Le ambizioni egemoniche del governo della destra
Quando all’inizio del 2023 il ministro della cultura, Gennaro Sangiuliano, tentò di annettere Dante Alighieri alla cultura della destra, ci sembrò risibile. Egli strumentalizzava le posizioni “politiche” di Dante sull’impero a distanza di otto secoli, ignorando la capacità del poeta di «parlare all’umanità intera di ogni epoca» in base al valore universale ed egualitario dell’arte, messa a disposizione di tutti. Dimostrava così di essere uno dei tanti ministri incompetenti del “partito dei cognati e dei compari”, di cui la Meloni si è circondata. In realtà nella sua inconsistenza Sangiuliano esprimeva il primo conato di un’ambizione, che ha progressivamente preso corpo nei mesi successivi rivelando una volontà politica.
L’”annessione” di Gramsci
Oggi possiamo dire che il governo più a destra della storia repubblicana ha intenti egemonici nel senso di Gramsci. L’esercizio del potere non può solo basarsi sul monopolio statale della forza (e questo governo dal primo decreto anti-rave ha collezionato molti provvedimenti repressivi soprattutto nei confronti dei migranti), ma deve organizzare il consenso popolare intorno ai propri obbiettivi. Recentemente Marcello Veneziani, intellettuale “irregolare” della destra, in un articolo del 5 ottobre 2023 del suo blog (Dove è finita la filosofia italiana?) ha rivendicato questa idea di Gramsci alla costruzione del consenso in epoca fascista. Scrive: «Più nascosto ma più profondo è il debito di Gramsci verso Gentile, indagato acutamente da Del Noce: è un legame all’insegna del comune interventismo culturale, del nesso mazziniano tra pensiero e azione che rivive nell’attualismo di Gentile come nella filosofia della prassi di Gramsci; un ripensamento nazional-popolare del pensiero italiano e del progetto di un’egemonia culturale che Gramsci trae da Lenin ma in Italia ha l’esempio della politica culturale di Gentile e di Bottai nel regime fascista». Il pensiero è ardito da far accapponare la pelle perché ascrive il concetto di “egemonia”, che è sicuramente gramsciano, a due opposte genealogie: quella leninista della conquista della maggioranza, che ha un suo fondamento democratico, e quella fascista, che costruì il consenso attraverso la organizzazione corporativa della società. Il tentativo non è nuovo se nel congresso della svolta di Fiuggi, poi rientrata con la fondazione di Fratelli d’Italia, Gianfranco Fini collocò Gramsci nel pantheon dei padri della destra italiana. Certo un grande studioso italiano della scienza della politica, insieme a Machiavelli, esercita un fascino egemonico!
La logica nazionalista e guerrafondaia
La questione della guerra è ancora una volta l’organizzatore primario della fase che stiamo vivendo, e quindi delle ambizioni egemoniche del governo. È stato scritto che l’atlantismo della Meloni è una necessità politica di continuità col governo Draghi e soprattutto del suo accreditamento sulla scena internazionale. In realtà si tratta di un percorso più fondo che scaturisce dalla natura guerrafondaia del nazionalismo di cui si nutre la cultura della destra. Tale natura è occultata dal riflesso condizionato degli schieramenti occidentali, come è stato per la questione delle armi all’Ucraina e oggi per il rinnovato appoggio a Israele senza curarsi del destino del popolo palestinese di Gaza, ostaggio della politica terrorista di Hamas. La formuletta in uso “due popoli, due stati” nelle dichiarazioni delle potenze occidentali è diventata una giaculatoria rituale più che un’indicazione strategica forte di convivenza pacifica dei popoli. Nella stampa italiana c’è chi plaude all’atteggiamento bi-partizan di Meloni e di Schlein, trascurando che l’atlantismo non impedisce il dilagare della “guerra mondiale a pezzi” secondo la formula di papa Bergoglio, anzi ne è uno dei principali artefici. Dal punto di vista geopolitico l’atlantismo è inadeguato rispetto al cambiamento degli equilibri mondiali, passati irrimediabilmente da una logica bipolare ad una multipolare, in cui l’egemonia planetaria statunitense sembra essere condannata al declino e in cui sarebbe necessario potenziale le istituzioni sovranazionali come l’ONU, oltre i limiti assegnati dagli equilibri scaturiti dalla seconda guerra mondiale. Si sono accesi due dei tre focolai di un possibile conflitto planetario, individuati dalla rivista di geopolitica Limes (La terza guerra mondiale? N. 2/2016): prima l’Ucraina al confine est della Nato, poi in Medio Oriente prima con l’Armenia e ora con la Palestina. Il terzo focolaio nel Mar della Cina è ancora “freddo”, ma percorso da grandi tensioni per il controllo delle vie marittime degli scambi commerciali. Nel frattempo la dominante logica guerrafondaia, aumenta la corsa agli armamenti a spese di quelle per lo stato sociale (salute, istruzione, pensioni ecc.) e determina a livello micro-sociale l’incremento costante della violenza agita.
