Perché leggere “L’ultima pelle” di Julio Monteiro Martins
“Per lottare per la conservazione del mondo, così come per avere un figlio o scrivere un libro, c’è bisogno non solo di interesse verso il mondo, anche di essere convinti che ne valga la pena. Più che una decisione di natura politica si tratta di un atteggiamento esistenziale che, a volte, la lucidità e il disincanto rendono alquanto precario.”
(Julio Monteiro Martins, L’ultima pelle, Lebeg 2019, p. 88)
Perché interroga sulla dicibilità pubblica di un dolore privato
Il romanzo di Julio Monteiro Martins L’ultima pelle (tradotto in italiano da Antonello Piana) è un testo autobiografico che mette al centro l’esperienza della trasformazione di sé, del ritrovarsi, riassestarsi e lasciare che la vita ci riprenda a seguito di un radicale cambiamento che giunge come un colpo di sorpresa; un cambiamento che perlopiù ha a che fare con la morte e col dolore, con lo sforzo di congedare e con lo smarrimento del sentirsi abbandonati e senza più una direzione. La perdita da cui derivano e orbiteranno nel romanzo tutte le altre è per l’autore quella della nonna, una donna che nei ricordi del sé bambino assume i tratti di una misteriosa sensitiva, depositaria di un potere da guaritrice a essa stessa sconosciuto, né millantato. Ma “per narrare al lettore sconosciuto un dramma tanto personale quanto la morte di una persona amata che egli non ha mai conosciuto […] è necessario organizzare il dolore e cercarne l’essenza con gli strumenti possibili dell’arte. […] E imparare a «fingere che è dolore il dolore che davvero senti», come nei versi di Pessoa.” (p. 131)
A distanza di vent’anni da una prima stesura lo scrittore di origine brasiliana (che ha però vissuto gli ultimi decenni della sua vita in Italia), procede a una riorganizzazione di questo dolore, a partire dalla consapevolezza che il senso di quanto è accaduto non è mai definitivo, che nuovi ricordi possono riemergere senza preavviso né cortesie a scompaginare l’acquario della memoria, e che rimarrà sempre nell’aria una domanda densa e spinosa, per chiunque di noi faccia di alcuni frammenti della propria vita oggetto di racconto, qualunque siano il mezzo e il destinatario: “come si fa a raccontare ad altri una storia che si è vissuta, se quando si prova a raccontarla in primo luogo a sé stessi non si riesce neanche a dire quanto di quella storia sia rimasto sommerso, e senza una scadenza sicura per tornare a galla, ammesso che un giorno ritorni?” (p. 133)
Consapevole di questo cruccio, la prospettiva assunta dallo scrittore brasiliano assomiglia a quella di un etologo, che con distaccato ma curioso interesse fa di sé stesso, di sensazioni, comportamenti e ricordi, un oggetto di annotazione e di studio sulla nostra specificità animale. Fin dal preambolo infatti ci viene chiarito il senso del titolo, che rimanda alle metamorfosi di serpenti e uccelli (e sull’aderenza alla terra dei primi e l’anelito al cielo dei secondi, è difficile non vedere una scelta simbolica non casuale) come termine di paragone per la comprensione delle svolte che segnano rotture e salti in quello che viene definito il “ciclo naturale” delle esistenze di ciascuno, dopo le quali si torna a splendere, a sentirsi forti nel mondo, dimenticandosi delle crisi che abbiamo attraversato. Quando il passaggio avviene, per una sorta di provvidenza biologica dispensatrice di oblio, tendiamo a rimuovere quanto vi è stato di significativo tra il colpo e la rinascita. Qui si situa la funzione della letteratura, intesa come prezioso strumento di conoscenza – “Rifletto se devo o no pubblicare queste annotazioni tanto intime. […] Mi ricordo di Sartre quando diceva: «Ogni uomo è tutti gli uomini». Per questo scrivo.” (p. 12) – volto a disseppellire e tramandare, tra le altre cose, “i segnali di ciò che siamo soliti chiamare felicità”: “dobbiamo farli nostri per poterli inoltrare, trasformati, ad altri uomini che non riescono a decifrarli.” (p. 131)
Perché indaga la necessità di accantonare ciò che perdiamo
Il romanzo inizia con una fine, con quella fine a cui siamo tutti attesi. Chi ha vissuto o sta vivendo l’esperienza della malattia allo stadio terminale di una persona cara, ritroverà in queste pagine tutta l’esperienza cruda e senza clamore del sentirsi sopraffatti dall’inesorabile, del fare i conti con il resto sempre più spoglio e prosciugato di una presenza affettiva che se ne va, ma il cui corpo tuttavia “persiste”. Nella veglia notturna in una stanza di ospedale, l’autore (anch’egli morto di cancro nel 2014) comincia così a scrivere questo testo, a “frequentare il grande apprendistato del congedo” (p. 11). E formula interrogativi etici per nulla banali attorno alla difficoltà di decidere della morte altrui, chiedendosi cosa significhi rispettare l’ultimo stadio di dolore di una vita che se ne va. Interrogativi che vale la pena riportare qui, semmai potessero essere di qualche aiuto nei momenti peggiori:
In un quadro clinico che non lascia adito a speranze di recupero, poco a poco una questione si impone sulle altre: lasciare che mia nonna viva lucidamente la propria crocifissione […] oppure sedarla affinché la sua ragione atrofizzata possa slegarsi dal massacro che le è riservato a conclusione dell’esistenza?
