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diretto da Romano Luperini

Dante, gli amici e i poeti. Un percorso tematico per il Purgatorio

La seconda cantica della Commedia è probabilmente quella che soffre di più la lettura scolastica tradizionale, canonica, “crociana”, che si valorizza, soprattutto nell’Inferno e e nel Paradiso, singoli canti memorabili, imperniati su incontri con personaggi indimenticabili come Farinata, Ulisse o Piccarda Donati. Ciò accade sia per la struttura narrativa quasi romanzesca del Purgatorio, i cui canti sono strettamente legati l’uno all’altro, come a blocchi (ad esempio, tutta la sezione dei canti “antipurgatoriali” dal III all’VIII, in cui è evidente anche il fil rouge della tematica politica), sia per l’impianto corale della cantica stessa – caratteristica ampiamente sottolineata da tutti i commentatori – che lascia meno spazio agli “assoli” individuali.

Nell’atmosfera corale ed elegiaca della cantica ha grandissima importanza il tema dell’amicizia, «sentimento ignoto all’Inferno, quel sentimento che sulla terra, tra gli uomini, porta il segno tipico della gratuità», in virtù della quale tutte le anime che sostano nelle sette cornici (e non solo gli amici personali del poeta come Casella, Belacqua, Nino Visconti e Forese Donati) possono essere considerate tali, perché tutte pervase da quel sentimento (A. M. Chiavacci Leonardi). Accanto all’amicizia, nell’ascesa purgatoriale del sommo poeta ha grande spazio l’arte, espressione più alta e gratuita dell’intelletto umano e parte fondamentale della vita terrena di Dante stesso, che è qui sottoposta ad un profondo ripensamento in vista dell’incontro conclusivo con Beatrice, la quale saprà fare totale chiarezza di tutti i dubbi e le incertezze sorti nel corso del cammino nei regni dell’oltretomba. Il secondo regno è infatti il luogo (e il tempo) della purificazione delle tendenze peccaminose (o meglio, dei “vizi nell’amore”, secondo la teoria di San Tommaso), non solo da parte delle anime purganti, ma anche da parte del Dante-personaggio, sulla cui fronte l’angelo portiere incide infatti le sette “P” corrispondenti ai vizi capitali. Non è dunque un caso che, durante la salita verso il giardino dell’Eden, egli incontri, così di frequente, anime che sono legate a doppio filo con la sua passata esperienza poetica: il percorso di meditazione sulla propria esistenza terrena e di espiazione delle tendenze peccaminose, tra le quali primeggia la superbia intellettuale (tema che infatti percorre tutta la cantica come un fiume sotterraneo, riaffiorando molteplici volte) non può essere disgiunto dalla riflessione sulla propria arte: anzi, anzi, offre lo spunto per ripercorrere, ripensare e, conseguentemente, superare l’intera produzione letteraria anteriore al “sacrato poema”.

Per questo motivo mi sembra possibile e didatticamente fruttuoso optare, ai fini della lettura e analisi in classe, per un percorso antologico tematico che ripercorra i numerosi incontri che Dante ha con amici e poeti. Il percorso può essere però realmente efficace ed apprezzato solo se, durante il terzo anno, sono state affrontate, almeno schematicamente, tutte le fasi della produzione poetica dantesca, giovanile (siciliana, provenzale e guittoniana), stilnovistica (dentro e fuori la Vita nova), comica, petrosa e filosofico-dottrinale, così che la classe sappia riconoscere ciò che viene ripensato e messo alla prova nel percorso ascensionale; allo stesso modo, sarà utile aver già sottolineato, nel corso della lettura dell’Inferno, il ruolo delle parole che il poeta rivolge a Virgilio nel canto I (vv. 79-87), il giudizio – seppur moderato dalla pietà – sullamor cortese e i roman cavallereschi nel canto V, l’assenza cavalcantiana del canto XI (su cui la critica ha speso fiumi d’inchiostro), la presenza del poeta siciliano Pier delle Vigne  nel canto XIII. La classe si può così rendere conto (di solito con grande partecipazione, poiché si riattivano conoscenze pregresse) che tutta la Commedia è intessuta di rimandi poetici e letterari che non possono essere trascurati e che solo un attento lavoro di programmazione “verticale” delle letture dantesche riesce a mettere in evidenza, collegando fruttuosamente il lavoro del terzo e del quarto anno.

Ecco i passi che formano la scelta antologica, con una sintetica analisi degli elementi su cui soffermarsi.

