Una storia ordinata: il Cantico uno e trino di Francesco
Il letterato e lo storico
Esiste una strana distorsione che induce a credere che la storia sia il fondale da cui emergano come degli altorilievi i testi letterari, i quali, secondo altri, al contrario, riescono a mala pena a distinguersi dal fondale, poiché, anche se suggestiva, si tratta soltanto di una pittura tono su tono. Per quanto schematica, è questa la posizione di solito assunta dai fautori del primato delle lettere, contrapposti ai difensori della primogenitura storica della realtà.
Per chi insegna, si tratta di una dicotomia di comodo che nulla ha a che fare con la realtà testuale, che è un prodotto storico, come la cultura lo è nella sedimentazione temporale di emozioni e convincimenti delle generazioni umane.
Se è per tutti ovvio, tramontato lo strutturalismo più dogmatico e radicale, che il testo letterario non è un’entità atemporale, non appare a tutti evidente che ogni testo letterario conservi nella sua forma i segni del suo tempo. La storia, cioè, non è soltanto il contesto esterno al testo, il tempo dell’autore, o la scena in cui si muovono i personaggi, il tempo della narrazione, ma essa è la forma in cui – in un determinato tempo – un contenuto può diventare riconoscibile e dunque socialmente fruibile. È la forma che ci rende immediatamente percepibile, ancor prima di assumerne il contenuto, se un testo è medievale, ottocentesco o contemporaneo.
Vorrei offrire in questo scritto un esempio di riconoscimento della storia nel testo, osservando la forma del Cantico di Francesco, il cui contenuto è evidentemente religioso e dunque, nell’intenzione dell’autore, estraneo alla storia (per quanto la storia negata sia fortemente presente: basti ricordare l’implicita ed evidente polemica con l’eresia catara che ha in odio il mondo e la natura).
La forma medievale del bello
L’estetica medievale considera l’ordine il segno della presenza benefica del Creatore nel creato, tanto quanto il disordine la manifestazione della presenza del Gran Nemico, che confonde l’uomo e lo fa perdere. Se Dio ha disposto «omnia in mensura, et numero, et pondere», come recita un celebre versetto della Sapientia (alla base della filosofia di Agostino e della concezione scolastica di Bello e Buono), non è ragionevole pensare che Francesco, nell’innalzare una lode al «bon Signore», abbia utilizzato una struttura disarmonica, asimmetrica, irregolare. Perciò costituisce un problema questo testo medievale che appare costituito da strofe di varia lunghezza distribuite senza alcun evidente criterio organizzativo. Accantonate per il momento le obiezioni dell’arcaicità del testo e della incompetenza letteraria di Francesco, di cui non mi occuperò qui, una prima risposta è rintracciabile nella musica, la cui congetturale presenza appare suggerita dal ritmo, oltre che dal rigo musicale su tre linee (in cui il copista non ha trascritto le note), che precede il primo versetto del Cantico,nel codice più antico che possediamo, conservato nella Biblioteca comunale di Assisi. Ma possiamo vedere una organica e forte rispondenza interna se ci affidiamo alla numerologia, il sistema genetico della forma medievale. Se dividiamo per 3 i 33 versi, otteniamo tre ordinate sezioni di 11 versi, ognuna delle quali costituita da 4 delle 12 strofe totali. Se assegniamo ai 7 distici la lettera X, alle 3 terzine la lettera Z, alle due pentastiche la lettera Y, otteniamo:
XXYX – ZXZZ – XXYX,
disposizione che disegna, all’interno di ciascun gruppo, la struttura 3 + 1 e che risponde perfettamente alle necessità di organizzazione armonica e proporzionata di un discorso fondato su canoni estetici medievali (numero e simmetria). Inoltre viene confermata la assoluta compenetrazione di 3 (le sezioni; i movimenti?) e 4 (le strofe contenute). La Trinità e Dio, la croce come indicazione dei quattro punti del mondo: homo quadratus per Francesco è Cristo, l’uomo in croce, il senso della vita.
L’ordine ternario
Ognuna delle tre sezioni risulta fortemente omogenea. L’evidenza ci detta la constatazione che la prima riguarda il CIELO,
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’ è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
la seconda la TERRA,
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sostentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
la terza l’UOMO
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ’l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime volutati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
Sono le parti, diverse e concordi, che compongono l’universo. Tre le parti, uno l’universo, perciò la somma delle parti è uguale a uno. L’unità di un testo diviso in tre sezioni è la più lampante e immediata rappresentazione concreta dell’inconcepibile unità di Dio in Padre, Figlio e Spirito Santo. Tanto più che Dio è il Signore del cielo e della terra che si è fatto uomo. Questo è uno dei significati rintracciabili nella forma: ma un testo medievale è polisemico, non per artificio retorico, ma per «l’insicurezza» che tormenta gli uomini del XIII secolo: «Il loro grande turbamento viene dal fatto che le cose non sono realmente quello che sembrano.» (Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale). L’angoscia esistenziale si trasforma in abito mentale allegorico (le cose significano un’altra cosa) e si cerca rassicurazione in un’auctoritas.
