Storia e invenzione nel romanzo “La bambina che non doveva piangere” di Giuseppe Culicchia
Questa storia è la storia di Ada. È una storia con la s minuscola, di quelle che vengono schiacciate dalla storia con la S maiuscola. La storia di una figlia che non doveva piangere e che vent’anni dopo essere diventata madre ha pianto fino a morirne. Questa storia è la storia di Ada Tibaldi, nata a Nole Canavese il 16 giugno 1933 e morta a Sesto San Giovanni il 20 gennaio 1985. Ada Tibaldi in Alasia, sposa di Guido Alasia e madre di Oscar e Walter Alasia. (G. Culicchia, La bambina che non doveva piangere, Mondadori, 2023, pag. 9)
La trama dell’ultimo romanzo di Culicchia è in tutto sovrapponibile a quella del precedente Il tempo di vivere con te (recensito qui ), poiché il fulcro della vicenda, orchestrata in tragico crescendo, è l’uccisione di Walter Alasia, cugino dell’autore, appartenente alle Brigate Rosse. La scoperta partecipazione dello scrittore alla dolorosa vicenda familiare, ed i suoi interventi diretti a commento del racconto, fanno pensare ad una riedizione del romanzo storico manzoniano, mentre la parabola tragica di una famiglia che va, attraverso le generazioni, incontro alla catastrofe induce confronti con più recenti esempi di organizzazione della struttura romanzesca. Tuttavia, l’elemento più marcato di questa scrittura è il coinvolgimento emotivo dello scrittore che racconta la storia di suo cugino, attraverso il diaframma o forse lo specchio della storia della zia Ada, sorella di sua madre Elisabetta. Il tormento di Culicchia, narratore della tragedia della sua famiglia, è fuori del racconto ed è elemento narrativo: l’autore, testimone dei lutti parentali, fornisce testimonianza di quanto accaduto a lui scrittore, nell’estate del 1984, dopo l’esame di maturità:
Io intanto da alcuni anni ho iniziato a scrivere. Per molto tempo ho cercato di capire come affrontare la stesura di un libro su Walter, il libro che vorrei scrivere, ma non c’è verso. Non ci riesco. Così mi sono buttato sui racconti […]. (pag. 220)
L’elaborazione del lutto si mescola con il tormento compositivo dello scrittore: fino a coincidere, ma non del tutto, e non definitivamente, se al libro del 2021 è dovuto seguire il libro del 2023. Sembra che Culicchia sia preso da una sorta di ansia documentaria e accumula dati, ricordi, fotografie da cui debba emergere la verità del racconto che è diventato tutt’uno con la storia della famiglia stritolata dalla Storia. Perciò, nella fusione di realtà e rappresentazione, diventa incandescente anche la relazione con i lettori
Chi di voi ha letto Il tempo di vivere con te conosce già il contenuto di quattro delle lettere che Ada scrive a mia sorella tra il 1977 e il 1978. Perdonatemi se le riporto nuovamente qui. Lo faccio perché in quelle pagine è lei in prima persona a raccontarsi. (pag.205)
In realtà in questo ultimo libro vengono riportati anche tutti i fatti e molte fotografie scattate dal marito di Ada
Intanto lo zio Guido continua imperterrito a fotografare tutto e tutti. E la foto a cui sono più legato la scatta nell’estate del 1968. Forse l’avete già vista nel mio libro precedente, Il tempo di vivere con te […] (pag. 104).
La storia di Ada è in realtà la storia di Walter Alasia, ma è anche l’autobiografia di Giuseppe Culicchia ed è il ritratto dello scrittore da giovane, che tenta, in due libri, di scrivere il suo unico libro.
Ada Tibaldi
Il racconto è racchiuso in capitoli che sono decenni, il primo è «Gli anni Trenta», in cui nasce Ada, l’ultimo «Gli anni Ottanta», in cui Ada muore. La sua vita minuscola è quella invisibile nello svolgersi di eventi epocali, che vengono tutti asetticamente ricordati. Il padre indossa orgogliosamente la camicia nera, come tanti italiani, e dona sei figli alla patria, ma sarà la madre a doversene occupare per farli mangiare, e finirà da alcolizzata la sua esistenza. L’infanzia di Ada è fatta di guerra, fame e paura, nell’adolescenza fiorisce la forza della vita che esplode con la ricostruzione. Ada è allegra e scappa in bicicletta per andare a ballare, finché non sposa un operaio, Guido Alasia. La famiglia si stabilisce nella Stalingrado d’Italia, come si diceva allora, Sesto San Giovanni, agglomerato di fabbriche e case di operai in mezzo ai prati. Ada lavora in fabbrica, alla Sapsa, satellite della Pirelli, senza alcuna tutela per la sicurezza e la salute. Ma quello in cui vive non è il tempo della rassegnazione, e Ada reagisce. Si iscrive al PCI, è sindacalizzata, e per questo subisce le ritorsioni padronali e sogna un mondo in cui lavorare non significhi essere sfruttati. Walter, il figlio minore, sembra condividere l’allegria e la passione politica della madre. Pensa sia possibile una alternativa a quella vita e crede che l’unica via sia la rivoluzione. Nel 1975 conosce Renato Curcio ed entra nelle Brigate Rosse. L’unica a saperlo sarà Ada. L’epilogo è alle quattro del mattino del 15 dicembre 1976, la polizia vuole arrestare Walter che è a casa dei genitori. Quando il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani aprono la porta della stanza, Walter spara, e li uccide tutti e due, poi scappa, saltando dal balcone. Nel cortile, ferito, chiede aiuto alla madre, che non può raggiungerlo. Poi una raffica fa scendere il silenzio. Ada sa che Walter è morto. Trascinerà la sua vita nel ricordo del figlio e morirà otto anni dopo.
