L’indisciplina dell’unicità. Michela Murgia sulla scuola
Riproponiamo questa intervista a Michela Murgia del 2016 del nostro redattore Roberto Contu, ricordandola dopo la sua scomparsa.
A cura di Roberto Contu
Quando ci si interroga sul mondo della Scuola, specie tra addetti ai lavori, si rischia sempre di ritrovarsi persi in luoghi comuni. Incombe la cantilena della sala insegnanti: perché la crisi dell’istituzione, perché lo svuotamento della funzione dell’insegnante, perché la mutazione incontrollata di quell’essere ostile che continuiamo a chiamare studente. Ma se è vero che è l’intelligenza dell’interlocutore a qualificare il luogo e a farlo diventare da comune a vivo, mi dico che sarebbe uno spreco non approfittare della chiacchierata con Michela Murgia. Senza troppi convenevoli, sottoponendole alcune domande importanti, quelle che spesso ci facciamo e rincorriamo, quelle a cui un’osservatrice attenta della contemporaneità come Michela Murgia potrebbe fornire peso e spessore.
Michela Murgia, recentemente lei ha parlato del sistema di valutazione dell’obbligo come cattiva risposta all’esigenza ineludibile di un’educazione complessa. Al di là delle proposte che lei ha avanzato e di quel sentiero parallelo che lei ha riassunto nella categoria di elezione educativa, rimane l’interrogativo che riguarda la figura dell’insegnante. Quanto è ancora in mano a noi insegnanti, in quanto funzione e non mero ruolo, nel poter mediare l’incontro con la complessità?
La questione dell’educazione complessa è uno dei temi nascosti del presente. Quel pezzo sul «Corriere» l’ho scritto dopo aver fatto un lungo viaggio in Scandinavia ed essere entrata in contatto con un modello educativo alternativo al nostro. All’inizio non l’ho apprezzato, perché parte da uno schema culturale completamente diverso, riconosciuto più o meno da tutti nel nord Europa: quello che stigmatizza con sospetto le eccellenze individuali. Chi si discosta troppo dalla media viene considerato pericoloso per la collettività, perché il principio di meritocrazia, mettendo tutti in competizione, è percepito come un disgregante sociale. Non esiste la valutazione individuale degli allievi nelle scuole: si valuta la classe e il fallimento del singolo è percepito come un fallimento collettivo. Non esistono forme di valutazione analoghe alle nostre, del tipo «alzi la mano chi si ricorda la tal cosa», perché quella mano alzata mostra soprattutto quanti sono quelli che non sanno la risposta.
Nei paesi che funzionano secondo il nostro modello la lode a chi sa è data al prezzo del ludibrio altrui e questo scatena una competizione sociale da cui i paesi scandinavi cercano di tenersi lontani il più possibile, almeno formalmente. Il sistema di riconoscimento non è costruito in forma piramidale perché regge la convinzione che più in alto salirà la punta della piramide, più larga dovrà essere la base su cui si scaricherà il peso, con costi di disuguaglianza sociale infinitamente più alti del beneficio di ogni singola eccellenza. La stessa parola “eccellenza” viene guardata con sospetto, perché il più delle volte negli altri paesi viene usata per designare un’eccezione, il caso di qualcuno che ce l’ha fatta nonostante il sistema, mentre in Scandinavia lo sforzo educativo viene fatto verso il traguardo che tutti debbano potercela fare grazie al sistema. Personalmente partivo già con dei pregiudizi molto forti sulla parola eccellenza, sia per come la utilizzava Berlusconi che soprattutto per come la utilizzano Renzi e il suo governo. Ricordiamo tutti la polemica della ricercatrice italiana con la ministra Giannini che ha cercato di appendere il cappello del Ministero ai suoi risultati individuali. Nelle socialdemocrazie scandinave si lotta affinché la punta di diamante sia tale perché ha dietro il diamante. Da questo punto di vista il diamante in Italia sono gli insegnanti, ma il diamante sta nel loro essere persone appassionate del loro mestiere, piuttosto che professionisti nell’esercizio di un ruolo. Chi vuole può semplicemente attenersi al suo ruolo e non fare un passo in più che esuli dal raggiungimento delle cosiddette competenze, rinunciando alla gestione della complessità educativa. Quelli che fanno la differenza la fanno perché vanno oltre quanto richiesto dal loro contratto, in modo anti-sistemico. Questa eccedenza/eccellenza è un’attitudine che il sistema non riconosce in alcun modo, che non legittima, tanto che chi prova a mettere un di più trova immediatamente colleghi che gli chiedono chi glielo faccia fare. Spesso un insegnante di questo tipo finisce addirittura per essere considerato un pericolo, perché immette nel lavoro una dimensione vocazionale che rischia di far sembrare gli altri inefficienti proprio perché si rifiutano di fare ciò per cui nessuno li paga.