Canto II, vv. 77-133, il musico Casella

Sulla spiaggia del Purgatorio Dante incontra l’amico Casella, appena sceso dal «vasello» dell’angelo nocchiero, che lo riconosce e cerca di abbracciarlo mostrandogli subito «sì grande affetto»; l’abbraccio con un essere incorporeo è impossibile (evidente citazione dell’incontro tra Enea e Anchise in Eneide VI), ma il gesto avviene in un’atmosfera di dolcezza rarefatta: Casella «sorride» e chiede «soavemente» a Dante di spostarsi un poco dalle altre anime per poter parlare. Le sue parole confermano l’immutabilità del sentimento di amicizia anche oltre la morte (vv. 88-89) e la risposta di Dante, che esordisce con un possessivo («Casella mio») lo confermano. Dopo che entrambi hanno chiarito la propria condizione, Dante chiede all’amico se egli possa ancora intonare «l’amoroso canto/che mi solea quetar tutte mie voglie», e Casella attacca  Amor che ne la mente mi ragiona, mentre tutti ascoltano «sì contenti/come a nessun toccasse altro la mente». È piuttosto chiaro il significato allegorico di questo passo: la musica e la poesia (e l’arte, in generale) sono in grado di consolare e distogliere gli esseri umani dalle proprie ansie e preoccupazioni; ciò vale ancora di più per la filosofia, la «donna gentile» a cui Dante si era rivolto dopo la morte di Beatrice e a cui è dedicata la canzone (scritta per il III libro del Convivio) cantata da Casella. Altrettanto chiaro, allora, apparirà anche il gesto di Catone che disperde gli «spiriti lenti» delle anime intente ad ascoltare (e l’Antipurgatorio è proprio il luogo della lentezza e della negligenza nel pentirsi): la bellezza dell’arte e l’amore per la poesia e la filosofia non possono rallentare il cammino di purificazione spirituale.

Canto XI, vv. 77-126, il miniatore Oderisi da Gubbio

Sono ben tre i canti dedicati alla cornice in cui purifica la tendenza peccaminosa della superbia, che Dante certamente si riconosce nella variante specifica della superbia intellettuale (basti ricordare l’auto-ammonimento di Inferno XXVI, vv. 19-24 in cui il poeta si invita ad «affrenare l’ingegno»); forse per questo motivo il tema della vanità della fama è lasciato alle parole del celebre miniatore Oderisi da Gubbio, in un monologo tutto costruito sull’alternanza di exempla e sentenze morali.

Egli, riconosciuto e lodato da Dante per la sua perizia, innanzitutto cede «l’onore» ad altri, per poi lamentare la «vana gloria de l’umane posse», che resta verde sulla cima (del ramo) per poco tempo, se non è seguita da età di decadenza. Si innesta qui un doppio parallelismo che fa riferimento al grande rinnovamento artistico dell’epoca di Dante: come la fama di Giotto ha oscurato, nella pittura, quella di Cimabue, così quella di Cavalcanti ha superato, nella poesia, quella di Guinizzelli; ma anche questa gloria è temporanea, perché è nato chi le oscurerà entrambe. Tutti i commentatori sono concordi nell’identificare questo personaggio in Dante stesso, e parrebbe davvero incoerente una tale dichiarazione di superbia se non fosse immediatamente seguita da una lunga invettiva sulla caducità del «mondan romore» (ovvero della fama che passa di bocca in bocca), paragonato ad un «fiato di vento», mutevole ed effimero rispetto alla durata dei movimenti celesti. Ne è esempio uno dei compagni di penitenza di Oderisi, il politico e condottiero Provenzan Salvani, il cui nome echeggiò in tutta la Toscana e di cui ora «a pena in Siena si pispiglia». Chiude il monologo di Oderisi una sentenza senza appello: la risonanza di un nome è come l’erba verde, che ingiallisce presto e si secca proprio ad opera di chi (il sole, ergo il passaparola) l’ha fatta nascere. A queste parole, Dante, mesto, non può che ammettere il suo «gran tumore» (ovvero il gonfiore della superbia) e affermare che le parole dell’artista gli infondono in cuore una grande umiltà – la stessa simboleggiata dal giunco che egli ha cinto nel canto I. Si noti nel testo la presenza di due metafore ricorrenti: quella del colore verde di piante ed erbe, che indica il rigoglio della fama destinato però ad ingiallire, e quella della voce («fama» ha la stessa radice del verbo latino for, faris, fatus sum, fari: dire, annunciare), rimarcata dalla ricorrenza dello stesso campo semantico («grido», «romore», «fiato», «voce», «sonò», «pispiglia», «nominanza») che, non casualmente è lo stesso dell’espressione «gloria de la lingua» (v. 98) che indica proprio il campo in cui, forse, primeggerà lo stesso Dante.

