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diretto da Romano Luperini

I consigli di lettura del nostro blog per l’estate 2022

Daniele Lo Vetere

Come già ho fatto in passato, segnalo un romanzo, un’opera di poesia e un saggio (un saggista, più precisamente). Sono suggerimenti piuttosto idiosincratici, come d’altra parte è l’esperienza di un lettore. Mi sono sforzato quanto meno di selezionare, fra le ultime caotiche letture, qualcosa che possa essere d’interesse anche per altri e che si presti a una lettura sotto l’ombrellone.

Topeka school di Ben Lerner (Sellerio 2020) è il terzo romanzo di questo quarantenne scrittore statunitense, che ha esordito come (cerebralissimo ma notevolissimo) poeta (Le figure di Lichtenberg, ed. it. Tlon, 2017). Topeka è la città del Kansas in cui Lerner è nato. Il protagonista del libro è l’adolescente Adam, campione nazionale di debate, figlio di genitori ultraliberal della borghesia colta, ma immerso nell’ambiente della provincia americana profonda e repubblicana. Il libro ha molti centri focali, può perciò interessare lettori anche molto diversi tra loro, nessuno dei quali dovrebbe rimanere deluso, perché Lerner è davvero scrittore di razza: i rapporti familiari, la violenza di branco degli adolescenti, l’agio vuoto della classe media americana, la onnipervasiva cultura terapeutica di quella società, la vita scolastica. Il libro è soprattutto una straordinaria riflessione sul linguaggio: l’afasia che impedisce di esprimersi, la creatività poetica, il suo abuso per schiacciare gli avversari, …

Con la mia sete intatta. Tutte le poesie (Marcos y Marco, 2020) raccoglie l’intera opera poetica di Ferruccio Benzoni. Benzoni, nato a Cesenatico nel 1947 e morto ad appena cinquant’anni, è stato un poeta dalla voce sicura, assai più sicura di quanto il suo oblio non farebbe sospettare. Per questo è meritevole il lavoro di recupero del giovane poeta Dario Bertini, che ha curato il volume. I motivi dell’opera di Benzoni sono quelli di un poeta “esistenziale”, come l’amato Sereni (che insieme a Fortini, Pasolini, Raboni ne apprezzò i versi): l’infanzia, la morte precoce della madre, l’amore per la moglie Ilse, i luoghi della propria vita … In quasi ogni sua poesia si riconosce, sullo sfondo, un evento biografico, un ricordo, una meditazione quotidiana: difficile però ricostruirla nella sua interezza, perché Benzoni è sì poeta esistenziale ma anche poeta che ama gli scarti analogici, i (bellissimi) guizzi di colore, l’inseguimento di istanti e sensazioni subito inghiottiti dall’attimo successivo. In tanta ricchezza il lettore può trovare il proprio cantuccio e ammirare; e spesso commuoversi. 

Byung-chul Han è un filosofo tedesco di origine coreana. Scrive svelti libretti in cui affronta molti temi di stretta attualità (l’infosfera, la virtualizzazione delle nostre esistenze, l’accelerazione del ritmo della società contemporanea, l’involuzione della politica postdemocratica, l’ottundimento del benessere …) operando una sintesi di molta tradizione filosofica continentale. Non è un blando divulgatore, perché la qualità della scrittura (chiara, essenziale, rigorosa ma piacevole) e la capacità di rielaborazione di filosofie anche molto complesse lo collocano ad un livello certamente più alto. Naturalmente i lettori professionali di filosofia potrebbero arricciare il naso per la mancanza di originalità o di affondi speculativi memorabili. Ma non è questo il pregio di Han, che consegna ai lettori non specialistici una visione più articolata e consapevole della contemporaneità. Si può iniziare davvero da un libro a scelta fra i suoi. Dovessi suggerirne qualcuno, io partirei da La società della trasparenza (2014) o da L’espulsione dell’Altro (2017). Ma si può accedere tranquillamente da altre porte. 

Linda Cavadini

Mai come quest’anno ho letto in modo caotico, aprendo tanti fili e percorsi. Lo ammetto è il fascino dell’essere una lettrice compulsiva, però questo articolo è anche l’occasione per fare ordine. Nel consigliare i libri seguirò tre coordinate: libri che leggo per consigliarli o lavorarci con gli studenti, libri che leggo per crescere come insegnante, libri che leggo come lettrice. A pensarci bene però si tratta poi di tre facce di una stessa medaglia.

