Inchiesta sulle scuole di scrittura/9 – Bruna Graziani
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Nella sua Introduzione al volume Convergenze del 2010, Remo Ceserani rilevava il persistere di una “straordinaria vitalità della narrazione in tutte le sue forme”: da una parte il genere romanzo, “un gatto sornione dalle sette vite”, dall’altra il diffondersi di un “vero e proprio bisogno di narrazione (…) in pratiche conoscitive che programmaticamente si distinguono dai romanzi”, lo storytelling.
A oltre dieci anni da quel saggio si assiste alla continua espansione delle scuole di scrittura, alcune delle quali includono la pratica dello storytelling nei loro intenti programmatici. Il blog “Laletteraturaenoi”, dopo le precedenti inchieste (editor, traduttori, copertine, librerie indipendenti, scrittura per giovani-adulti e narratori d’oggi) continua il suo sondaggio sulle forme del lavoro culturale odierno con un questionario rivolto a chi insegna nelle scuole di scrittura.
1. Come è approdato/a alla docenza in una scuola di scrittura? Da quanto tempo insegna? Ha frequentato a sua volta una scuola di scrittura?
Per prima cosa va detto che ho sempre amato leggere. A casa si leggeva molto, i libri erano ovunque. Da parte di padre, la cultura artistica: mia nonna componeva poesie (piuttosto ingenue) e recitava, gli zii dipingevano e suonavano vari strumenti e sono cresciuta in un’atmosfera molto dannunziana (con tutte le conseguenze del caso) dove teatro, musica, danza classica, scrittura avevano un ruolo di peso. Ma l’amore per le storie, l’imprinting che evidentemente non mi ha mai abbandonato, nemmeno quando indossavo il camice con appuntato il caduceo, viene sicuramente da mia madre, nata e cresciuta in un piccolo paese di provincia, dispensatrice di fantasmagoriche storie vere e delle loro inesauribili varianti.
Per questioni familiari, mi sono laureata in farmacia, ma dopo vent’anni di lavoro, ho lasciato – ammetto, con incoscienza, ma all’amore non si comanda – la professione per dedicarmi alla narrazione. Collaboravo già con alcune case editrici, correggendo bozze e valutando manoscritti. Ho frequentato qualche corso di scrittura, e poi la libera università dell’autobiografia di Anghiari, che per il momento che stavo vivendo ha avuto un ruolo fondamentale. Credo che si debba partire sempre da lì, dall’autobiografia, dall’introspezione, che non deve essere fine a se stessa, ma deve essere condivisa e ha bisogno di una forma. Partendo dall’idea che siamo quel che facciamo, penso che anche quando scriviamo delle nostre esperienze, dobbiamo essere concreti, mostrare e non spiegare, esattamente come nella fiction. In questo modo, l’autobiografia può varcare la cerchia familiare. Thibaudet, nella Réflexion sur le roman, sostiene che «il vero romanzo è sempre un’autobiografia del possibile”.
Ecco quindi che partendo da questa idea di base, e naturalmente studiando, leggendo, scrivendo (ho partecipato a varie collettanee) e sperimentando, ho cominciato a tenere dei corsi che negli anni si sono intensificati. Nel 2008 ho fondato “Il Portolano”, scuola di scrittura autobiografica e narrativa, in cui sono di casa autobiografi, scrittori, critici letterari, esperti di medicina narrativa, neuronarratologia ed editoria. Dall’esperienza e dai miei approfondimenti, sono nati anche i “Desperate writers”, 3 vademecum di scrittura, editi da Kellermann editore: uno sullo stile (Vademecum per scrittori irriducibili), uno sul personaggio (Prove temerarie di costruzione) e uno sul racconto breve (Una galassia in palmo di mano). Ma ho accumulato materiale consistente per altri libri, e sull’autobiografia e sulle tecniche immersive.
Dal Portolano e da chi vi ha partecipato è nato nel 2014 CartaCarbone, un festival di letteratura con una forte impronta autobiografica, giunto quest’anno alla sua nona edizione e che ha visto la partecipazione di più di 1300 ospiti in circa 600 eventi: si tiene durante la seconda settimana di ottobre, ma allestisce incontri anche durante l’anno.
Ho sempre mantenuto contatti con le case editrici, intensificati anche grazie al festival, e dal 2021 ho la direzione di Carvifoglio, collana di narrativa contemporanea per Ronzani editore.
2. In base alla sua esperienza quali sono le aspettative di chi si iscrive a un corso di scrittura e quali gli obiettivi a cui un docente può ragionevolmente mirare? Insomma quanta possibilità di incontro esiste tra la molla che muove la “domanda” e le possibilità oggettive con cui l’”offerta” risponde?