Non si tratta di giustificare gli omicidi e le gambizzazioni e i sequestri delle Brigate Rosse e delle altre formazioni che hanno abbracciato la lotta armata, ma di comprendere. […] In quella Sesto San Giovanni, così diversa rispetto a quella di oggi, Ada aveva provato sulla sua pelle che cosa significasse lo sfruttamento capitalista. La lotta di classe non era un concetto da libro di scuola o di sociologia, ma aveva a che vedere con la vita quotidiana. Walter vedeva in Ada la donna e l’operaia sfruttata dal capitale. Walter quella pistola l’aveva presa in mano (anche) per Ada. (pag. 211)
Ceci n’est pas une pipe
Un testo in cui l’autore parla dei suoi nonni, dei suoi zii e cugini, di sua madre e di sé, nel tempo storico che ogni appartenente alla sua famiglia ha vissuto, perché dovrebbe essere un romanzo? Nessun personaggio è inventato, ogni nome è quello reale e ciò che si racconta è realmente accaduto a ciascuno. Il minimo spazio che l’autore concede all’invenzione è l’integrazione della storia: i dialoghi a cui non può avere assistito, per esempio. Tuttavia, alcuni discorsi ed anche alcuni pensieri fanno certamente parte della narrazione familiare: ciò che Ada raccontava, che Elisabetta sapeva, che Giuseppe ricorda si travasa nella pagina. Ma
Un messaggio che dovesse obbligatoriamente venire ricondotto alla biografia o alla psicologia individuale del suo destinatore per essere compreso, non sarebbe un messaggio letterario.
Questo monito di Francesco Orlando (Per una teoria freudiana della letteratura, 19734, pag.18) mi è stato sempre presente come bussola nell’attraversamento della letteratura, specialmente nel districarmi nelle questioni relative all’autobiografismo ed alla biografia di autori solitamente inchiodati (Leopardi e Pascoli su tutti) a categorie di interpretazione monodirezionali. E devo dire che per lunghi tratti sono stato in dubbio se definire romanzo o messaggio non letterario La bambina che non doveva piangere: diario familiare e anonima rassegna annalistica di eventi storici si giustappongono in pagine in cui compaiono fotografie della Conferenza di Monaco e del matrimonio dei nonni, di piazzale Loreto e della casa di Nole Canavese in cui Ada è nata. Ma, procedendo nella lettura, quel bianco tipografico che separa i blocchi narrativi familiari dalla ricognizione annalistica diventa elemento comunicativo, tanto quanto le fotografie: lo spazio diventa immagine della separazione in uno stesso tempo di quanto accadeva in luoghi diversi. E la separazione tra Storia e storia, di cui Culicchia parla, secondo un ossessivo refrain anaforico di premonizione della futura sventura, si assottiglia fino ad annullarsi nel punto di convergenza che è la morte di Walter Alasia. Ecco, nella realtà non c’è stato nessun precipitare della catastrofe in un unico punto, come avviene nella tragedia guidata dalla necessità. Nella Storia ci sono (state) miliardi di altre storie che non concludono, perdute perché nessuno le ha raccontate. Ma se è il racconto a dare realtà, allora quello di Culicchia non può che essere un romanzo: l’unico genere, come ci ha insegnato Bachtin, «in divenire», dotato di «tridimensionalità stilistica», in cui il personaggio letterario è costruito nella zona «del massimo contatto col presente (l’età contemporanea) nella sua incompiutezza». Walter Alasia non è un eroe, Culicchia lo sa. Ma il dolore che accomuna nel lutto la famiglia Bazzega e la famiglia Alasia è lo stridore della Storia, di cui ancora oggi, specialmente oggi, udiamo il suono sinistro. La violenza e l’odio nella Storia sono la nostra storia.
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