Due libri per gli studenti e le studentesse: da consigliare e leggere insieme

Quel che c’è sotto il cielo, poesie del mondo che è in me. Scelte e commentate da Chiara Carminati, (Mondadori 2022)

Quando un poeta sceglie delle poesie racconta una sua storia con le parole e le immagini degli altri: Chiara Carminati si affida alle immagini della natura per illustrare le forme diverse della poesia che è acqua, fuoco, aria e terra. Ogni sezione si apre con una pagina in prosa, sorta di quinta che immette nei testi; le illustrazioni di Carlo Manea poi raccontano un’altra storia ancora. In questa raccolta trovano spazio autori contemporanei e non come Chandra Livia Candiani, Mariangela Gualteri, Valerio magrelli, Franco Fortini, Alfonso Gatto, Luciano Sinisgalli.

Alessia Petricelli e Sergio Riccardi, Per sempre, (Tunuè edizioni 2020)

Viola ha davanti a sé tutta l’estate, la stagione dell’attesa e delle opportunità, la stagione in cui tutto sembra possibile, soprattutto se hai sedici anni, un gruppo di amiche, una spiaggia, due genitori con cui litigare giorni e notte e Ireneo, un nome greco e il sogno di sistemare una barca e andarsene via. Poi ci sono Paola e Lili che vivono in un camper, hanno una sola estate ma tanto amore addosso, perchè l’amore è per sempre, non nel senso che dura un’eternità, ma che ci lascia dentro un segno indelebile. Questa graphic novel ha davvero spopolato nella mia biblioteca di classe, ma ha il grande pregio di parlare anche a noi adulti che da quella estate siamo passati.

Un libro per me docente, per studiare, progettare e costruire:

Silvia Pognante e Romina Ramazzotti, Il racconto autobiografico con il metodo WRW Writing and Reading Workshop. Laboratorio di scrittura per la scuola secondaria di primo grado (Erikson 2022) trasformare la classe in un laboratorio di scrittura è uno dei capisaldi del reading and writing workshop, una metodologia che trova sempre più spazio nelle aule italiane. Questo libro è un valido aiuto per studiare, progettare, costruire percorsi sul racconto autobiografico: stimola domande, offre risposte e percorsi. Le autrici garantiscono una guida puntuale e ben argomentata per insegnare a scrivere il racconto autobiografico attraverso tutte le fasi del processo di scrittura, dalla pianificazione alla valutazione. Le 18 minilezioni e tutte le strategie per personalizzare il percorso indicano come fare, spiegano le ragioni e le sostengono. E’ un libro che aiuta, ispira, non spaventa ma accompagna.

Un libro per me lettrice: per il piacere di leggere, semplicemente

Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi 1976)

A gennaio ho vissuto giorni di confino per il covid, persa a immaginare il mondo da tre metri per tre, con la testa senza concentrazione: ho iniziato tanti libri, ma di tutti saltavo pagine e periodi, le lettere danzavano davanti come schegge impazzite.

Poi, eccolo, il libro medicina che mi ha offerto una mano, sebbene spinosa: un libro difficile di cui per una buona metà non ho capito nulla, un romanzo in cui si sentono i suoni, le lingue e le voci tra le pagine, ma distinguerle è difficile.

Mentre leggevo mi pareva di navigare tra i flutti, persa in una lingua che aveva tanti registri e che replicava il caos; le immagini si affastellavano potenti e a fisarmonica tra violenza e quiete: il pazzo eremita, i denti digrignati dietro una feritoia, lo sputo tondo sul vestito verde del bambino che ride, le lumache e i molluschi, la luce siciliana. Il protagonista non è eroico, non è passionale, non è quello in cui ciascuno vorrebbe identificarsi eppure dice la verità, amara e scomoda, e la affida a una lettera, non la recita a gran voce in una piazza. Questo romanzo mostra che ciò che rende un’opera eterna non è il tema, non è l’argomento, è come viene scritta. Vincenzo Consolo non tratta il lettore come un bambino da prendere per mano, ma gli impone la fatica di leggere e di stare agganciato alle parole. Per capire.