Il negazionismo storico e scientifico
Lo sguardo pericolosamente rivolto all’indietro del governo della destra si vede non solo nel tentativo di riscrivere la storia del Novecento per riabilitare il regime fascista e i suoi nostalgici sostenitori in epoca repubblicana (il partito e il governo della Meloni sono infarciti di ferrivecchi del MSI, mai pentiti , come l’impresentabile Ignazio La Russa), ma anche nell’affermazione di un’ideologia negazionista ed antiscientifica che va dalla negazione del significato storico della Resistenza partigiana nella fondazione della Repubblica democratica e antifascista alla negazione della compromissione missina nella strategia stragista degli anni Settanta e Ottanta fino al sostegno più o meno obliquo alle teorie No Vax. Va nello stesso senso la battaglia per la toponomastica in corso in varie città italiane (circa 200), che serve alla destra per accreditare Almirante come “statista” ed altri gerarchi come glorie patrie. La retorica della “pacificazione” nazionale strumentalizza alcune anime belle della sinistra come Violante per archiviare la Resistenza, equiparare i partigiani e i “ragazzi di Salò”, la Shoah alle foibe. Nella pratica la politica culturale del governo si sostanzia nell’occupazione sistematica di tutte le reti della TV pubblica, portando alle estreme conseguenze le abituali lottizzazioni di tutti i governi , e nella trasformazione della scuola pubblica in “una fabbrica del consenso”. Valditara, il ministro dell’istruzione e del merito, ha come obbiettivo dichiarato la cancellazione della memoria del ’68 e dei suoi “postumi” (come li chiama) con la restaurazione ad ogni livello del principio di autorità. L’obbiettivo è sovvertire la finalità costituzionale della scuola pubblica di formare le cittadine e i cittadini per subordinare ragazze e ragazzi alle logiche produttive, invocate da sempre dalla Confindustria. Era facile prevedere che il ministro denunciasse il protocollo per l’insegnamento nella scuola dei valori della Resistenza e della Costituzione antifascista, togliendo l’iniziativa all’ANPI, che ha sottovalutato il rischio, regalando alla Meloni l’appellativo di «post-fascista», quando il suo obbiettivo è l’egemonia culturale neo-fascista.
Il fascismo come retorica
Ho più volte ripreso da queste pagine l’indicazione di Umberto Eco che il fascismo è non tanto un’ideologia quando una retorica reazionaria. I capisaldi sono quelli di sempre: “Dio, patria e famiglia”. La natura retorica dell’affermazione sta nel disvelamento del’inconsistenza semantica delle parole a fronte dei comportamenti. Pensare oggi alla “difesa di Dio” segnala solo il cattivo stato di salute dell’idea religiosa. La retorica patriottarda nasconde le macerie di cui il fascismo ha costellato la storia del nostro paese, trascinandolo nella sconfitta della guerra mondiale. Infine la difesa melensa dei valori della famiglia contro i diritti delle donne e della comunità LGBTQ è negata nei fatti dalla pratica dei rapporti interumani degli esponenti di questa maggioranza: prima in testa la stessa Meloni che si proclama donna e madre, ma non “moglie esemplare” dato che ha vissuto more uxorio con un bel tomo, noto per le sue inopportune esternazioni sulle donne che attirano gli stupratori e che ha recentemente scaricato per uno scandaletto provocato da un fuori onda fin troppo divulgato nel suo provincialismo. I valori proclamati valgono solo per “il popolo”, che deve obbedire al capo, il quale gode di una sorta di extraterritorialità fuori dalle regole.
Il razzismo contro i migranti
La doppiezza del messaggio culturale è lampante nel cavallo di battaglia elettorale della destra: il contrasto alla migrazione. Il timore, esplicitato dal ministro dell’agricoltura Lollobrigida, cognato della Meloni, della «sostituzione etnica» in difesa della «razza italiana», copre la necessità pratica di attivare flussi di migranti “regolari”, necessari alla nostra economia, secondo numeri variabili per il governo da 250 a 450 mila all’anno a seconda delle fonti. Di fatto a fronte del fallimento del millantato “piano Mattei” per l’Africa, degli accordi con il dittatore di Tunisi e dell’inasprimento delle regole con il cosiddetto decreto Cutro, ad oggi sono sbarcati in Italia più di 160.000 migranti, battendo ogni precedente record. Questo dato da una parte attesta il carattere del tutto retorico dei provvedimenti governativi e dall’altra la loro inconsistenza pratica. Il governo Meloni non ha soluzioni praticabili per i migranti e i richiedenti asilo. Quanto dice serve solo alla sua propaganda razzista ed identitaria. È una delle tante promesse elettorali non mantenute, che caratterizza il bilancio del primo anno di governo. Comunque la questione è già pronta per la campagna elettorale delle europee della prossima primavera.