Come insegnanti di materie umanistiche avvertiamo ancora tutta la potenza delle lettere nel fornire chiavi alle nuove generazioni per orientarsi nella complessità. Eppure è sempre più faticoso creare ponti tra gli studenti e quegli autori principi del canone che hanno presidiato da sempre la nostra Scuola. C’è a suo giudizio un problema di canone letterario? Quali sono gli autori grandi assenti dalle nostre aule?
I primi autori assenti sono le donne: nel canone non ci sono. Questo è un tema di cui ci siamo occupate in molte, ma non in molti: la sottorappresentazione del pensiero delle donne nel canone non sembra essere un problema di completezza del canone, ma delle donne stesse. Nella mia antologia scolastica l’unica donna era Grazia Deledda, la sola che non si potesse ignorare a causa del Nobel. L’altro aspetto non riguarda tanto gli autori, quanto il dover far uscire le Lettere dalla griglia di valutazione funzionale/disfunzionale che oggi riassumiamo sotto l’idea di “competenza”. Le lauree umanistiche tecnicamente non sono funzionali proprio perché non danno competenze; ma “solo” strumenti di organizzazione del pensiero, sguardo e visione complessa, apertura mentale per progettare il non ancora progettato. Il continuo disinvestimento sulle facoltà umanistiche nasconde l’idea che tutto ciò che non dia funzionalità diretta non serva alla costruzione dell’individuo e del cittadino. Nel nuovo orientamento che vorrebbe distinguere le università in maniera qualitativa, con lauree che valgono di più o che valgono di meno, è chiaro che il grosso dei finanziamenti in questa prospettiva andrà alle facoltà scientifiche, consolidando l’idea che l’insegnamento delle Lettere non sia di alcuna utilità sociale.
Fatta eccezione per la scuola primaria e a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone, l’insegnamento della cosiddetta scrittura creativa sembra trovare poco spazio nelle aule scolastiche. Di fatto si lavora su forme molto più strutturate come ad esempio la redazione di un saggio breve o di un articolo di giornale. Quale è la sua idea a riguardo?
Credo che l’apprendimento delle cosiddette competenze linguistico- letterarie in forma passiva, mai esercitata, sia una delle matrici dell’analfabetismo funzionale; e penso che sia una scelta deliberata, perché la Scuola italiana è da sempre basata su una logica coercitivo-disciplinante. Che posto potrebbe avere in un contesto del genere la scrittura creativa, cioè l’indisciplina della fantasia? Mi sembra che tutto quello che non sia preordinato sia qualcosa di accessibile solo a programmi completati, cioè al termine dell’assimilazione passiva dell’intero percorso nozionistico. Da questo punto di vista l’insegnante potrebbe davvero fare la differenza. Se l’insegnante ritiene di potersi muovere lui stesso in modo creativo all’interno dei programmi, deve lui per primo prestarsi alla flessibilità della fantasia. Ma anche da questo punto di vista si torna al sistema. Questo sistema richiede all’insegnante di essere creativo? Se non lo richiede si tratterà sempre di una variabile individuale e isolata.
La rete, il mondo social ho creato un nuovo universo della comunicazione che è costitutivo anche della stessa sintassi mentale dei nostri studenti. In molti da tempo avvertiamo l’urgenza di utilizzare questa dato di realtà assodato non solo come denuncia di una discontinuità radicale con il passato ma soprattutto come potenzialità per il futuro. Quale è il suo punto di vista a riguardo?
