“L’uomo che voleva nascere donna”. Diario femminista a proposito della guerra di Joyce Lussu
Quello che l’essere umano ha fatto, l’essere umano può disfare, quando non serva più alla conservazione della specie. C’è una differenza tra l’uomo e la pecora: la pecora non può controllare i suoi macellai, l’uomo sì, perché sono della sua stessa specie. (p. 21)
La recente riedizione (Urbino, Edizioni Malamente, luglio 2021) di questo intenso memoriale di Joyce Salvadori Lussu, edito per la prima volta nel 1978, è un’occasione.
Occasione per riscoprire una delle più interessanti personalità del Novecento; occasione per un sintetico ma assai significativo attraversamento del “secolo breve”; occasione, soprattutto, per conoscere lo sguardo di chi seppe sempre tenersi lontana dagli stereotipi; per educazione familiare, forse, o, come sicuramente avrebbe preferito si dicesse di lei, per scelta.
Il commentario della propria vita
L’uomo che voleva nascere donna si presenta come un’autobiografia; è un diario, come recita il sottotitolo, ma un diario “pubblico”, un resoconto storico e quindi politico, nella prospettiva dell’autrice:
A questo punto del mio manoscritto è venuta a trovarmi Nives, una donna molto preparata sia in storia che in politica (che poi è la stessa cosa). Siccome mi fido del suo giudizio, le ho dato da leggere le pagine che ho tirato giù finora. (p. 89)
Un commentario propongo di definirlo, poiché ripercorre i principali avvenimenti della storia mondiale del Novecento a cui l’autrice prese parte, ma anche in considerazione dell’afflato militante dei due capitoli finali (il IX e il X) interamente rivolti alle prospettive delle giovani generazioni, ai danni e ai pericoli a cui le espone la propaganda e propensione alla guerra delle società liberiste emerse dalle macerie del secondo conflitto mondiale.
Malgrado l’uso della prima persona, il racconto è storico, mai introspettivo, attento agli eventi e ai personaggi: i prigionieri austroungarici e i manifesti della prima guerra mondiale, “il nonno agrario che somigliava all’Imperatore” e “lo stalliere Mustafà squadrista della prima ora” (capitolo II); il pacifismo degli anni Venti, il Patto di Parigi del 1928, l’affermazione del fascismo, l’ascesa di Hitler e lo scoppio della seconda guerra mondiale (cap. III); l’invasione della Francia e la guerra di resistenza e di liberazione (cap. IV); il pacifismo del secondo dopoguerra, “la guerra fredda e i deterrenti” e le “guerre di liberazione dei popoli colonizzati dell’Africa e del Medio Oriente” (cap. V); “il movimento giovanile del ’68” (cap. VI); le femministe degli anni Settanta (cap. VII); la conferenza mondiale per il disarmo del 1978 e “l’analisi della legittimità delle forze armate come istituzione sociale” (cap. VIII).
L’argomento è unico e espresso nel sottotitolo, “a proposito della guerra”, ma analizzato attraverso le molteplici tappe percorse da una protagonista d’eccezione la cui prospettiva fuori dagli schemi si dichiara fin dalla ricostruzione dei primi ricordi infantili in cui l’opposizione al fascismo emergente, che costringerà la sua famiglia ad emigrare in Svizzera già nel 1924, è rievocata da una bambina “non infelice, e nemmeno troppo spaventata” (p. 32).
“L’uomo che voleva nascere donna” e la narratrice “combattente”
L’importanza di uno sguardo straniato è suggerita dalla particolare Premessa da cui dipende il titolo: un racconto di mezza pagina che registra l’ultimo disperato pensiero di un aviatore statunitense morto nel rogo del suo aereo («Vorrei essere nato donna vorrei essere nato donna donna donna donna…» furono le parole che gli turbinarono nello spasimo estremo del cervello”). L’incipit narrativo per un racconto storico ha la funzione di introdurre sia l’argomento che, soprattutto, l’angolatura da cui lo si intende guardare. Impossibile, infatti, non cogliere il parallelo fra l’uomo che vuole essere donna e la donna insignita di un’onorificenza tipicamente maschile su cui si apre il primo capitolo, di presentazione della voce narrante:
l’impiegata […] mi aveva chiesto amabilmente «vedova di militare?». Sentendomi declassata da questa supposizione (inoltre non ero ancora vedova), l’avevo trafitta con uno sguardo freddo e marziale e avevo risposto seccamente: «No. Militare. Combattente. Campagna 1943-45» (p. 17).
