Il ministro e il multiverso
La destra ha cultura, e ha una grandissima cultura. Ieri mi è venuto a trovare un amico (…) e mi ha regalato un libretto dov’è scritto – provo a sintetizzare, non ricordo il titolo preciso – “tutti i grandi scrittori sono di destra”. Io ritengo che il fondatore, so di fare un’affermazione molto forte, del pensiero di destra nel nostro Paese sia Dante Alighieri, perché quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri (…) è profondamente di destra
Quando a scuola si gioca con la storia
Il lavoro sui se, su quel che potrebbe essere stato, sui tanti forse della storia e dei testi, è uno dei momenti culminanti della formazione linguistica e letteraria. E ha valenze culturali, psicologiche e umane importanti: da una parte, mette alla prova fondamentali competenze logiche e argomentative individuali; dall’altra, costituisce un’occasione significativa di socializzazione e crescita della comunità, perché provoca uno scambio e a volte un conflitto interpretativo aperto, che genera sapere. Ogni docente appassionato ha modalità e cadenze sue proprie per somministrarlo alle classi; per esempio, nella diffusa forma del gioco di attribuzione di un testo non conosciuto a un autore di cui si conosca la poetica, o nella proposta di forme di scrittura e riscrittura creativa. Ѐ un campo tanto divertente quanto delicato, soprattutto sul piano della valutazione: difficile, infatti, immaginare come attribuire un voto equo a prove in cui è determinante avere il coraggio di sbagliare, non sempre esiste controprova di aver effettivamente commesso un errore ed è necessaria una solida capacità (nell’insegnante come nello studente) di distinguere il risultato finale (talvolta, “sbagliato”) dal processo logico che ha condotto a ipotizzarlo (che può essere corretto anche in presenza di conclusioni errate).
Manzoni era comunista?
Possiamo certamente concepire un lavoro simile anche nella forma di gioco di simulazione virtuale: arruolare scrittori illustri del nostro passato in una parte politica del presente, immaginare come si sarebbero comportati di fronte a eventi, problemi, categorie che non hanno avuto modo di conoscere.
Si potrebbe ad esempio presentare in classe questo problema: Manzoni potrebbe essere considerato un tipico esponente della destra conservatrice contemporanea, cui sta tanto caro lo slogan “Dio, Patria e Famiglia”, valori in cui certamente credeva? Come la mettiamo però con un romanzo in cui dà voce al proletariato, ne sottolinea l’ingiusta sottomissione agli arbìtri dei forti, denuncia la compromissione di una legge scritta e interpretata quasi sempre a favore di chi possiede denaro e potere? Per molto meno, a Papa Francesco è stata spesso affibbiata la qualifica di “comunista”. Dunque Manzoni potrebbe essere letto come uomo/ scrittore di destra o di sinistra, pur non appartenendo né all’una né all’altra fazione, per ovvie ragioni storiche. Il gioco dell’arruolamento può risultare serissimo e appassionante: chiedersi se in un universo parallelo Leopardi sarebbe stato uno sdegnoso intellettuale della destra liberale o un anarchico idealista del primo Novecento non è in sé sciocco o inutile.
Simili questioni mobilitano l’enciclopedia dei saperi fatti propri da ciascuno studente. Per rispondere in modo sensato, infatti, occorre disporre di ampie e solide conoscenze storiche e testuali, dalle quali trascegliere nozioni, concetti e riferimenti pertinenti al problema che viene posto. Bisogna anche essere disposti e inclini a superare gli steccati disciplinari, confrontando e integrando apporti culturali diversi e abilità di analisi e sintesi spesso difficili da conciliare. Infine, è indispensabile saper affrontare la navigazione nel periglioso e affascinante mare dell’interpretazione, utilizzando ciò che si sa per certo – conoscenze e abilità acquisite – per costruire ipotesi argomentate su ciò che si ignora.
Se questo genere di giochi è ben contestualizzato nella dinamica di crescita di un gruppo-classe, se cioè non è episodico e trova una sua continuità nel lavoro quotidiano, implica altre due componenti fondamentali del percorso formativo: l’esigenza di esprimere le proprie ipotesi attraverso una mediazione linguistica di buon livello, e la prova costituita dalla socializzazione del sapere, quando i risultati della ricerca individuale (o a piccoli gruppi) passano al vaglio della comunità. Ѐ in questo momento che l’argomentazione si dispone in tutta la sua ampiezza (idee, abilità, scelte critiche) e la sua forza (qualità linguistica e comunicativa), per misurarsi con altre argomentazioni e vedere riconosciuta la propria dignità, non contro ma accanto ad altre e diverse argomentazioni. Fra gli altri, obiettivo di un simile lavoro è maturare la consapevolezza che non esiste sempre una “verità oggettiva” misurabile/ quantificabile alla quale affidarsi, ma esiste invece sempre la necessità di confrontare le proprie letture con letture altre, con la curiosità di conoscerle e l’intenzione di rispettarle.