Penso che sia proprio così che vada letta. La compresenza all’interno del sistema scolastico di insegnanti che sono abituati a lunghe concentrazioni su testi complessi e ragazzi che sono abituati a brevi intervalli di attenzione su una molteplicità di piattaforme ricche di stimoli e contenuti, inevitabilmente porterà alla ridiscussione del metodo di apprendimento. In questo momento stiamo vivendo il terremoto, non stiamo vivendo l’assestamento. È normale che molti insegnanti siano spaventati. Ciò è dato dall’evidenza che dovranno spostarsi dalla zona di comfort che considerano acquisita, quella del metodo utilizzato da sempre. Gli insegnati che hanno cinquant’anni o sessanta sono terrorizzati dall’idea di doversi confrontare con un cambiamento di paradigma, ed è comprensibile. Mi spavento di più quando trovo insegnanti quarantenni che hanno questo stesso timore, perché manifestano atteggiamenti conservatori, nei confronti dei social media in particolare, che per i ragazzi sono mondi di relazione. Devo dire di aver riscontrato piacevolmente alcuni esempi in controtendenza, come quando in occasione del lancio del mio ultimo romanzo Chirù, per il quale ho aperto un profilo facebook specifico. Molti insegnanti mi hanno chiesto l’amicizia e hanno interagito con il personaggio. Alcuni di loro hanno assegnato ai ragazzi il compito di interagire a loro volta per cercare di capire chi fosse, così ho iniziato a ricevere messaggi da parte degli alunni. Ho contattato personalmente quegli insegnanti che avevano promosso l’iniziativa e loro mi hanno confermato l’intenzione di voler in questo modo rinforzare la curiosità dei ragazzi verso la letteratura attraverso una modalità insolita, ma ai ragazzi più congeniale. Certo, si tratta di un tentativo quasi ingenuo, ma che rivela comunque una volontà di approccio positivo alle nuove tecnologie. Concordo quindi con la necessità di uno sguardo aperto, cercando di ricalibrare la ricerca dell’obbiettivo formativo anche attraverso questi strumenti.
Concludiamo questa chiacchierata con una domanda sull’imminente Esame di Stato. La Scuola, nelle sue ritualità che a volte sembrano davvero fuori dal tempo (lo sa che ancora chiudiamo i pacchi dell’Esame di Stato con la ceralacca?), segna comunque ancora quelli che un tempo chiamavamo riti di passaggio. Negli anni Sessanta Calvino stigmatizzava l’ansia da esame dei giovani rimarcando come la sua generazione salita in montagna a combattere, non avesse potuto dare spazio a quella paura. Oggi quale significato le sembra possa avere questo passaggio nella vita di un adolescente? E se vuole e per salutarci, ci può raccontare qualcosa sul suo Esame di maturità?
Non gli attribuisco alcun significato se non quello di caricare di tensione e di rafforzare l’idea di performatività. Non mi sembra concepibile che una persona possa essere valutata per un episodio, anche se oggi in quell’episodio entrano alcuni elementi di valutazione degli anni precedenti. In una Scuola dove al centro ci deve essere la relazione e la persona al transito, mi sembra del tutto fuorviante una valutazione così sommaria. Resta vero che il meglio di me nella vita l’ho dato nel momento in cui temevo di essere valutata e quindi ho concentrato le mie capacità in un unico istante che per me doveva fare la differenza, quindi accetto che i ragazzi debbano superare un ostacolo per dimostrare chi sono. Non sono però convinta che quella dell’esame di stato sia una tensione che va in quella direzione, perché in realtà non consente di ottenere niente. Non ci si gioca un lavoro o una posizione di responsabilità, semplicemente si sancisce la sufficiente dotazione di competenze che la Scuola doveva darti. Attraverso quei ragazzi la Scuola sta quindi valutando se stessa con indulgenza: se passano, è merito del sistema che li ha formati, ma se non passano è colpa loro. Io mi domando: davanti a un fallimento di un ragazzo, chi distingue le sue responsabilità da quelle del sistema che doveva prepararlo? Mi rendo conto di essere condizionata da quanto detto all’inizio di questa intervista a proposito dei sistemi diversi di valutazione come quello scandinavo, però sono profondamente convinta che ciò che si costruisce in cinque anni lo si costruisce in base al funzionamento della cornice formativa in cui si è inseriti e in questo senso la valutazione individuale mi sembra un tentativo di scaricare sul singolo le incapacità dell’intero sistema. Riguardo il mio Esame di maturità posso dire che fu atipico. Ero andata via da casa a diciassette anni e mi mantenevo facendo la cameriera in una pizzeria. Andavo a letto anche alle due o le tre quando finiva il servizio e per questo facevo molte assenze. Credevo di compensarle studiando tanto e infatti andavo sempre volontaria, ma gli insegnanti si accorgevano che in questo modo mi sottraevo al potere di verifica casuale cui tutti gli altri erano sottoposti, perché presumevo di poter essere io a dettare i tempi della mia valutazione. Mi ripetevo: cosa conta quanto manco, se comunque le cose le so? Nell’ultimo anno non avevo genitori che andassero ai colloqui per me e gli insegnanti erano costretti all’azione surreale di dover riferire a me le mie stesse mancanze. Feci un esame brillante portando anche la materia facoltativa, ma il commissario interno si batté perché io pagassi in qualche modo le mie troppe assenze e la mia riottosità al valore disciplinante dell’esperienza scolastica. Presi cinquantotto sessantesimi perché della scuola avevo preteso di assumere solo l’aspetto istruttivo, rifiutando quello socializzante. È stata una lezione clamorosa sui veri scopi del sistema scolastico italiano. Non l’ho più dimenticata.