È l’esperienza di partigiana e l’orgogliosa rivendicazione di ciò che l’ha resa “un essere umano” al di là delle classificazioni di genere a costituire lo speciale punto di vista del racconto, teso a sviluppare la presa di coscienza che impone di “superare l’incancrenita assuefazione all’estraneità e alla delega” (p. 21). A narrare i conflitti del Novecento sarà, con le parole del documento ufficiale che le attribuì la medaglia d’argento al valore militare,
Lussu Gioconda Salvadori di Guglielmo e di Galletti Giacinta […] «esule in terra straniera, perseguitata dalle polizie asservite ai nazisti, costretta ad una vita di privazioni e di sacrifici, di stenti, [che] ha tenuto alta per oltre tre anni la fiaccola della Resistenza lottando con insuperabile fede e valorosa tenacia per il riscatto della Patria. Rientrata in Italia superando pericoli spesso mortali, attraversando arditamente più volte fronti e frontiere, ha assolto missioni di estrema delicatezza ed importanza irradiando intorno alla sua mirabile attività un alone di leggenda». (p. 16)
La guerra e il potere: il “quaderno 13” di Joyce Lussu
È la glossa a questa presentazione che propone, attraverso le sue meticolose puntualizzazioni, esplicito invito ad un habitus mentale, l’argomento che sarà oggetto della discussione: il ruolo sociale delle forze militari e la necessità, per le democrazie, di averne piena consapevolezza e controllo. Leggiamo, quindi, la glossa:
Si sa che lo stile letterario e l’esattezza storica delle motivazioni militari non è mai a livelli accademici. Debbo tuttavia far notare, per i bisnipoti se ritrovassero la medaglia in qualche cassetto (io non riesco a ricordarmi dove l’ho messa), che lottare contro il fascismo non è stato per me un sacrificio, ma una scelta convinta e soddisfacente, e che la fiaccola della Resistenza, a rischio di farmi venire un’artrosi all’articolazione dell’omero, l’ho tenuta alta per ben più di tre anni. L’ultima frase stimolava l’umorismo di Emilio: «si trovano in letteratura ricette», diceva, «sul come comportarsi con una moglie bisbetica o distratta, troppo devota o troppo indipendente; ma con una moglie leggendaria, che cosa si fa?» (p. 16)
Il rifiuto della logica del “sacrificio” non è solo fastidio per la retorica del pro patria mori; la “scelta convinta e soddisfacente” riguarda un tipo di impegno, una modalità di “pacifismo armato”, che Salvadori Lussu esemplifica nelle pagine successive, fondato sulla consapevolezza che “c’è sempre una bella differenza di potere tra i cittadini che non hanno le armi e quelli che, legalmente o illegalmente, le hanno” (p. 68). L’affermazione, pur riecheggiando il celeberrimo aforisma di Machiavelli[1], assume un senso assai diverso e lontano, anche, dalla riflessione che Gramsci affidò al Quaderno 13 (le osservazioni, appunto, sul Principe). Sottolineare l’estensione della resistenza ben oltre il triennio ’43-’45 (p. 69: “la guerra partigiana che avevo combattuto era stata soltanto l’inizio di una lunghissima serie di guerre partigiane altrettanto legittime e necessarie”), così come l’ironia sulla dimensione “leggendaria” della sua attività di combattente, significa immaginare un differente rapporto fra società civile e corpi militari, fra individuo e potere. Una differenza che la prospettiva “femminista” del diario aiuta a comprendere e che le democrazie non devono sottovalutare perché, come si legge in una delle pagine conclusive,
le vicende di questo secolo sembrano dimostrare che una società la quale ha fatto una rivoluzione economica e sociale, se non inventa anche un diverso rapporto tra l’arma e l’essere umano, tra i poteri armati (esercito, polizia e criminalità vera o presunta, violenza armata legale o illegale) e la massa dei cittadini disarmati, tra cui tutte le donne, ricade anche in altri campi in assetti molto simili a quello precedente. (p.134)
Perché ciò che è stato si è ripetuto: le origini delle guerre contemporanee
E il nocciolo della questione è proprio questo, al di là o, meglio, per mezzo del rifiuto degli stereotipi che vorrebbero la pace femminile e la guerra maschile e che organizzano la realtà in un sistema binario (allora come oggi, ci ricordano le importanti riflessioni di Zinato e Rossetti). Una delle annotazioni più interessanti del Diario riguarda, infatti, l’origine della guerra come la conosciamo e come non si è interrotta mai, malgrado i roboanti proclami. Essa è legata, in un paradosso solo apparente, alla prima formulazione dell’illegalità della guerra con cui i governi delle grandi potenze nazionali e i loro giuristi risposero alle richieste di pace “dopo l’orrendo massacro della [prima] guerra mondiale”. Alla fine degli anni Venti