Occorre innanzitutto non confondere la sua sofferenza con la nostra nel vederla soffrire. Sedarla sarebbe più comodo per i nostri sensi, ma non per la nostra coscienza. La nostra sofferenza non può essere presa in considerazione visto che è lei, e solo lei, il fulcro della nostra decisione. (p. 13)
La morte della nonna, per una beffarda coincidenza, avviene nello stesso giorno, a sei anni di distanza, da quella della madre del narratore. È un vuoto che si rinnova e che inchioda a una verità disillusa, non rimuovibile: “La scomparsa delle persone che amiamo ci dà la cognizione esatta del fatto che stiamo solo ottemperando a un mandato biologico. E anche di qual è il punto del mandato in cui ci troviamo adesso” (p. 21). Pur essendo questo romanzo ricco di riferimenti filosofici e letterari (alcuni espliciti, altri più celati ma senza artificio) non lascia spazio alcuno a illusioni sulla cultura come via di fuga o di guarigione dal dolore: è solo la natura ciò da cui si proviene e a cui si diviene, ciò che una volta atterra e in un’altra occasione può salvare. Il ristoro apportato dalle arti e dal pensiero può consistere “solo” nel renderci più capaci di cogliere queste occasioni, nel far caso a quando, a dove e grazie a chi si può (tornare a) essere felici, riconciliandoci momentaneamente con la nostra gratuita creaturalità.
E infatti la vita nel romanzo prosegue lo stesso, irriverente e indifferente al dolore che si consuma in quella stanza di ospedale, nell’umanità variegata e circense che ne popola i corridoi, nel carnevale festante che rumoreggia nelle strade circostanti. E che rende, per chi sopravvive, ancora più desolato l’impatto inedito con il che fare di/in una casa che rimane vuota, in cui si rimane soli. Non resta in questi casi che andare avanti, non perché lo si possa decidere, ma per inerzia.
La cornice del romanzo è diaristica, di mese in mese, ma si tratta di una cornice debole e in fondo di facciata. Di pagina in pagina si viaggia negli anni, nello spazio, e soprattutto tra le persone che intercettano la vita del protagonista o che faticano ad esserne definitivamente messe alla porta. Si pone allora la necessità di istituire un altro ordine nella propria vita, di tagliare ciò che è inesorabilmente secco, che anzi non è mai stato vivo, e riconoscerlo senza ipocrisie. A cominciare dal fare semplicemente i conti con l’estraneità irrimediabile di alcuni parenti:
– Non valeva la pena di mantenere alcun legame. Non avevamo vere affinità con gli altri parenti. E poi, i legami cosiddetti “di sangue” dicono ben poco al mondo degli affetti, non significano più niente in una società che ha rotto con il vecchio modello patriarcale e centralizzato, frammentandosi in individui con le loro esistenze isolate. Non serve a niente spazzare la solitudine sotto il tappeto.