Canto XXI, vv. 77-117, e canto XXII, vv. 55-99, il poeta latino Stazio

Sulla quinta cornice, quella degli avari e dei prodighi, dopo aver sentito una forte scossa di terremoto accompagnata dall’inno Gloria, Dante e Virgilio incontrano un’anima, la quale prima spiega che il terremoto è il segno della propria liberazione dal peccato, e poi si presenta: è il poeta latino Stazio, e proprio in bocca a lui Dante mette un doppio elogio di Virgilio, che completa quello di Inferno I, chiudendo il cerchio prima dell’addio al maestro, che avverrà nel giardino dell’Eden, sulla cima del monte.

Stazio dice di essere stato conosciuto «con nome che più dura e più onora», ovvero quello di poeta, ricorda le sue opere principali, la Tebaide e l’Achilleide, e aggiunge che la «divina fiamma» della sua ispirazione poetica fu accesa grazie all’Eneide «onde sono allumati più di mille»: il poema virgiliano ha avuto per il suo poetare il ruolo di una madre (che ha il potere di generare) e di una nutrice (che lo ha nutrito e lo ha alimentato), tanto che sarebbe (ed è un’iperbole quasi blasfema) disposto a rimanere ancora un anno sulla cornice se gli fosse stato possibile conoscere Virgilio. È chiaro che qui è Dante che parla per interposta persona: anche lui si è abbeverato al fiume dell’eloquenza virgiliana (Inferno I, vv.79-87) e si è acceso d’amore per la poesia leggendo le sue opere. Le parole di Stazio, che non sa ancora di aver risposto proprio a Virgilio, fanno sorridere Dante: chiarita la situazione, il poeta latino, dimentico dell’incorporeità delle anime, si china ad abbracciare i piedi del suo ispiratore. Il Purgatorio, però, è il luogo dell’umiltà, dove non esistono superiore ed inferiore e dove la gloria terrena non ha alcun valore, infatti Virgilio invita Stazio a rialzarsi, chiamandolo «frate»: così, anche dove celebra la gloria di colui che era considerato il massimo poeta di sempre, Dante ci (e si) ricorda che essa, nell’oltretomba, è priva di significato.

L’elogio del poeta mantovano, però, non termina qui: nel canto successivo, mentre i tre poeti proseguono il loro cammino ascensionale, Virgilio chiede a Stazio «qual sole o quai candele», ovvero quale intervento divino o umano, l’abbiano illuminato sulla strada della conversione, dal momento che nelle sue opere non compare alcuna traccia di fede cristiana. Nella sua risposta, Stazio riprende la metafora della luce (già usata nel canto precedente): è la celebre immagine di Virgilio «lampadoforo», che «porta il lume dietro e sé non giova» ma, così come ha ispirato tanti sulla via della poesia, allo stesso modo li ha condotti e istruiti («fa le persone dotte») sulla strada della vera fede. Come già nel canto precedente, Stazio esprime il sentire di Dante stesso e, in questo caso, anche quello della sua epoca: i versi 70-72 sono infatti una vera e propria parafrasi dei versi 5-6 della IV Bucolica, interpretata, lungo tutto il Medioevo, come una profezia dell’avvento di Cristo. Ecco dunque che si comprende pienamente la motivazione della scelta di Virgilio come guida del poeta nell’Oltretomba: non solo «auctor» e «doctus», non solo maestro di stile ed ispiratore di poesia, ma luce vicaria di quella della grazia divina, che sarà, più avanti, incarnata in Beatrice. E il discorso di Stazio, che ammette di essere stato a lungo un «chiuso cristian», ovvero di aver nascosto a lungo la propria fede, prima di chiedere a Virgilio dove si trovino altri noti scrittori latini, conclude l’elogio del grande poeta con una captatio benevolentiae che sottolinea il ruolo del maestro proprio nell’aver «levato il coperchio», cioè svelato, tolto il velo dell’ignoranza, e nell’aver reso possibile la comprensione del «bene», cioè della vera fede.