Stefano Rossetti

A meno che non decidiamo di emigrare, ci toccherà sicuramente un’estate elettorale fitta di riflessioni e dubbi. Niente di meglio, allora, che leggere alcuni libretti molto seri, piccoli nella mole ma densi nel contenuto, scritti in stile chiaro e incisivo. Nella varietà di approcci e argomenti, il tema di questi consigli sarà dunque lo studio di alcuni aspetti del nostro immaginario collettivo, la sua tendenza a cristallizzarsi in facili stereotipi, la necessità di individuare strumenti che ci liberino da essi. 

Il primo è uno scritto a più mani: Perché lavoro? (edito Da Feltrinelli nella collana “Ricerche”, nel 2020). In una prospettiva politica e sociologica, i tre autori analizzano l’intreccio fra le dinamiche del mercato, la costruzione dell’identità da parte di chi lavora, il racconto delle esperienze lavorative nel percorso esistenziale. Nel libro, occupa un posto particolare il saggio che Richard Sennett dedica a Eric Hobsbawm: “Il lavoro e le sue narrazioni”. Per una volta, il termine narrazione, fra i più abusati della storia linguistica recente, riacquista spessore semantico e valore etico. Sennett riflette sulle sue interviste sociologiche a lavoratrici e lavoratori, e focalizza l’attenzione su come le persone si raccontano in tempi di turbocapitalismo, quando il lavoro è seriale, dissociato, regolato da “un comportamento aziendale basato esclusivamente sull’adesso”. Mentre leggiamo queste storie, confrontiamo le nostre narrazioni su di noi con quelle di chi sta appena cominciando a lavorare, o di chi ancora non ha messo piede in questo nuovo mondo. Un potente strumento di autoanalisi e di dialogo, prima di tutto con i nostri studenti.

Il secondo libro ha per titolo quello di un famoso articolo scritto nel 2008 dalla versatile intellettuale statunitense Rebecca Solnit: Gli uomini mi spiegano le cose. Non è tanto importante che sia stata effettivamente lei a utilizzare per prima la parola mansplaining, oggi al centro del dibattito sulla discriminazione di genere (e resa famosa in Italia da alcuni scritti e interventi pubblici di Michela Murgia). Conta invece che la sua riflessione sulla supremazia maschile, rappresentata in modo plastico dall’atteggiamento di superiorità pregiudiziale nei confronti delle interlocutrici donne, abbia influenzato profondamente il discorso del femminismo americano ed europeo degli ultimi dieci anni. Nella raccolta che prende il titolo da quel fondamentale articolo (edita da Ponte Alle Grazie nel 2020) compaiono altri saggi di grande spessore, fra i quali la stupenda “riflessione sull’inesplicabile” in una delle madri del pensiero femminile (“L’oscurità in Virginia Woolf). Una prosa appassionata, approcci sorprendenti, idee provocatorie: una lettura molto interessante, da condividere, cui fanno riferimento più o meno esplicitamente le intellettuali più impegnate su questo versante (penso in particolare, nel nostro Paese, a Murgia e Gheno). 

Dal dibattito pubblico sulla discriminazione di genere parte anche Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo, di Andrea De Benedetti (fresco di stampa per Einaudi). La sua prospettiva è complementare ed opposta rispetto alle tesi delle intellettuali appena citate, e in generale denuncia il progressivo involgarimento del dibattito che si accompagna alla sua diffusione sui social. Il libro sottopone a un’attenta analisi costi e benefici di alcune fra le proposte di modifica di forme e strutture della lingua italiana, considerandole nel più ampio contesto del costume e della cultura. A partire dalla distinzione di fondo fra la giusta lotta al pregiudizio e la correttezza e fattibilità della sua traduzione in provvedimenti di legge o norme linguistiche, il ragionamento si articola attraverso esempi concreti e riferimenti alla realtà di altri Paesi europei che stanno affrontando il tema. La sostanziale bocciatura dello schwa operata da De Benedetti è ovviamente opinabile, ma la lettura solleva dubbi e riflessioni significative, soprattutto per le premesse filosofiche dalle quali muove, ben sintetizzate dalla citazione di Tiziano Scarpa che leggiamo nella penultima pagina:

Le parole non ci rappresentano. Nessuna parola, mai. Nella diffidenza verso le parole, lì (..) sta il nostro posto nel mondo: che non è dentro le parole, ma nell’ombra che le parole gettano di fianco a sé stesse. (…) Credere che le parole possano accomunare, rispettare, accogliere, contenere, includere, è un errore politico, perché è un’illusione.