[Nel restituire a una parente il contributo per il funerale] mi sentii francamente sollevato. Come se stessi pagando la quota di esclusione a un club del quale non desideravo più essere socio. (p. 36) –
Identico il percorso nei confronti del proprio padre (padrone autoritario di un negozio in declino e prossimo a fallire), a cui aveva tentato di riavvicinarsi senza esito condividendone per un anno il posto di lavoro, per poi allontanarsene definitivamente, senza pentimenti o marce indietro anche quando egli si ritroverà a sua volta malato e in prossimità della morte:
Era troppo tardi per conoscere un padre che si era rinchiuso in sé stesso per tutta una vita. E troppo tardi perché lui potesse conoscere un figlio plasmato da gioie e sofferenze che ignorava. Era passato troppo tempo. È proprio così: a volte è troppo tardi. Ormai eravamo due uomini diversi, il cui destino personale non poteva più essere condiviso. (p. 83)
Sarebbe stato ipocrita e privo di senso tornare a cercarlo solo perché aveva problemi cardiaci. Quel fatto, la possibilità che potesse morire nel giro di qualche mese o anno, non poteva giustificare un interesse che non esisteva se non come senso di colpa, e io non mi sentivo in colpa di alcunché. […]
Non si può violentare la realtà e forzare quel che non è naturale a causa di un concetto astratto di paternità.
Decisi di non cercarlo. Di mettermi solo a disposizione nel caso in cui un giorno avesse avuto bisogno di me. In questo non vi era alcun risentimento né orgoglio meschino. C’era solo un acuto senso della realtà e un oggettivo riconoscimento delle forze che attraggono e di quelle che respingono. (pp. 108-109)
Ma la lista delle cose perdute va ben oltre la sfera dei legami familiari, abbraccia i propri risparmi andati in fumo a causa dell’inflazione, un progetto editoriale che fa naufragio, una relazione sentimentale che si tronca per inconciliabilità di progetti e visioni… Il tirocinio in quell’arte di perdere a cui Elizabeth Bishop ha dedicato una sua celebre poesia, tocca in sorte in questo testo a un allievo tenace, suo malgrado.
Perché aiuta ad abitare la gratuità del nostro essere al mondo
Quanto scritto fin qui può indurre nell’errore di pensare che “L’ultima pelle” sia un testo che ondeggia unicamente tra l’immersione nel dolore e il disincanto dell’estraniarsi da esso. E invece, vi trovano spazio anche una serie di esperienze e di incontri luminosi, sorprendenti e a vario modo inebrianti, generatori di genuina meraviglia e di una ritrovata inclinazione al sorridere, in primis delle proprie goffaggini. Emblematica in questo senso una scena deliziosa e iperbolica in cui l’io narrante, dovendo far fronte a quell’incuria maschile, troppo maschile, rispetto alla riproduzione della propria vita nelle sue dimensioni più quotidiane e minute, mette un annuncio di lavoro per ricercare una domestica, ottenendo i seguenti frastornanti risultati:
Non avevo tenuto conto del momento di terribile recessione e disoccupazione che il Paese stava attraversando. La risposta all’annuncio fu pazzesca. Alle sei del mattino del lunedì le candidate cominciarono a telefonare e in tre giorni ricevetti in casa, non esagero, più di un centinaio tra ragazze, signore di mezza età e anche qualche vecchietta.
Il martedì pomeriggio davanti alla mia porta c’era la fila e io non sapevo assolutamente cosa fare o cosa chiedere durante il colloquio. […]
C’erano candidate della mia città e di varie città vicine. Alcune vennero in coppia, candidandosi entrambe, e io scuotevo la testa smarrito senza sapere cosa chiedere. Erano loro che, visto il mio imbarazzo, suggerivano le domande (Fai il bucato? Stiri? Cucini sia il dolce che il salato? Ti fermi a dormire? Puoi fare la spesa? Vuoi la domenica come giorno libero? Quanto prendi?) e si davano le risposte da sole. […]
Si presentarono alcune ragazze ben vestite, sobrie, altre pesantemente truccate, con abitini attillati in perfetto stile “vamp” e sguardi presumibilmente seduttori. Altre modeste, modestissime, sorde, sdrucite, supplichevoli. Alcune sapevano leggere e scrivere, avevano già fatto persino la segretaria o la commessa in boutique di lusso, altre sapevano a malapena parlare. Era come se ci fosse il Brasile intero a sfilare davanti alla mia porta. E io, intontito, a cercare una logica. (pp. 36-37)
A ottenere infine quel posto sarà Gloria, giovane sfacciata, bambinesca e imprevedibile, capace di dire sì a tutto, di cogliere con slancio la vita nel suo semplice darsi, la prima di una serie di figure (femminili) della tentazione di vivere, della possibilità di riconciliarsi con la gratuità e contingenza dell’essere al mondo. Prendendo spunto dal suo entusiasmo epidermico per gli oggetti che la circondano – che in lei si esprime attraverso la fotografia -, incurante della loro deperibilità, il protagonista comincia così a praticare un altro tipo di tirocinio: l’accettare che una casa, un corpo, un’anima diroccata non si possono riparare, si può solo imparare a convivere con lo sgocciolio della pioggia che vi si infiltra, integrarlo nella topografia del nostro essere. E non a caso sarà proprio l’incontro con una fotografa francese, Louise, a permettergli un appuntamento inatteso, intenso, non dichiarato con l’innamoramento, nella figura dell’amica Mariana.
