Rina Gatti. Tutti gli scritti
Il 14 dicembre 2023 esce per l’editore Aguaplano la raccolta completa delle opere di Rina Gatti. Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo la postfazione del volume a firma di Roberto Contu.
Un giorno, alla fine degli anni Novanta, Rina Gatti sente il bisogno di entrare in una vecchia casa disabitata nella campagna di Pontenuovo, in provincia di Perugia e alle porte di Torgiano: è la casa dove è venuta al mondo settantatré anni prima, nel novembre del 1923. Varcata quella soglia, dirà di essersi ritrovata in quella «casa mia» e di averla sentita «come una nonna», ma anche «sola e triste, con queste stanze vuote e un silenzio di tomba dove un tempo c’era tanto chiasso e vita». Lo scrive nella pagina iniziale del suo primo libro, intitolato proprio Stanze vuote e che imporrà su di lei al principio degli anni Zero l’attenzione, lo scrive all’inizio di quel primo capitolo, È nata una mammina, al quale oggi potremmo senza timore aggiungere un sottotitolo: (è nata una testimone).
Eh sì, perché come a volte accade un po’ per miracolo, o semplicemente per le volute imprevedibili in quel cosmo oggi a noi parallelo che è la nostra storia letteraria, Rina Gatti fa sentire inaspettatamente la sua voce a cavallo tra due secoli, al crocevia del terzo millennio, quando già è entrata nella stagione ultima della propria vita; lo fa apparentemente per caso, a partire da una giornata d’ozio dalle parti di Santa Severa – la prima vacanza dopo sessantacinque anni di vita e nuda realtà -, al cospetto di quel mare da sempre così ostile alla gente umbra, nel giorno in cui con una penna e un foglio di carta decide di fare propria la parola scritta, di farne una nuova casa, di renderla capace delle suppellettili, dei volti, delle estati e delle spighe di grano che riempiranno di nuovo le stanze mai vuote della memoria e di un tempo e uno spazio latenti ma mai abbandonati.
In molti intercetteranno la verità di quella voce, uno su tutti, Arrigo Levi, di soli tre anni più giovane di lei e impastato dello stesso e diverso tempo e dello stesso e diverso spazio («anche chi non è umbro, ma ha conosciuto in prima persona da bambino, in altre regioni d’Italia, la vita della campagna degli anni Trenta, trova nelle rievocazioni di Rina Gatti straordinarie somiglianze con i propri ricordi»), riconoscerà nelle parole di questa donna il referto simbolico e purissimo di un mondo nel quale la mietitura e la battitura, l’eccezionalità della fiera e la ferialità del mettere insieme pranzo e cena tracciano un perimetro profondo, il cui lato inferiore si perde nella notte dei tempi della civiltà contadina e quello superiore si distende lungo l’alveo dell’intera storia del XX secolo. E confine profondo lo è veramente e ancora, tanto più oggi, a cento anni dalla venuta al mondo di Rina Gatti, oggi, in questi anni Venti del terzo millennio nei quali, per la prima volta, quel rispecchiamento diretto e biografico in quella civiltà di cui Arrigo Levi fa menzione va venendo meno annebbiandosi nella storia che fu, nel tempo in cui l’accadimento pandemico, la definitiva inculturazione digitale, il rimescolarsi violento degli equilibri mondiali, sembra definitivamente avere chiuso a doppia mandata la madia rimasta fino a ieri aperta del Novecento. Perché quel mondo davvero e anzitutto biologicamente non esiste più, vaniscono ogni giorno gli ultimissimi testimoni diretti che potevano dirlo, si sfarina la memoria, troppo deboli i ricordi dei figli adulti e dei nipoti, fragile la carta delle poche foto e dei diari, definitiva la ruggine degli aratri che da decenni non sono più posati sulla maggese, ma giacciono per sempre stipati in qualche capannone che presto farà posto a qualche villetta a schiera.
Proprio per questo, leggere Rina Gatti oggi, già nel pieno del terzo millennio, preservare le sue parole con questa nuova edizione, specie tra quei ragazzi e quelle ragazze che sembrano avere definitivamente reciso gli ultimi fili non solo parentali ma anzitutto dell’immaginario con quel tempo e con quello spazio, dare voce a quella realtà, alla storia di quella civiltà e del suo distendersi nel solco del proprio secolo, può farsi incontro con un tempo che mostra un nuovo volto mitico e come tale gravido di archetipi fecondi per il presente e che qui proveremo sommariamente a indicare.