Adalberone di Laon, intorno al 1015-1020, aveva descritto la notissima struttura tripartita della società, che – «come tema letterario e ideologico» – non solo è ancora vitale nel corso del XII e del XIII secolo, ma si ritrova «per molto tempo ancora» (Le Goff). Francesco, nell’utilizzare uno schema tripartito, disegna la società universale – ternaria – che «forma un solo corpo» (Adalberone):
- CIELO – la ‘classe dirigente’ del creato – (i grandi):
– Dio (l’Altissimo, che è Signore assoluto, Dominus),
– il sole (messor, dominus: il Papa, secondo Innocenzo III),
– la luna (per Innocenzo III è l’Imperatore)
– e le stelle (i re, i nobili?);
- TERRA – l’ordine intermedio – (i medi):
– aria,
– acqua,
– fuoco,
– terra,
secondo Adalberone costituito dai «protettori delle chiese», dai «difensori del popolo, dei grandi come dei piccoli, di tutti». Il trait d’union tra Cielo e Uomo non può che essere «nostra matre» Chiesa (sposa del Papa), la quale, nella concezione di Francesco, deve svolgere, in primo luogo, quella funzione di protezione e difesa che Adalberone assegna ai bellatores. Secondo Francesco la Chiesa è (deve essere) costituita da coloro che combattono per Cristo;
- UOMO – fatto di cielo e terra, soggetto a cielo e terra – (i piccoli):
- quelli ke perdonano,
- quelli ke sopporteranno,
- quelli ke morranno in peccato mortale,
- quelli ke morranno seguendo la volontà del Signore,
«l’altra classe» – scrive Adalberone – «è quella dei servi». La classe più bassa è quella dei ‘minori’, dunque quella dei frati Minori, che, secondo la volontà di Francesco, per usare ancora le parole del vescovo di Laon, «non possiedono nulla se non a prezzo del proprio lavoro». È noto che nei suoi scritti Francesco si definisce costantemente «servus» di Dio e di tutti, e che invita i suoi fratelli ad essere umili, a collocarsi sempre nella posizione infima, a non possedere nulla ed a guadagnarsi il cibo lavorando, come stabilisce fino alla fine nel suo inascoltato Testamento.
«La casa di Dio, che è creduta una, è dunque divisa in tre» – afferma Adalberone – e le tre parti non soffrono la loro separatezza, anzi mantengono unito l’insieme «ed è così che la legge ha potuto trionfare e il mondo può godere la pace.»
Francesco non crede che questo mondo sia il regno della legge e della pace (se lo fosse, la vita non avrebbe valore di testimonianza: se non c’è croce, non c’è resurrezione), ma appare convinto che l’universo (di cui questo mondo è una parte) sia un organico sistema tripartito.
Le forme e la storia
Lo schema del tre è una struttura mentale, sociale, un tema letterario anche, presente nel Cantico non perché esista un diretto rapporto intertestuale con il Carmen ad Robertum regem. Il tre e la numerologia, come le forme e la geometrizzazione, sono fatti culturali, storicamente dati, che sussistono in quanto fenomeni di mentalità, modi di porsi nei confronti del mondo e della realtà. Ci sembrano strumenti primitivi, inservibili, se oscuriamo la nostra diversità, diventano indispensabili se vogliamo comprendere la realtà di un mondo scomparso. Recuperare il significato di un testo medievale è far emergere un modo di pensare che abbiamo seppellito nella nostra cultura, è dare voce a uomini, atteggiamenti, attitudini, gesti, che altrimenti sarebbero irrimediabilmente perduti.
Appartenere a un gruppo, a una comunità, a un sistema qualsivoglia, sentirsi parte di un ingranaggio perfetto che riproduce in ogni sua parte qualcosa di più grande, immortale e infinito, è il mezzo escogitato dall’uomo medievale per esorcizzare e dominare la propria insicurezza (fisica, materiale, morale, spirituale). Nell’epoca di Francesco il bisogno di rassicurarsi è tanto più impellente in quanto l’insicurezza fondamentale, relativa all’altra vita, è resa più angosciante dall’alternativa ancora secca: Inferno o Paradiso. Il secondo Concilio di Lione (1274), con la nascita del Purgatorio, sancirà la perfetta simmetria tra microcosmo e macrocosmo, tra società umana e aldilà, e toglierà agli ultimi (i servi) la consolazione di poter essere i primi. Francesco, che tante amarezze dovette provare nell’ultima parte della sua vita, non avrebbe potuto immaginare che la Chiesa, nei confronti della quale si obbligò, in tutta umiltà, ad assoluta obbedienza, avrebbe provveduto così a disinnescare la portata rivoluzionaria dell’imitazione di Cristo: con il Purgatorio non ha più senso sopportare l’estrema sofferenza. Porti la croce chi è in grado di farlo, chi non è «un atleta» potrà sfruttare i tempi supplementari.
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