Ma anche dopo la fine della relazione con lei, il desiderio che fa sentire vivi manterrà per l’io narrante il carattere di un felice disturbo sempre in agguato, capace di manifestarsi nell’imprevista complicità del rubare una cianfrusaglia in un supermercato insieme a una commessa maliziosa, o nella quieta bellezza e inconsapevole seduzione esercitata da Raquel, una ragazza di quindici anni figlia di amici di famiglia che egli aveva lasciato bambina, e che gli riappare mentre si avvia a farsi donna, sognando di viaggiare per il mondo, tra un compito in classe e una manifestazione di protesta.
Già, la protesta, la lotta politica: la necessità di contrastare la devastazione ambientale di un litorale si imporrà al protagonista come un banco di prova, una sfida a dismettere il letargico ripiegamento su se stessi post-lutto, una chiamata al vivere il mondo sentendosene responsabili, nonostante il dubbio dell’insensatezza e le temporanee ritirate. Ma per far ciò, occorre prima di tutto riprendere contatto con sé stessi, tornare ad abitare una vita dispersa e frammentata nelle mille incombenze quotidiane, dal susseguirsi di minuti morti che tendono a sopraffarci e a renderci estranei a noi stessi. In un’epoca che ha fatto della feticizzazione mistificata della parola libertà il suo contrassegno, Monteiro Martins ci ricorda che la conquista di un tempo davvero liberato è ancora un’impresa lontana dall’essere raggiunta, e a cui tuttavia possiamo e dobbiamo, ad ora incerta, fare posto:
Niente mi dà più piacere che avere un giorno tutto per me. Senza impegni, senza progetti, senza visite. […] Sono così rari i giorni completamente liberi nei quali è possibile inventarsi la giornata nel momento stesso in cui trascorre. Ho imparato a godermeli come si deve. […]
Chiunque viva da solo in una grande città deve sviluppare l’arte di preservare la propria qualità della vita. Dico “arte” perché è così facile lasciarsi imbrigliare dai piccoli problemi e dagli imprevisti del quotidiano, che prima di accorgersene ci si ritrova completamente schiavizzati da una routine di banche, riunioni di condominio, bombole del gas da cambiare, bollette della luce, del telefono, dell’assicurazione, lavanderia, calzolaio, meccanico e centinaia di altri “dettagli” che ci fanno condurre una vita che non è la nostra. Si diventa una specie di “tecnico della manutenzione” del quotidiano. La continuità di questa routine alienante finisce per produrre uno spiccato senso di irrealtà. L’essere umano rimane separato da sé stesso. Per questo sono così importanti le lune di miele con sé stessi. (pp. 106-107)
Queste possibilità di abitare la gratuità dell’attimo riafferrando i tempi della propria esistenza, ricomponendone la trama e ridefinendo i contorni del proprio personaggio, costituiscono quindi delle preziose occasioni per tornare a (citando una bella canzone di Battisti-Mogol) “Dolcemente viaggiare / Rallentando per poi accelerare / Con un ritmo fluente di vita nel cuore / Gentilmente senza strappi al motore.” Viaggio le cui primigenie e più selvagge radici risiedono per l’autore nel prezioso lascito della madre, nel ricordo dell’amore per la lettura trasmessogli da bambino: un’azione eversiva praticata al buio e di nascosto, capace di farlo evadere dalle angustie conservatrici di una piccola cittadina di provincia, a bordo de “La macchina sognante” (questo il titolo che Monteiro Martins ha dato a un’intensa e ricca conversazione teorica sulla natura, il valore e la funzione della letteratura, edita nel 2015 per Besa Editrice) da cui non sarebbe più sceso, e non avrebbe cessato di farsi guidare, fino all’ultima pelle, con apprezzabili risultati che il pubblico italiano non ha ancora, in larga misura, avuto modo di conoscere.
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