la transizione all’età adulta evitandogli la caduta, l’errore, lo smarrimento, la dispersione, i vicoli ciechi – insomma – ogni rischio reale.
Mi fermo non perché non si possa proseguire, ma perché oltre ai sassi di prima, mi pare di farmi del male da sola, rigirando il coltello nella piaga.
Si è avvertito l’attrito? Si è percepita la dissonanza tra il Quaderno come esercizio singolare (non potrebbe essere altrimenti) di Orientamento del sé e la visione di orientamento che emerge dalle Linee guida e da Unica? Personalmente ho avvertito nettamente una sensazione che non riesco a scrollarmi di dosso, una sensazione simile a quella dell’aceto che mia nonna versava sulle mie “ferite da sassaiola”.
Ho deciso: la prossima volta in cui mi troverò a discutere con un Minante Bufante Furfante, con un Falsoparlante che confonde l’esercizio rischioso dell’orientamento con altro, qualcuno che presume che una piattaforma unica possa guidare a costruire un progetto di vita, che un E-Portfolio possa mettere a disposizione evidenti prove della trasformazione di sé, ecco, tirerò fuori dalla tasca (non la fionda che usavo nelle famose sassaiole, perduta chissà dove) il mio talismano e leggerò ad alta voce:
“Ma, anima liquida, resta tale,
non ti aggrinzire, non fare rughe
non ti fermare, non nasconderti
nelle tue pieghe, non solidificarti
troppo presto, non chiuderti, non
coprirti, come il latte scremato e
raffreddato di sottile e arida tela!
Tela bianca, bianca vela
vento, distendila e spiegala
e se mi accusi di usare
le rime più comuni
e di rimare
amare con mare
allergia con tirannia
e cuore con motore
perdona la facilità
di chi non vede.
Se in questo tempo importa soltanto
un difficile equilibrio di tensioni
e di abbandoni.”
(Quaderno a cancelli, p. 219)
[1]Edizione di riferimento: Carlo Levi, Quaderno a cancelli, Einaudi, Torino 2020. Il titolo del presente contributo è citazione parziale di un’affermazione di Levi che troviamo a p. 278 (“Forse, nella selva, la via più breve non è quella retta e chiara.”
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