*****
C’è nell’opera di Rina Gatti anzitutto l’evidenza terragna della vita che non chiede permessi e che non giustifica sé stessa, una vita che si imponeva in un mondo nel quale «si viveva molto male, non c’erano le medicine» e dove «i nonni erano i nostri stregoni». Quella vita pretesa, che nel candore di una nevicata e nello stupore dei bambini è tanto traditrice da portare via tra gli spasmi della febbre una cuginetta troppo bagnata nel gioco proibito di quel bianco puro ma assassino, mostrando senza veli il contraltare della morte che innerva senza censure l’esistenza di quel microcosmo arcaico. Sì, la vita, che è contigua alla morte, di più, che ne è riflesso e bordone incessabile, coscienza fin dai primi anni di come e di contro la rimozione artificiosa del nostro tempo sia come il candore traditore di quella neve, di come la morte sia necessaria alla significazione di quella stessa vita, in un continuo squilibrarsi tra il miracolo dei pulcini morbidi tenuti in mano dalla bambina Rina Gatti un giorno, il vitello visto nascere a fatica e tirato fuori dagli uomini dal ventre della mucca un altro giorno, il prete che sale le scale a dare l’estrema unzione al nonno, sponda sicura ma che d’improvviso scompare di fronte alla famiglia riunita e sotto il coperchio di zinco della bara con la fiammella che sigilla tutto, in un altro giorno ancora.
C’è poi, ed è forse una delle costellazioni più luminose nella galassia di Rina Gatti, il suo essere «femmina», che già da piccola inizia a imbastire la propria opposizione silenziosa al peso di quelle parole: «responsabilità», «rassegnazione», «sottomissione»; il dovere sempre e fin da subito prendersi cura di qualcuno, qualcosa, il fratellino, la tavola, gli adulti, il corredo, sempre qualcuno o qualcosa da anteporre ai desideri, fosse anche quello oggi inviolabile ma un tempo accessorio del potere studiare, il senso di un muro imposto alla minorità dell’essere donna canonizzata da quella società, limite fisico intuito come un presagio già da Rina bambina nelle misteriose strisce di cotone segnate di rosso e smacchiate dalle donne in disparte come un bucato proibito e increscioso, limite fisico sentito poi addosso un giorno d’estate, tirandosi su dalla gregna e contemplando come in un sogno appannato il grano macchiato del sangue del primo mestruo. Quell’essere «femmina», e poi «ragazza» che a quattordici anni fiorisce sotto il sole robusto del tempo della mietitura, degli uomini che vengono a giornata da lontano, financo da Montefalco o Gubbio, o come quel ragazzo di nome Gino di cui Rina ragazza, spiando la «schiena rossa e sudata», avverte per la prima volta l’odore come qualcosa di nuovo ed emozionante, che il cuore «batteva e sentivo in testa come un ronzio, come se avessi bevuto un bicchiere di vermuth, e invece avevo preso solo una tazza di latte». Quell’essere «femmina» e infine donna che il 10 ottobre del 1947, con la guerra appena finita che ha segnato le campagne, i ponti, le gote delle persone scavate dalle troppe lacrime, quel giorno di ottobre dà in sorte a Rina di stare sul «legnetto» del padrone e non sul solito carro del lavoro, per uscire dall’aia e andare a farsi sposare da un uomo non scelto ma pattuito dagli anziani, così come la spartizione delle spese e degli oneri.
Sarà questo l’inizio di un transito che, varcato il Tevere per bontà del barcaiolo Santino, getterà la donna Rina in una silenziosa odissea, una «via crucis» come dirà, che, come zucchero sul bordo per lenire l’amaro nel bicchiere, sarà avviata dal brevissimo sogno di un viaggio di nozze non previsto in una Roma sconosciuta e abbacinante, ma di cui poi Rina dovrà pagare a lungo il fio. Da lì in poi, un lento, lungo, «peso», peregrinare a partire dall’esilio voluto dal coniuge dalla casa di lui paterna, al tugurio in paese, che non c’era nemmeno il baricentro del focolare, al successivo spostamento a Ponterosciano dove la donna Rina diverrà nella solitudine anche la madre Rina, a un’apparente equilibrio di nuovo alle falde di Torgiano, fino all’azzardo nell’alta valle del Tevere, dalle parti di Pierantonio, e infine il trasferimento tra le case di Ponte San Giovanni dove l’orizzonte della campagna silente che annega tutto inizierà a cedere il passo nella vita di Rina alle prime propaggini della città. Anni strappati agli inverni e alla fatica che piega la schiena, al baratro di un figlio che rischia di morire di poliomielite tra le braccia ma graziato da San Giovanni, alla nostalgia del rispetto vissuto nella casa natale che aveva lasciato il posto alla violenza agita, abbozzata, patita nella nuova condizione, ai ricordi brucianti come una scorticatura, come quello della povera Peppina che nella sua breve e dolorosa esistenza era sembrata farsi carico in silenzio di tutti i peccati del mondo.