la guerra non venne più riconosciuta come condizione in cui i vari belligeranti hanno pari diritto di dirimere una controversia con la forza delle armi; ma si partì dal principio secondo cui, in un conflitto armato, uno è necessariamente l’aggressore e l’altro necessariamente la vittima. […] Il patto Kellog-Briand2, abolendo la legalità della guerra tradizionale, che riconosceva agli Stati il diritto di usare le armi gli uni contro gli altri con l’obbligo di dichiararla prima di aprire le ostilità (secondo i principi che avevano regolato il duello tra singoli), e riconoscendo come solo scopo bellico quello dell’aggressione con conseguente difesa dell’aggredito, aboliva anche la dichiarazione di guerra, la pubblicità data alle azioni guerresche intraprese dagli stati. Per cui le guerre continuavano a scoppiettare ai margini dell’Europa […], ma, dato che non vi erano state dichiarazioni di guerra, la Società delle nazioni non ne teneva conto. Se poi si trattava di guerre più lontane […], al posto del termine guerra si usava pacificazione, e i conti, per le grandi potenze, tornavano sempre. (pp. 39 e 41)
La lunga citazione è giustificata – ritengo – dalle troppe missioni di pace in cui il nostro paese è stato ed è coinvolto con buona pace dell’articolo 11 della Costituzione nata dalla Resistenza; ma l’interesse de L’uomo che voleva nascere donna non si ferma alla pur importante archeologia di parole che inquinano i nostri pensieri e le nostre vite. Intrecciata alla discussione sulla guerra e sulle milizie si snoda la riflessione sul valore e sul ruolo della cultura, sulla qualità delle relazioni umane, sulla funzione del dialogo e del rapporto fra generazioni per gestire collettivamente e, quindi, democraticamente, il potere.
Didattica e gestione del potere: non solo ’68.
L’insegnamento, attraverso personaggi-emblema (dalla madre, al padre, al compagno di una vita Emilio Lussu, a Hero e Jalal Talabani, la coppia di amici curdi irakeni), avvenimenti, osservazione delle sue istituzioni e modalità, è presente lungo l’intero racconto: a partire dall’immagine che lo innesca (i giochi dei nipotini “circondati da fucilini, pistole di plastica e carri armati in miniatura. Su questo materiale didattico le insegne erano tutte americane”, p. 18); fino alla conclusione sulla vicenda di Giancarlo, figlio di contadini di Civitanova Marche, vittima dell’educazione impartitagli in un monastero benedettino prima e dalla legione straniera poi.
Anche in questo ambito la mancata cesura fra un prima e un dopo il 1945 ha valore emblematico. Rilevante infatti, e sottolineata dalla narratrice (p. 37: “quando nel ’68 cominciò il movimento studentesco contro l’autoritarismo scolastico, mi sembrò di tornare alla prima adolescenza”), è la corrispondenza fra il comportamento degli educatori della Fellowship School frequentata vicino a Ginevra dal 1925 (“questi insegnanti, però, non insegnavano nulla”) e l’inettitudine degli adulti di fronte ai “giovani del ’68”.
Credo […] che manchi una critica approfondita agli adulti del ’68. La frattura fra le generazioni non era voluta e cercata dai ragazzi e dalle ragazze, che invece erano alla ricerca di genitori decenti, di padri e di madri, di nonni e di antenati, di riferimenti storici e politici” (p. 80).
Una considerazione che, additando nei genitori i principali responsabili di quella frattura fra le generazioni che ostacola la formazione, si chiude sull’amara considerazione che “la permissività inarticolata ha gli stessi effetti dell’autoritarismo ottuso: genera un senso di abbandono e fa dei figli degli orfani” (p. 81). L’invito ad un’assunzione di responsabilità rispetto al potere, trascende così i confini bellici inducendo un ripensamento complessivo del nostro modo di intendere le relazioni e di collocarci nella società, e contiene l’auspicio di un insegnamento che arresti il processo che ci ha portato ad essere “cittadini ignari e fessificati […] [che si] consol[ano] leggendo i romanzi di fantascienza” (p. 105)
[1]Machiavelli, Principe, cap. VI: «tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno».
[2]È il Patto di Parigi, firmato il 27 agosto 1928 e denominato dai nomi dei ministri degli esteri di Francia e Stati Uniti che ne furono promotori.
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