Infine, quasi a sintetizzare il senso di questo breve percorso, consiglio di studiare un’operazione meritoria di messa in discussione di luoghi comuni. La compiono le autrici e gli autori del collettivo Officina del sapere, nel volume Contronarrazioni (edito da Castelvecchi nel 2021). Nella prefazione, Piero Bevilacqua spiega l’intento del collettivo: offrire a chi legge “interventi brevi di demistificazione, che demoliscano leggende e false notizie, destinate a un largo pubblico, quali strumenti militanti di controinformazione”. Il libro muove quindi da stereotipi fortissimi nel dibattito pubblico, espressi nella forma in cui si presentano spesso nei media, condizionando pesantemente l’immaginario collettivo e le rappresentazioni sociali, fino a divenire strumenti di lotta e propaganda politica (in genere, per veicolare ostilità e violenza). Caratteristica fondamentale di queste verità è che appaiono indiscutibili, dotate di una logica interna e di un’evidenza che sembra renderle impermeabili a qualsiasi critica. “GLI IMMIGRATI CI RUBANO IL LAVORO”, “TUTTI AL CENTRO”, “LE GRANDI OPERE AIUTANO LO SVILUPPO”, “IL DIGITALE Ѐ LA SCUOLA DEL FUTURO”: sono alcuni esempi di miti e leggende culturali che il collettivo intende invece mettere in discussione, osservando da una diversa prospettiva. Con una ginnastica mentale difficile e utilissima.

Morena Marsilio

Tra le letture di queste settimane estive, ne segnalo tre, diverse per trama e ambientazione (USA, Francia, Israele-Polonia) ma comuni per la messa a fuoco di un medesimo tema: le relazioni familiari.

Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson (1962) tradotto da Monica Pareschi per Adelphi (2009), è un romanzo narrato in prima persona dalla diciottenne Mary Katherine Blackhood. La giovane vive isolata nella nobile dimora avita con l’amata sorella Costance, maggiore di qualche anno rispetto a lei, e con lo zio Julian, ormai invalido: i tre sono quanto rimane di tutta la famiglia, morta per un avvelenamento di cui è stata ritenuta colpevole Costance, dedita alla coltivazione dell’orto e alla trasformazione dei prodotti della terra in conserve e confetture. Prosciolta dall’accusa, i Blackwood superstiti conducono un’esistenza fondata sulla ripetizione ossessiva di piccole abitudini che per loro assumono una funzione quasi rituale e difensiva dal mondo. Infatti la chiusura rispetto agli altri abitanti del paese è pressoché totale: la gente sparla alle loro spalle, ne osserva movimenti e comportamenti rendendoli oggetto di filastrocche per bambini:

Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.

Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.

Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?

In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire.

(S. Jackson, Abbiamo sempre vissuto nel castello, Milano, Adelphi, 2009, p.28)

Con grazia e levità Mary Katherine narra gli stratagemmi e i sortilegi con cui cerca di proteggere la casa e i suoi abitanti da intrusioni del mondo esterno, come l’abitudine a sotterrare oggetti di famiglia o a farli divenire amuleti difensivi della loro intimità.  Ma l’arrivo imprevisto dell’avido cugino Charles turberà l’ordine e l’armonia del piccolo nucleo familiare imponendo a Merricat l’impiego di tutti i suoi “poteri” per fargli fronte. Un romanzo gotico in cui l’innocenza e l’ingenuità dell’io narrante si fondono al perturbante e all’ossessivo mettendo a nudo lo sdoppiamento irrisolto dell’animo umano.