Un docente dovrebbe insegnare prima di tutto ad amare la scrittura in tutte le sue forme, anche in quelle minime, di servizio. Un biglietto d’auguri, se scritto bene (che non significa ‘ornato’), può lasciare il segno. Rispettare e saper usare le parole, divertirsi a percorrere il tragitto del senso, analizzarne le potenzialità, trovare piacere a maneggiarle creativamente stupendosi del significato che sprigiona ogni combinazione; questo dovrebbe essere il primo obiettivo. Siamo creature narranti, non possiamo sopravvivere senza far uso di storie e produrre invenzioni, fantasie, illusioni, fin dall’infanzia. Le storie sono un terreno privilegiato per fare esperienza, acquisire modelli di problem solving attraverso i naturali processi di simulazione che la nostra mente attiva durante la lettura. Una vera e propria “palestra cognitiva”, sia nell’ambito dell’autobiografia che della fiction.
Solo dopo si dovrebbe cominciare a ragionare sulla costruzione di una storia, a partire dalla sua forma naturale, quella crono-causale, che è poi quella delle conversazioni quotidiane, strutturata su modelli riconoscibili perché mutuati dalla notte dei tempi. La fabula, per intenderci, dove un fatto è conseguenza del precedente. Far capire che ogni cosa parte da lì e che tutti gli spunti sono buoni, anche quelli apparentemente banali (“datemi un posacenere” ecc.). E poi studiare bene i personaggi, indagarne preventivamente le caratteristiche e pianificare il loro viaggio, qualunque esso sia. Poco importa se poi il nostro eroe cambia strada, l’importante è che all’inizio si prefiguri una meta.
E poi anche comprendere cosa, in un testo, sia esso autobiografico o finzionale, mette in moto il congegno emotivo che cattura il lettore, quella smisurata sfera metaforica dentro la quale la mente del lettore si immerge, reagendo e producendo nuove metafore, e nuove versioni del mondo.
Scrivere è facile (tutti sanno tenere una penna in mano) ma organizzare una narrazione costa studio, umiltà e costanza. Disponibilità a rivedere un testo cento volte. Scrivere, si sa, è soprattutto riscrivere. Mi piace chi affronta la scrittura con determinazione. Non è un merito, ma la constatazione che per quel qualcuno la scrittura è una necessità. E sono le persone per le quali il tempo trascorre nel modo migliore: senza che abbiano la percezione che stia passando, solidificando sangue e sudore nell’unica cartella di fine giornata.
Solo in questo modo si approda a qualcosa che ha un valore: una crescita e nuove esperienze – anche estetiche – se è stato affrontato il percorso autobiografico, un buon racconto se ci si è cimentati con autobiografie romanzate, autofiction, fiction, siano esse di cinque o di cento pagine.
3. Come i suoi studenti si approcciano al desiderio di esordire e, più in generale, come guardano al mondo editoriale?
La prima cosa che faccio è convincere che pubblicare non deve essere l’obiettivo principale. Se una scuola di scrittura è onesta, non deve promettere nulla di tutto ciò. Se poi succede, bene, ma prima serve la consapevolezza di quello che si è e di quello che si fa.
Dopodiché tutti hanno il famoso libro nel cassetto, e questo vale anche per chi non frequenta alcun corso; un libro o tanti libri nel cassetto, un’idea, tantissime idee che chiamano alla stesura e possibilmente al successo. Se homo narrans non può prescinde dal racconto, la buona narrativa non è una condizione naturale: ha bisogno di codici e di modelli formali.
Il sogno di molti è vedere la propria opera corredata d un marchio prestigioso, magari acclamata come capolavoro del secolo.
Pubblicare non deve essere solo un atto di narcisismo, ambizione o vanità (per altro leciti, tutti noi lo siamo per qualcosa), ma un atto di responsabilità, il risultato di un lavoro, l’effetto di una necessità e di un’abnegazione.
Chi scrive deve anche sapere a cosa va incontro nel momento in cui acquisisce lo statuto di autore, la legittimazione della pubblicazione.
Un libro, adesso, non è più solo un’opera, frutto dell’ingegno ecc. ma un prodotto che si avventura in un mercato forsennato e bulimico, che sforna “capolavori” a metabolismo rapidissimo (peccato che poi certi si estinguano dopo due mesi) e dentro al quale è difficile orientarsi, emergere e sopravvivere. Richiede uno sforzo non solo da parte della casa editrice ma anche dell’autore stesso che è chiamato alla battaglia, a metterci risorse, energia e a volte denaro.
