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diretto da Romano Luperini

Destini individuali e collettivi nel romanzo d’esordio di Lukas Rietzschel “Battere i pugni sul mondo”

È un romanzo aspro fin dal titolo, quello di Lukas Rietzschel, pubblicato da Keller dopo l’ampio riscontro di critica e di pubblico con cui, nel 2018, è stato accolto in Germania. Tradotto da Scilla Forti – una delle “voci” di punta dal tedesco della casa editrice di Rovereto –  Battere i pugni sul mondo ben rappresenta con stile asciutto e essenziale, le radici profonde dello scontento politico-sociale che permea la Germania orientale, in particolare la Sassonia, e che si manifesta negli atti xenofobi che hanno caratterizzato la cronaca locale di questi anni.

Diviso in tre parti, il romanzo rispetta la progressione cronologica degli eventi, scelta piuttosto inusuale nelle scritture dell’estremo contemporaneo che prediligono per lo più il montaggio di sequenze narrative asincrone. Rietzschel invece, al suo esordio, prende per mano il lettore per condurlo in un viaggio nel tempo scandito in fasi successive, come se solo un andamento lineare potesse davvero rendere dicibile l’involuzione del mondo che sta al centro della vicenda: Libro I 2000-2004; Libro II 2004-2006; Libro III 2013-15. La riunificazione tedesca, con il venir meno delle sue promesse di crescita e di cambiamento e le conseguenti disillusioni, viene rappresentata attraverso la specola di una famiglia-tipo e del piccolo paesino ai confini con la Polonia in cui crescono i due fratelli protagonisti del romanzo, Philipp e Tobi che all’inizio della storia frequentano la scuola elementare e dei quali si segue il passaggio all’età adulta.

Non sarà un caso che i destini divergenti dei due ragazzi si coagulino intorno a due luoghi apparentemente normali ma simbolicamente significativi di Neschwitz, il paese in cui vivono, la scuola e la casa, allegorie rispettivamente della dimensione pubblica e di quella privata, entrambe messe in crisi dal tentativo di ricomposizione e amalgama delle due Germanie.

Il romanzo si apre, infatti, con la costruzione di una villetta di proprietà che la famiglia – padre elettricista, madre infermiera –  mette in opera, seppur tra le difficoltà finanziarie successive alla Wende, ossia al passaggio dall’economia di stampo socialista a quella di marca capitalista. La casa si erge sullo sfondo dei relitti del recente passato; spiccano, in particolare, i casermoni popolari tutti uguali, ma ormai scoloriti, e la fabbrica di mattoni refrattari definitivamente chiusa, simbolo della massiccia deindustrializzazione subìta dalla zona, e che nel corso del romanzo verrà demolita con le cariche esplosive:

C’erano uno scavo e una montagna di detriti subito a fianco. La madre si mise sul bordo e guardò giù, verso le pietre grigie, disposte l’una sull’altra a formare un muro. Poi su, verso il cumulo di terra, zolla erbose, ghiaia e frammenti vari. In cima i suoi due figli. Tobi e Philipp. Giacche colorate tutte sporche, Il marito nel punto più basso, là dove sarebbe sorto lo scantinato. La madre guardò da una parte e dall’altra, poi il campo, oltre la strada che avrebbe condotto a casa loro. Lì i tetti piani dei casermoni sbiaditi in lontananza. Philipp le disse che non si ricordava di averci abitato, aveva solo sentito i racconti e visto le foto di un bambino grassottello che doveva essere lui. Poi c’era stato il trasloco, perché avevano saputo che sarebbe arrivato Tobi, e adesso, a distanza di cinque anni, una casa di proprietà. Undici anni dopo la Wende. […] Si vedeva la ciminiera della fabbrica di refrattari. Una torre di mattoni che non fumava più dalla caduta del Muro. Per un po’ c’era stata ancora la possibilità di andare a pranzo nella vecchia mensa, ma poi da un giorno all’altro aveva chiuso i battenti. Da allora gli ex operai avevano smesso di ritrovarsi lì. (Lukas Rietzschel, Battere i pugni sul mondo, Rovereto, Keller, 2023, pp.13-14)