Neo-liberismo e neo-corporativismo
Discorso analogo può essere fatto per la politica economica. La Meloni agita regolarmente le parole d’ordine della scuola neo-liberista: sono gli imprenditori a produrre la ricchezza della nazione e non vanno disturbati, aspettando che si ricordino di far gocciolare qualche spicciolo ai livelli inferiori della piramide delle classi sociali. Nel frattempo il governo vara una finanziaria di 23-24 miliardi di cui 16 in deficit, caratterizzata da interventi congiunturali per l’anno finanziario in corso come la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro e il tentativo di ridurre l’Irpef per i redditi tra 18.000 e 35.000 euro l’anno, archiviando la flat-tax con l’intento di proteggere i ceti medio-bassi, cioè quella piccola borghesia incanaglita dalla crisi sociale, che la destra ha sempre rappresentato. Il fatto che 16 miliardi siano in deficit vuol dire che i costi ricadranno sul debito già enorme, i cui interessi vanno ai grandi investitori e sono finanziati da chi paga le tasse, un latro modo per togliere ai poveri e dare ai ricchi. Nel frattempo viene tagliata la spesa sociale, in particolare il finanziamento della sanità pubblica, foraggiando quella privata col pretesto di ridurre le liste d’attesa. Il resto è una pioggia di microinterventi con un approccio ai problemi sociali a compartimenti stagni, che introduce divisioni tra occupabili e non, genitori e single, giovani e anziani. Ancora una volta la logica è ancora quella corporativa di marca fascista.
La cosa più interessante è «l’autocritica» – lo ha detto testualmente – sul tema del segretario della CGIL Landini, che dal palco della manifestazione del 7 ottobre a Roma ha finalmente affermato che in Italia sono i lavoratori dipendenti a pagare le tasse e a produrre la ricchezza. Per troppo tempo le sinistra è stata succube delle teorie neo-liberiste ed ha permesso il diffondersi delle retoriche di cui sopra anche tra i ceti meno abbienti. È auspicabile che la sinistra riprenda una battaglia seria per l’egemonia culturale.
Una questione interessante
Può essere utile chiedersi se queste ambizioni egemoniche sono solo propaganda e promesse non mantenute per elettori creduloni o se incontrino processi sociali reali. Indubbiamente l’allargarsi dei focolai di guerra e della crisi economica e sociale conseguente gioca a favore della paura e dell’odio e quindi della destra. Ma è credibile ad esempio che l’egemonia della destra antiabortista e antifemminista entri in rotta di collisione con il movimento di emancipazione e di liberazione delle donne? Non è possibile mettere le braghe alla storia. Nessuna politica contro la denatalità potrà essere varata in contrasto con le aspirazioni di liberazione delle donne. Questo dovrebbe essere argomento di riflessione, anche autocritica come ha fatto Landini, perché la riaffermazione di un’egemonia della sinistra si fondi sui processi reali.
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Il governo Meloni-Salvini è il frutto del totale fallimento della ‘sinistra’ di questo paese, ormai ridotta allo stato larvale, e della sua opposizione fasulla agli schieramenti politici e sociali dominanti. Ergo, non è iterando stancamente le tautologie contenute in questo articolo che la sinistra potrà “riprendere una battaglia seria per l’egemonia culturale”. Né riproponendo la “rivoluzione senza rivoluzione” di Gramsci, pensatore importante ma profondamente compromesso dal suo lungo uso revisionista. In realtà, la storia continua, per l’essenziale, lungo il tracciato messo in luce 175 anni fa da Marx e da Engels e 107 anni fa da Lenin. I destinatari a cui bisognerebbe rivolgersi per costruire, attraverso il rilancio della prospettiva del socialismo, “una egemonia della sinistra” (il che significa automaticamente includere la falsa sinistra costituzionalista e proimperialista tra gli agenti dei nemici di classe) sono i lavoratori politicamente coscienti e sindacalmente organizzati, che sanno che la loro lotta sarebbe una vana fatica di Sisifo se, oltre al posto di lavoro e al salario, non mirasse ad abolire l’intero sistema del lavoro salariato; sono gli studenti che hanno compreso di quante sottili violenze e di quante cocenti ingiustizie sia gravida la società in cui vivono, e che ricercano un’alternativa globale alla degradazione della vita sotto il capitalismo; sono infine gli intellettuali che non si sono venduti ai padroni vecchi e nuovi e che non rinunciano, per il timore di entrare in conflitto con i poteri costituiti, ad esercitare la loro essenziale funzione critica e antagonistica. Sappiamo che non si tratta di vincere oggi. Ma, per vincere domani, bisognerà provare di essere capaci di batterci anche oggi, quando la situazione è quasi completamente contro di noi e chi la pensa come noi. Pertanto, la divisione non è fra sunniti e sciiti, democratici e repubblicani (e permettetemi di aggiungere, tra fascisti e antifascisti, tra ebrei e arabi, tra sinofobi e filocinesi, tra negazionisti e vestali della “Shoà”): la divisione è tra chi ha e chi non ha (sottinteso: i mezzi di produzione). Questo è quanto afferma nel film americano “Shooter” un senatore che opera negli ipogei del “Deep State”, pianificando interventi ‘non convenzionali’ all’estero e tessendo trame eversive all’interno. Per quanto tempo ancora vogliamo restare al di sotto del livello di consapevolezza espresso da questa potente figura della “coscienza sprezzante”?