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Roberto Contu
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Marcello Veneziani
ADDIO MICHELA MURGIA
Non dirò nulla di Michela Murgia, morta ieri dopo breve malattia a 51 anni. Sarebbe da ipocriti accodarsi ora agli elogi, sarebbe da canaglie sparlarne ora, alla sua morte. E sarebbe ingiusto giudicarla dal poco che ho letto e sentito di lei. Dico solo che davanti alla morte impallidiscono gli odii e i rancori della vita: non ebbe senso legare l’annuncio grande e funesto della sua morte a una piccola dichiarazione d’odio verso la Meloni. Tantomeno ha senso ora che è morta restituirle il rancore. La pietas vera, non di circostanza, l’accompagni e la pace sia con lei.
Gioiello Tognoni
Senz’altro avrà raggiunto il “nulla” come tutti noi dopo la morte ed è certo sicuro che anche noi, dopo morti, non la incontreremo più.
Questa intervista non aggiunge e non toglie nulla alla memoria della scrittrice sarda. Più interessante è invece soffermarsi sullo psicodramma collettivo organizzato ‘ante mortem’ intorno alla propria fine per iniziativa della stessa Michela Murgia e poi, a ruota, dal sistema dei ‘mass media. Gli aspetti di tale psicodramma che colpiscono maggiormente sono la spettacolarizzazione e la patetizzazione. Ed è da queste coordinate culturali, etiche e sociali che si sprigiona il significato di una messa in scena barocca realizzata da un personaggio pubblico, quale era la scrittrice Michela Murgia, con largo impiego di moderni mezzi audiovisuali, ma strettamente connessa alla tradizione italiana e in particolare meridionale, dove la morte si è venuta configurando, per un verso, come la metafora di una rinascita e, per un altro verso, come la celebrazione individuale, familiare e mediatica della moritura. Per parafrasare Andy Warhol, nel futuro ognuno sarà famoso per settimane se si trova in una condizione senza scampo. D’altronde, che lo spettacolo pubblicitario e quello televisivo pervadano tutta la nostra società, imprimano sulle sue manifestazioni il marchio della decadenza e stiano minando le basi antropologiche del nostro Paese, è ormai cosa assodata, così come è assodato il fatto che sia assai rara un’autentica resistenza intellettuale. Va dato atto, però, alla scrittrice sarda di uno straordinario coraggio nell’aver rifiutato la logica, ad un tempo spietata ed ipocrita, della segregazione ospedaliera cui vengono costretti i malati oncologici terminali e nell’aver mostrato in modo attivo l’esistenza e la praticabilità dei margini di iniziativa e di comunicazione che, malgrado tale condizione, ancora sussistono. Due mi sembrano pertanto essere le lezioni di vita che in tal modo la Murgia ci ha consegnato: noi non siamo coloro che moriranno – anche le bestie muoiono – ma siamo, come dicevano i Greci, i “mortali”, coloro che sanno di dover morire, senza sapere tuttavia che cosa questo significhi e ancor più senza potersi impedire di pensarci. Non si tratta allora di risolvere il problema della morte, ma di affrontarlo. L’altra lezione che Michela Murgia ci ha dato può essere riassunta nella frase di Spinoza: «L’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione non sulla morte ma sulla vita». Laddove è opportuno osservare che la seconda parte della frase è tanto evidente quanto la prima sembra paradossale. Come meditare sulla vita senza meditare anche sulla sua brevità, precarietà, fragilità? D’altronde, Spinoza corregge, in un altro passo, dell’“Etica”, ciò che questo pensiero potrebbe avere di troppo unilaterale. Si tratta di riconoscere che ogni essere vivente è mortale e che nessuno può vivere o perseverare nel proprio essere senza resistere a questa morte che da ogni parte l’assale e lo minaccia. Del resto, nessuno è assolutamente libero e nessuno è saggio per intero. L’autrice del romanzo “Accabadora” sapeva, e ci ha fatto sapere, che queste due caratteristiche umane lasciano al pensiero della morte dei bei giorni o delle notte difficili, che bisogna pur accettare.
[…] Michela Murgia . Autrice di “L’incontro”, un romanzo breve ma intenso ed evocativo ambientato nella Sardegna di metà anni ’80 […]