Il mercato editoriale è molto cambiato. Per sopravvivere deve fare delle scelte che a volte sembrano opinabili. Ma spesso è il prodotto “commerciale” che riesce a sostenere quello di valore. Sono però convinta che tutte, oltre al favore del pubblico, continuino a ricercare qualità e talento. Tanto le case editrici grosse quanto quelle piccole, quelle che fanno le cose per bene, non propongono pubblicazioni a pagamento, credono nell’opera che scelgono, fanno un editing serio e sono anche attente all’oggetto, nel suo aspetto materiale.
Anche un’antologia di fine corso, fatta con questo spirito, ha un grande valore perché cura i testi nei dettagli e dà senso a un percorso. E solo quando siamo sicuri del lavoro che un autore o un’autrice hanno prodotto, lo mettiamo in contatto con una casa editrice. Insomma, la pubblicazione può arrivare (e molte sono arrivate, premi e segnalazione compresi) ma questo viene dopo, e dipende dalla reale motivazione, dalla capacità innata e acquisita di ciascuno. E anche, si sa, dalle occasioni e dalla fortuna.
4. Quale peso ha, nell’attività didattica, il momento della lettura? Quali opere si leggono?
Il momento della lettura è fondamentale. Spesso si parte con l’ascolto di un brano utile all’argomento da affrontare in quel giorno. Preferisco venga ascoltato a occhi chiusi. E in genere poi si proietta il testo scannerizzato in modo che si possa meglio mostrarne le caratteristiche.
Poco si può sperare di produrre se non si è lettori forti. Ognuno di noi ha i propri “genitori di lettere”. L’incontro può essere un amore totalizzante ma come ogni amore, è una malattia nervosa che, se benigna, pur lasciando il segno, prevede convalescenza e guarigione. In una prima fase, non si deve temere di scrivere imitando qualcun altro. “L’angoscia dell’influenza” è un buon motore, un sentimento conflittuale ma anche propulsivo che spinge alla scoperta della propria voce. In fin dei conti, come nella vita, l’intelligenza (e l’abilità) è il risultato di una chiamata: quella che sentiamo verso qualcuno o qualcosa che vogliamo capire.
All’inizio del corso ci si premura di chiedere quali sono questi genitori di lettere, per orientare i consigli, e poi dare riferimenti utili al genere, all’argomento e allo stile del testo che si sta per produrre.
Le opere che si leggono sono le più varie. Mica tutti leggono Proust. Si fanno anche letture molto elementari, ma bisogna rispettare tutti. Anzi, è proprio con queste persone che la sfida si fa interessante. Mettendo a confronto, mostrando differenze, dando strumenti utili a una valutazione. Non è detto che poi alla fine del corso diventino tutti lettori appassionati dell’Ulysses o della Recherche, ma il tempo non è mai perduto e di sicuro acquisiscono una visuale più ampia e magari il desiderio di affrontare opere più complesse.
Leggere quindi e leggere ancora, sia i contemporanei che i classici, sulle spalle dei quali siamo seduti. E per quanto riguarda i testi dei partecipanti: si impara prima e meglio se c’è qualcuno che mostra degli strumenti, ma soprattutto che rispetti e coltivi voce e stile, al di là della logica editoriale e della vendibilità di un testo.
5. Le parole-chiave della critica e i metodi della teoria letteraria vengono percepiti da chi insegna come strumenti di mediazione e di accesso al testo o come astrazioni non pertinenti a questa forma di insegnamento-apprendimento?
Parto da alcuni concetti: ognuno di noi è un homo narrans, la narrazione è imprescindibile per la specie. Per ‘funzionare’, abbiamo la necessità di riconoscere delle forme anche nella narrazione. Una di queste forme è il racconto naturale (cronocausale) che facciamo anche senza saperlo durante una conversazione tra amici. La fabula, per intenderci, griglia per molti tipi di narrazione. Cerco di far capire che il progetto narrativo prevede smontaggio e rimontaggio della fabula (intreccio) allo scopo di ottenere determinati effetti. Si parte proprio da qui, dalla trasmissione di una nomenclatura di base, che categorizzando, renda chiari gli argomenti e faciliti la comunicazione e la comprensione. Si comincia dai concetti base, molto spesso vaghi (sinossi, pitch, riassunto, fabula, intreccio, scaletta, e poi focalizzazione zero, interna, ecc.). Poi si passa a quelli più sofisticati, come l’indiretto libero in grado di restituire l’universo mentale dei personaggi. Alla fine trovano pure piacere quando, in un testo mimetico o ‘naturale’, individuano un’ellissi, una pausa, una scena o un sommario. Se riescono a capire quando un aggettivo che designa uno stato d’animo è concreto o quando è generico e si può tradurre con un simbolo che “metta a terra”, oppure con un’azione, o una manifestazione somatica o tre battute di dialogo. Leggendo e analizzando con questi strumenti qualche pagina o l’intero racconto di un autore, ci si rende conto che dietro quel lavoro c’è un’impalcatura solida, e che poco è lasciato al caso. Non c’è nulla da fare: se non si riesce a capire il valore di quello che si sta scrivendo, non si arriva al punto di sacrificare ore e notti e pensieri e difficilmente si ottengono buoni risultati. Puoi sentire o capire qualcosa intuitivamente e, di conseguenza, i risultati sono casuali. Solo facendo un’analisi profonda si riesce a trovare una certa relazione tra gli eventi e i loro effetti. Una disciplina come un’altra, se vogliamo, ma che se seguita, può essere utile in molti altri aspetti della vita. Insegna ad analizzare oltre la superficie, dove c’è molto più di quanto non si colga in un primo momento e in modo inconsapevole.