Una simile esperienza intellettuale costituisce anche un banco di prova nel percorso formativo della comunità di chi insegna, perché si presta a un confronto serio sui temi divisivi della “didattica per competenze” e dei “compiti di realtà”. Infatti, al di là della critica doverosa alle premesse culturali e politiche di queste categorie – la promozione tecnocratica di un sapere immediatamente spendibile sul mercato della società dell’informazione – investe ragioni e finalità dell’insegnamento: in particolare, il delicato equilibrio fra contenuti disciplinari e metodo, da una parte, e dall’altra il rapporto sempre in discussione fra il mondo interno all’istituzione e i mondi interiori e sociali esterni ad essa.
Cattivi maestri
Ma supponiamo invece che io tenessi una lezione su “Manzoni comunista”. Oppure proponessi un’attività seminariale su “Perché oggi Leopardi sarebbe di destra?”.
In queste situazioni manipolerei il lavoro di interpretazione, snaturandolo alla radice: trasformerei un’esperienza di pensiero divergente in un obbediente lavoro di convergenza. Alle soggettività autentiche degli studenti, tenute a dialogare nel riconoscimento e nel rispetto di un’alterità e di una distanza intellettuale, sostituirei un processo di imitazione e ricamo su una tesi autoreferenziale, data per certa. E alla riflessione sul complesso rapporto fra storia e presente sostituirei una brutale pratica di proiezione sull’oggi, vuota quanto sensazionale, che alcuni storici definiscono “presentificazione”.
Ѐ per queste ragioni, credo, che colpisce tanto la dichiarazione del ministro della Cultura Sangiuliano di ritorno dal viaggio nel suo personale multiverso letterario, da dove ci riporta che “il fondatore (…) del pensiero di destra” è Dante Alighieri. Si tratta infatti di un raro distillato degli atteggiamenti descritti nelle righe precedenti: impressionismo autoreferenziale e schiacciamento acritico sul presente. A cui si aggiunge l’abuso eclatante di una posizione di vantaggio e di potere nel dibattito pubblico.
“Io lo penso, io lo dico, quindi è così perché è la mia opinione”: una logica illogica di cui abbiamo infiniti esempi nella società in cui viviamo, che esalta il valore dall’egocentrismo e del narcisismo. Anche per questo, a chi ha una funzione legata alla dimensione pubblica, a chi è visibile e in diversa misura influente – dalla modesta figura dell’insegnante all’artista, dal famoso calciatore al ministro della Cultura – tocca prima di tutto l’obbligo di offrire un esempio di retto comportamento intellettuale: mostrare che un’opinione non è valida solo perché qualcuno la dichiara ad alta voce, sfruttando magari una sua posizione privilegiata; è valida se fondata su argomenti concreti e se matura in un processo di confronto con chi non è d’accordo, confutando le sue obiezioni.
Insomma, è sempre valido l’insegnamento pop di Stan Lee, in una famosissima vecchia tavola di Spiderman: da un grande potere derivano grandi responsabilità.
Meglio non dimenticarlo, quando dai nostri multiversi personali torniamo nella pubblica piazza.
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È singolare che sia stato proprio uno dei presidenti della nostra repubblica a praticare quel gioco di attribuzione di cui viene sottolineata in questo articolo l’importanza culturale, formativa e civile. Mi riferisco a Ciampi, del quale si dice che, quando era al Quirinale, sottoponesse gli studenti venuti in visita a un esercizio pedagogico ormai collaudato da generazioni. Senza premettere i nomi degli autori, leggeva una dopo l’altra la più celebre canzone civile di Petrarca («Italia mia, benché’l parlar sia indarno…») e quella “All’Italia” del giovane Leopardi («O patria mia, vedo le mura e gli archi…»). Quindi chiedeva ai ragazzi di tentarne l’attribuzione. Più che un compito in classe a sorpresa, era un modo per farli riflettere sul ruolo determinante che questa tradizione poetica, rimasta intatta dal Trecento all’Ottocento, ha giocato nel definire la nostra identità nazionale. Laddove è palese come la domanda che Ciampi poneva agli studenti avesse l’obiettivo, per l’appunto culturale, formativo e civile, di ricordare loro la eccezionale persistenza di un classicismo letterario che ha surrogato per secoli la mancanza di unità politica, linguistica e sociale degli Italiani. Del resto, non solo di questa persistenza e del suo significato ma anche della sua attuale labilità ed estenuazione, si avrà senz’altro modo di riparlare, allargando e approfondendo il discorso sul rapporto tra la scuola italiana e la cultura umanistica, dato che proprio nel 2023 ricorre il centesimo anniversario dell’istituzione del liceo classico.