Nesun elogio maggiore poteva essere fatto ad un non cristiano, condannato, dunque, nella penombra del Limbo, a non conoscere mai la vera luce di Dio.

Canto XXIII, vv. 37-133, l’amico Forese Donati

Sulla sesta cornice, Dante si imbatte in un gruppo di anime orribilmente emaciate dalla fame, ed una di queste gli si rivolge con parole di sincero stupore («Qual grazia m’è questa?») che ricordano nel tono e nell’esordio quelle pronunciate da Brunetto Latini nel canto XV dell’Inferno («Qual maraviglia!») e preannunciano nel dativum affecti «m’è» un incontro con qualcuno di molto familiare al poeta.

Si tratta infatti dell’amico Forese, di cui Dante riconosce innanzitutto la voce e poi «la faccia», ovvero l’espressione – segni, entrambi, di una lunga consuetudine. Come è noto, Forese Donati è il corrispondente di una tenzone poetica, databile tra il 1292 e il 1293, pienamente ascrivibile al genere comico-realistico, in cui i due amici si accusano vicendevolmente (e con allusioni per noi lettori moderni piuttosto oscure) di impotenza sessuale, gola, ladrocinio e codardia. L’incontro oltremondano tra i due costituisce, dunque, una vera e propria palinodia della tenzone, perché rovescia due temi topici del genere: indirettamente, il cibo e il bere (Forese, infatti, sta espiando proprio il peccato della gola) e più esplicitamente, come vedremo, l’eros.

Dopo aver spiegato a Dante che le anime della sesta cornice patiscono la propria pena quasi con gioia, con la stesso libero desiderio che portò Cristo a sacrificarsi sulla croce (e si accenna qui ad un tema capitale dell’intera cantica, quello del libero arbitrio), Forese risponde ad un’altra domanda dell’amico: Dante infatti vuole sapere come egli, morto pochi anni prima e pentitosi solo in punto di morte (emerge anche qui il legame fra i due: solo un amico intimo poteva essere a conoscenza di questo particolare) sia già giunto così in alto nel proprio cammino di purificazione. Ed ecco che, nelle parole di Forese, la moglie Nella, la “malfatata” e malmaritata che era stata uno degli obiettivi satirici della tenzone, si trasforma nella «mia» «vedovella», amatissima consorte che, «con suoi prieghi devoti e con sospiri» – secondo la dottrina dei suffragi, un altro dei leitmotiv della cantica – ha affrettato l’ascesi purgatoriale del marito; marito che conclude il proprio discorso, non prima di aver chiesto all’amico di spiegargli la ragione della sua presenza nel Purgatorio, con una scandalizzata invettiva contro le svergognate donne fiorentine, sfacciate ed impudiche più di quelle di Barbagia, tanto da aver bisogno di «discipline», ovvero di punizioni che saranno loro ammannite in breve tempo (con allusione profetica, forse, alla discesa di Arrigo VII in Italia).

Dante risponde a Forese chiedendogli di riportare alla memoria «qual fosti meco, e qual io teco fui», cioè alludendo al comune periodo di ‘traviamento’ successivo alla morte di Beatrice: egli afferma che a toglierlo «di quella vita» è stato «costui che mi va innanzi», ovvero Virgilio. Ecco, dunque, quasi alla conclusione del cammino nei due regni terrestri dell’oltretomba, svelata la vera natura della «selva oscura» in cui Dante si era smarrito «nel mezzo del cammin»: già all’esordio del poema si affermava che essa, o meglio il peccato che essa rappresentava, era spaventoso anche solo nel ricordo, e in questi versi il poeta conferma che «ancora fia grave il memorar presente» di quel periodo vizioso e scellerato, tanto che sarà solo di fronte a Beatrice, nel giardino dell’Eden, che egli potrà farne compiutamente ammenda.

Canto XXIV, vv. 1-63, Bonagiunta Orbicciani da Lucca

È proprio l’amico Forese ad indicare a Dante alcune delle anime che condividono con lui soggiorno sulla cornice dei golosi: una di esse, che si mostra subito interessata a Dante, è il poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca, tra i primi ad introdurre in Toscana la poesia amorosa di derivazione siciliana, e rimasto sempre fedele al magistero di Guittone d’Arezzo tanto da aver criticato la nuova mainera di poetare in un celebre sonetto indirizzato a Guido Guinizzelli. Bonagiunta apre il proprio discorso profetizzando oscuramente l’esilio di Dante e l’ospitalità che gli sarà offerta da una gentildonna lucchese, poi sposta l’argomento sulla diatriba poetica di cui era stato protagonista.