Ma anche la scuola, come si accennava, è una costruzione che assume un significato sempre più denso nel corso della vicenda: soprattutto per il minore dei fratelli, Tobi, diviene al contempo un catalizzatore di attaccamento emotivo – come l’orto del nonno, affittato nonostante la sua accesa contrarietà a degli emigrati –  e un generatore di rancore a mano a mano che peggiorano tanto la situazione familiare quanto quella del paese. Lo stabile pubblico in cui Tobi è cresciuto con il fratello– che fa da sfondo a diverse pagine del libro I – e sentito idealmente come il deposito di una coesione sia privata che collettiva, viene simbolicamente messo in discussione da decisioni politiche che prescindono dalla volontà popolare. La razionalizzazione dei fondi pubblici porta alla chiusura dell’edificio e all’accorpamento della scuola con un altro istituto; dato che quegli spazi sembrano venire destinati a accogliere i profughi mediorientali, nel cortile si tiene una manifestazione xenofoba:

La manifestazione si tenne nel vecchio cortile della scuola. Sulle strutture per arrampicarsi si abbarbicavano le erbacce, dal canestro pendevano brandelli di rete. L’orto incolto. I vetri delle finestre al pino terra coperti da pannelli di truciolato. La porta di ingresso sprangata con assi e chiodi. Un piccolo palco di pallet dove un tempo sorgeva il cassonetto per la carta straccia. Un microfono, un riflettore. […] All’inizio da solo, poi si schierarono sempre più persone lungo i bordi del cortile, finché non restò libero solo il centro, e alla fine una mezza luna davanti al palco. Il ruscello di sottofondo. Alberi e arbusti sulla riva stretta. Mimi. Il primo giorno di scuola. I passerotti di Philipp in corridoio. (p. 292)

Per Tobi perdere la scuola, luogo dell’anima, dopo aver perso l’unità familiare, dopo aver visto il fratello chiudersi in una sindrome depressiva, e dopo aver assistito al degrado della vita degli amici risulta sempre più intollerabile. Dal punto di vista narrativo uno dei pregi del libro sta nella progressiva penetrazione nella mente e nello stato d’animo rabbioso del giovane che nutre lo scontento e il desiderio di rivendicazione sociale del cocente senso di abbandono sul piano privato; è così che collettivo e individuale entrano in un cortocircuito tutto interiore e disposto in un climax crescente:

A Monaco gli stranieri li applaudivano. Per fortuna la proposta di far arrivare i profughi anche alla stazione di Lipsia era stata bocciata. Davanti a quelle immagini, a Tobias veniva il vomito. Anche lui si era imposto il divieto di accedere la TV la sera, mente la madre e la nonna non sembravano ancora stufe di quella merda. I soldi per la Grecia erano saltati fuori. Ora anche per i profughi. Giovani terroristi che venivano accolti con baci schioccanti. Che si prendevano hotel e scuole. «Avremmo dovuto mettere le mani sull’orto già molto tempo fa» aveva detto Menzel. No, per nessuna ragione al mondo. Tobias era favorevole, ma non lo dichiarò. Ora il trenino mezzo marcio in cui erano cresciute le viole del pensiero stava lì, nascosto, almeno a una prima occhiata. Lo aveva infilato sotto il rododendro. Il nonno, il ferroviere. Tobias lo sapeva solo grazie ai suoi racconti. […] Non c’era più un notiziario in cui non si parlasse di rifugiati, i giornali brulicavano di proclami sui nuovi centri di accoglienza (pp. 306-307)

Gli stralci proposti in lettura costituiscono, in un certo qual modo, l’alpha e l’omega del romanzo, collocandosi rispettivamente nei capitoli incipitari e conclusivi della storia e rappresentano il passaggio dalla speranza che si avverte nella prima parte della narrazione – per quanto già qui la tragica figura di Uwe incarni il senso di sconfitta che aleggia nel libro –  alla fine delle illusioni e alla risposta rabbiosa.

Il romanzo di Rietzschel, che traspone in finzione narrativa le tensioni della regione in cui lui stesso è cresciuto e vive, non conosce lieto fine e non offre risposte né facili scappatoie al disagio profondo che investe la popolazione tedesca della parte orientale del paese: la disillusione ideologica, la crescita della disoccupazione, l’impressione di essere il fanalino di coda dell’Occidente seguiti all’euforia per la caduta del muro e alla fine del socialismo di marca sovietica sono la base di quell’intolleranza crescente che è il fiato rancido che emana da molti dei personaggi di questo romanzo. L’invito, implicito, di questo giovane autore sembra essere quello di ripensare la politica, non solo quella locale ma, in primis, quella europea, per far sì che i destini collettivi e quelli individuali – entrambi volti al raggiungimento di mete, desideri, aspirazioni e conquiste –  possano trovare una traiettoria che permetta loro di incontrarsi.

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