Oramai non passa estate senza che inserisca tra i libri che porto con me un romanzo di Georges Simenon, “padre” del commissario Maigret. In realtà la sterminata produzione narrativa dell’autore francese comprende anche numerosi romanzi di ambientazione borghese, in cui con raffinata penetrazione psicologica se ne mette a nudo ipocrisia e perbenismo. È il caso del Signor Cardinaud (1942), edito da Adelphi e tradotto da Sergio Arecco, romanzo breve al centro del quale l’omonimo protagonista, impiegato presso un’agenzia di assicurazioni di cui aspira a diventare socio, deve fare i conti con il repentino abbandono della moglie. Il terremoto scuote alla radice le ambizioni piccolo-borghesi di Cardinaud: infatti a una vita ordinata e prevedibile, nella quale il giovane uomo si è prefissato di riscattarsi dalle umili origini familiari e di dare vita a una famiglia rispettabile nonché all’edificazione di un’abitazione nel “quartiere buono” del paese, ovvio coronamento da esibire a familiari e compaesani – Marthe sembra preferire la fuga con un poco di buono, un avanzo di galera violento e privo di denaro. A dispetto del compatimento e della derisione che sente intorno a sé, tuttavia, Cardinaud decide di mettersi sulle tracce dei due fuggiaschi per riportare a casa Marthe:

Sarebbe andato a riprendersi Marthe, l’avrebbe riportata a casa, perché il suo posto era lì, accanto a lui e ai bambini; ci sarebbe andato perché non credeva nel male o, per meglio dire, perché confidava nel trionfo del bene sul male, nella supremazia dell’ordine sul disordine, perché, in definitiva, confidava nell’inevitabile, fatale armonia (G. Simenon, Il Signor Cardinaud, Milano, Adelphi, 2020, p. 97).

Il congegno narrativo del romanzo rispecchia anche nella sua più intima essenza la “supremazia dell’ordine sul disordine”: lo stile piano, il linguaggio privo di asperità, la progressione della vicenda rende pienamente l’ideale di vita grigio e piatto ma inscalfibile del Signor Cardinaud.

Infine invito i lettori del blog a mettersi in valigia Canaglia di Itamar Orlev (edito da Giuntina e tradotto da Silvia Pin): figlio di Uri Orlev, autore conosciuto per L’isola in via degli uccelli e di Corri, ragazzo, corri, Itamar esordisce con una storia familiare intensa. La copertina ricorda il gesto di Enea che si carica sulle spalle il vecchio padre Anchise per metterlo in salvo dall’incendio di Troia e allude al momento in cui in effetti il protagonista, Tadek, tornato in Polonia da Israele per rincontrare il padre con cui ha rotto i ponti da anni, lo porta in spalla in alcuni tratti del viaggio che intraprendono per tornare a visitare il paese originario. Si tratta di un’azione che il lettore non si aspetterebbe: giunto oltre la metà del romanzo ha conosciuto la distanza siderale che intercorre tra padre e figlio e la relazione piena di contraddizioni che li contraddistingue. Eppure Tadek, alle soglie dei quarant’anni, fallito come scrittore e come marito, desidera congedarsi da quest’uomo, nonostante sia stato un padre violento, sconsiderato, ora relegato in una struttura per anziani, ancora più odioso, volgare e consumato dall’alcol di un tempo. Quando i due stanno per perdere il treno a Varsavia, diretti nel cuore della campagna polacca ancora governata dal regime comunista per ritrovare le radici comuni, il figlio esorta il padre a salirgli in groppa:

Di colpo, percepii il suo corpo aderire al mio. Le sue mani si appoggiarono sulle mie spalle circondando il collo. Una reggeva ancora il bastone. Mi piegai leggermente in avanti, con un unico movimento secco lo feci saltare sulla schiena. Il suo corpo era molto più leggero di quanto immaginassi, come se le ossa fossero diventate cave. Il suo viso toccava la mia guancia. (I. Orlev, Canaglia, Roma, Giuntina, 2022, p. 228)

È da questo contatto fisico che sembra prendere avvio il dialogo incessante e sofferto tra padre e figlio, un dialogo che si fa viaggio della conoscenza per Tadek che ben poco sa dei drammi storici attraverso cui è passato il padre. Non sarà un viaggio che porterà suo padre, “la canaglia”, all’assoluzione da tutte le sue malefatte, ma un tragitto di reciproco incontro, necessario a istituire una forma di riconciliazione tra i due e, al contempo, di congedo.

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