È questo un passo molto noto, perché in esso Dante, riconosciuto dall’anima come l’autore della canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, dà un nome al dolce stil novo e ne chiarisce l’origine e la caratteristica principale, ovvero l’ispirazione, la ‘dettatura’, da parte di Amore: il compito del poeta è solo quello di «significare», ovvero esprimere per segni, in forme sensibili, ciò che avviene all’interno dell’anima.

Come già avvenuto nell’episodio di Oderisi, la scelta di far pronunciare un elogio della poesia dantesca ad un’anima risponde ad una doppia esigenza di diminutio: sarebbe stato inappropriato e superbo elogiare il proprio lavoro, e non si sarebbe dato modo a Bonagiunta di esercitare la suprema virtù dell’umiltà.

Le parole di Bonagiunta (vv.55-62) in cui egli riconosce la superiorità del nuovo stile rispetto alla poesia precedente (rappresentata dalla triade costituita da Jacopo da Lentini, il «Notaro», da Guittone e da Bonagiunta stesso) sono state variamente commentate dagli esegeti, poiché, se il significato generale è piuttosto chiaro, decisamente meno lo sono alcuni termini usati dal poeta lucchese, in particolare le «penne» e il «nodo»: risolutiva mi sembra, in questo caso, l’interpretazione di Lino Pertile, che legge il passo come una metafora legata all’arte della falconeria, con allusione alle immagini già presenti sia nella ricordata tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli sia nella canzone-manifesto Al cor gentil rempaira sempre amore.[1] In sintesi, secondo Pertile, Bonagiunta paragona se stesso e gli altri due poeti a uccelli che non erano stati in grado di levarsi alti in volo come i «falchi» stilnovisti, ma che hanno avuto la presunzione di non comprendere la differenza tra il vecchio e il nuovo stile: tale affermazione non solo risulta coerente con la professione di umiltà che ricorre in moltissimi incontri purgatoriali, ma dichiara apertamente il rapporto di filiazione poetica tra Guinizzelli e Dante, che egli stesso ribadirà poco più avanti.

Canto XXVI, vv. 73-148, Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel

Dante, Virgilio e Stazio sono finalmente giunti sull’ultima cornice: due schiere di anime camminano in sensi opposti avvolte dalle fiamme, scambiandosi un casto bacio e proclamando esempi di lussuria punita e di castità. È proprio una di queste anime, che, vedendo l’ombra proiettata da Dante sulle fiamme, gli si avvicina spiegando che le due schiere appartengono a color che hanno peccato di lussuria, da una parte coloro che si sono macchiati di sodomia e dall’altra coloro che, eterosessuali, hanno «seguito come bestie l’appetito». Il penitente dichiara poi la propria condizione: è Guido Guinizzelli e si è pentito ben prima della fine della propria vita.

Dante è sorpreso e ammirato, sta quasi per gettarsi tra le fiamme quando ode il nome del «padre / mio e di li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre»: Guinizzelli è qui apertamente riconosciuto come l’iniziatore di una nuova maniera di poetare, e il maestro ispiratore, dei ‘fedeli d’amore’ che avevano costituito il cenacolo dello Stilnovo; contemporaneamente, qui, Dante afferma, come già nel dialogo con Bonagiunta, sia la superiorità delle rime «dolci e leggiadre» sia che altri siano stati capaci di poetare meglio di lui. Offre dunque i suoi servizi a Guinizzelli che, stupito, chiede il motivo di una tale dimostrazione d’affetto; Dante risponde che gli è cara la sua poesia, che sarà amata finché durerà l’uso di scrivere in volgare.

Il poeta bolognese, a questo punto, dà al discepolo una lezione di umiltà, additandogli un’anima che fu ancora migliore, anzi, il «miglior fabbro del parlar materno» sia in prosa che in versi, ritenuto, a torto, inferiore a «quel di Lemosì» (il trovatore Giraut de Bornelh): ciò è stato possibile perché la fama è dovuta alla «voce più  ch’al ver», ovvero alla capacità artistica e alla ragione, come è accaduto «di grido in grido» a quella di Guittone, considerato «dagli antichi» migliore di altri. Si noti come ritornino prepotentemente, in questo passo, sia il tema dell’indifferenza alla fama sia il campo semantico della voce, già incontrati nell’episodio di Oderisi da Gubbio.  Guinizzelli, infatti, non è più interessato alla gloria terrena, bensì alle preghiere che i vivi possono offrire in suffragio.