Ed è questo, questo lungo peregrinare al passo del piede, del mulo o al massimo del carro, è questo moto incessante e strappato a fatica dal fango come la gamba che un giorno rischia di essere intrappolata mortalmente nella piena del Tevere, è con questo perpetuo andare nel mondo e nella propria anima che il corpo e la mente di Rina Gatti ci accompagnano nel secolo breve, in quel Novecento incassato tra i reduci delle trincee di quella prima guerra che il nonno di Rina bambina le aveva detto come «la peggior disgrazia», fino a quell’altra guerra esperita con i propri occhi attoniti, al cospetto di quel Ponte, di quella Torre, delle arcate di mattoni che si gonfiano e poi esplodono bombardate, deflagrando in morte e distruzione; e poi ancora il fronte che passa, una zia troppo cara che muore proprio in quel 25 aprile in cui nasce l’Italia, e un altro Fronte, quello popolare che lascia in mano il Paese a quella Democrazia cristiana che lo governerà fino a ieri, e i comizi e le scomuniche in chiesa, i comunisti e i borghesi, l’operaio e il padrone, il boom, i primi bagni visti in città come una fiaba proibita, l’acqua corrente e l’elettricità, fino all’altro estremo di quel secolo breve che abbozzerà l’inizio di un nuovo declino di un Italia che da rasa al suolo era diventata moderna. C’è dunque nella storia di Rina Gatti anche una vita che si fa storia e una storia, quella del XX secolo, che si fa vita.
*****
Il mare Rina, già donna e madre, non l’aveva mai visto. Lo vedrà per la prima volta nel 1961, insieme al secondo figlio Giovanni, andando a trovare il primogenito Bruno alla colonia estiva Stella Maris di Senigallia. Il mare noi lo diamo per scontato, viviamo con l’idea di averlo conosciuto da sempre, ma chi ha un figlio, una figlia, sa bene lo sguardo di quella creatura la prima volta in cui l’abbiamo portata di fronte al mare. Noi non ci ricordiamo della prima volta in cui abbiamo visto il mare, eppure, per millenni, non è stato così. Il mare, per chi vive nell’entroterra, è un dato certo solo della modernità. Rina non l’aveva mai visto e quando per la prima volta si trova al suo cospetto, quasi quarantenne, ammutolisce di fronte a quell’orizzonte sconosciuto. Suo figlio Giovanni è euforico, ma lei resta lì, a contemplare quel pezzo di cielo caduto in terra dal finestrino del treno che gli va incontro, in quella che Rina definisce «forse la prima giornata della mia vita di completa libertà». Quando Rina a fine giornata sgrana gli occhi su quelle onde che «si muovevano adesso andando incontro ai raggi del sole, e così l’acqua che si sollevava aveva riflessi d’argento», sembra di leggere le stesse parole di una delle pagine più straordinarie della nostra letteratura, quella in cui Ippolito Nievo, ne Le confessioni di un italiano, descrive la stessa medesima esperienza di Carlino Altoviti che a nove anni, alla fine del XVIII secolo, si trova per la prima volta difronte al mare: «D’improvviso i canali, e il gran lago dove sboccavano, diventarono tutti di fuoco; e quel lontanissimo azzurro misterioso si mutò in un’irideimmensa e guizzolante dei colori più diversi e vivaci». Tali corrispondenze silenziose e impreviste, ma non infrequenti nelle storie letterarie, tra sguardi lontanissimi e non comunicanti, ma che si sostanziano della stessa fiducia nella parola nel dipanare il senso stesso dell’esistenza, come un panno di canapa sapientemente imbastito e conservato per le persone che si amano, ma anche per quelli che verranno dopo, non sono mai parsi un caso, tanto meno in questo. Mettendo insieme le sue parole come il pranzo e la cena, tessendole al telaio con l’amore di una bambina, di una ragazza, di una donna, raccontandoci a suo modo lo stupore della vita che è impastata di dolore ma anche della meraviglia del suo essere e di cui il mare è forse l’allegoria più compiuta, Rina Gatti si è presa a suo modo cura di noi tutti e soprattutto di quelli e quelle che verranno dopo noi, i quali e le quali potranno continuare a trovarsi al cospetto di quella vita, di quelle storie, di quelle parole.
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