Dante lo osserva svanire nel fuoco e poi si sofferma ad osservare il «mostrato», di cui desidera conoscere il nome: le tre terzine successive sono occupate dal discorso, in lingua provenzale, con cui Arnaut Daniel, il grande poeta maestro del trobar clus e inventore della sestina, descrive se stesso, «que plor e vau cantan», e la propria «passada folor», ovvero la fol’amor che ha ispirato la sua dolente opera poetica. Ma quel tempo è, appunto, ormai passato e davanti a lui di apre la «joi qu’esper» della beatitudine: e, dopo aver chiesto al suo interlocutore di ricordarsi di lui quando sarà davanti a Dio, si ritrae «nel foco che li affina» (come, a suo tempo, ed in altro modo, l’aveva affinato la fin’amor provenzale). Così, con l’unica cessione al plurilinguismo della seconda cantica (che non sia il latino delle preghiere e dei Salmi), Dante omaggia l’ispiratore delle rime petrose e della fase più tormentata, ma anche più sperimentale, del proprio itinerario poetico.

Come si vede, dunque, nella seconda cantica si adempie quel percorso di rimeditazione della propria opera e dei propri debiti intellettuali già iniziato nell’Inferno con cui Dante fa ammenda del tempo speso poetando di ciò che non è «poema sacrato», ma in cui allo stesso tempo si riconosce l’importanza di tutte le tappe che costituiscono il laboratorio ideologico e stilistico della Commedia e i debiti contratti con i poeti che lo precedettero – simile, in questo, alla breve “storia della letteratura in volgare” contenuta nel Libro I del De vulgari eloquentia. Ovviamente, se si ha tempo a disposizione, il percorso può essere ulteriormente arricchito, ad esempio leggendo integralmente il blocco dei canti XXI-XXIV o aggiungendo l’incontro con Beatrice e la sua reprimenda all’antico innamorato (canti XXX-XXXI); ma, mio parere, esso non può dirsi completo se non è integrato dalla lettura dei canti I, VI, e XVI che costituiscono tappe fondamentali dell’ascesa dantesca e che affrontano temi poi ripresi e approfonditi sia in tutti i canti del Purgatorio sia nel Paradiso (l’itinerarium in deum, il libro arbitrio, la corruzione del mondo e il ruolo della Chiesa e dell’Impero…): solo così il percorso può davvero valorizzare l’intera cantica, poiché non la appiattisce tra il fascino infernale e le paradisiache altezze teologiche, ma le attribuisce sia il ruolo di «cerniera», di ripresa e anticipazione di temi e motivi portanti dell’opera, sia quello di testimone del percorso umano, artistico e letterario del Sommo poeta.


[1] «Siamo ora in grado di proporre una nuova e complessiva parafrasi che metta in rilievo il sostrato metaforico e allusivo distintivo del nostro testo.

— Bonagiunta: «Ma dimmi se tu sei proprio quel Dante che tirò fuori (‘per forsa di scrittura’) la canzone nel nuovo stile che incomincia ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’, cioè dimmi se anche tu sei un compositore di ‘nuove rime’ (come Guido Guinizzelli e i suoi seguaci)». — Dante: «Sì, anch’io sono uno di quei poeti nuovi; anch’io, quando Amore mi parla nel cuore, dove esso risiede, lo ascolto, e trascrivo in parole il linguaggio muto in cui esso mi detta dentro (in questo senso — e non in quello cui tu alludi — anch’io ‘tiro fuori nuove rime’)».

— Allora Bonagiunta: «O fratello, quel che tu mi dici mi fa vedere ora il nodo che trattenne me, Guittone e il Notaio di qua dalla nuova poesia (così come il nodo del falconiere trattiene il falcone di qua dal logoro che è oggetto del suo desiderio). Ora vedo bene come voi con le vostre ali di poeti state dietro al dittatore Amore (così come il falcone, non trattenuto dal nodo, sta dietro con le sue ali al logoro), ciò che certo noi non fummo capaci di fare; e chi ha la pretesa di oltrepassare i propri limiti naturali (come io credetti di fare da vivo, senza avere ali per farlo), si preclude la possibilità di capire la differenza dall’uno all’altro modo di poetare», Lino Pertile, Il nodo di Bonagiunta, le penne di Dante e il Dolce Stil Novo, in «Lettere italiane», vol. 46, n.1, 1994, p.75.

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