6. La nuova, diffusa confidenza con la scrittura acquisita sui social ha contribuito a “desacralizzare” una pratica tradizionalmente riservata a fasce più ristrette. Quanto la “graforrea” (Antonelli) dei media alimenta l’espansione recente delle scuole di scrittura? Fra i bisogni intercettati, quanto è dovuto alla “cultura del narcisismo”?
Un tempo scrivevano in pochi, adesso l’iperbolico libro digitale è costantemente aperto, nello spazio e nel tempo, all’esponenzialità degli interventi. E siccome tutti hanno bisogno di far sentire la propria voce, non devono far altro che muovere le dita. Il narcisismo (non inteso in termini clinici ma come bisogno di far sentire la propria voce) non è solo appannaggio dei grandi scrittori, ma un elemento costitutivo della nostra condizione di esseri umani. Questo nuovo sistema globale di comunicazione investe tutti i campi, e di conseguenza anche la narrativa, aperta adesso a nuove forme, che riguardano non solo i generi ma anche la produzione e la fruizione (multimedialità, crossmedialità).
Ogni nuovo libro è di conseguenza un prodotto che si avventura in una realtà schizofrenica. Ogni anno in Italia vengono pubblicati circa 18000 tra romanzi e racconti (Istat 2019). È una realtà che paralizza. L’invito è dunque quello di rimanere saldi e focalizzati sulle proprie motivazioni. E qui torno all’intento di base: non devi venire al Portolano con l’idea di pubblicare ma per imparare a capire un testo, a smontarlo, rimontarlo, anche imitarlo, e poi a prenderne le distanze se serve a trovare la tua voce.
Tutto il resto, viene dopo.
7. Chi scrive oggi spesso si attiene al livello standard dell’“italiano digitato”. In una scuola di scrittura quanto si lavora sulla lingua e sullo stile? Nei corsi che tiene lavora sui testi dei suoi studenti e come? Come cambia la cognizione di chi frequenta i corsi rispetto al fatto che la scrittura “non può insomma avere nulla di ingenuo o spontaneo ma deve essere il frutto di una consapevole ricerca stilistica” (Luigi Matt)?
Punto molto su quest’aspetto. In modo direi categorico. Insegno a spaccare il capello in quattro. Uno dei primi esercizi che faccio è mettere al centro dell’aula il primo oggetto che mi capita tra le mani. “E ora iniziate a descriverlo a fondo”. Una pianta, una matita, una sedia. Partendo da una foglia si arriva ai massimi sistemi. Per far capire che bisogna guardare, analizzare allo spasimo, e che a quell’“a fondo” si può solo tentare di avvicinarsi e che gli oggetti preziosi sono disseminati lungo il percorso, la cui meta è solo ideale. Chiaro, non c’è il tempo per operazioni definitive, ma imprimere un modus mi sembra già una cosa buona. Chi scrive e legge, poi, non scrive e legge più come prima.
Lavoriamo moltissimo sui testi di ogni partecipante, con sfinenti sezioni di editing, presupposto che obbliga al numero chiuso (mi chiedo che servizio possa offrire, una scuola di scrittura, a un’aula con trenta o quaranta teste).
Insisto a diffidare, ad esempio, del generico. Prendere non è come ‘afferrare’, andare non è come ‘fiondarsi’, mangiare non è come ‘abbuffarsi’. Anche la posizione delle parole in una frase imprime un ritmo, un suono che a sua volta evoca delle forme, per la natura sintestetica della nostra mente. Metafore, metonimie e correlativi oggettivi non sono sfizi estetici, ma potenti modi per dilatare il senso all’interno del nostro universo simbolico. Ognuno può e deve andare oltre il verdolino di quella foglia e inoltrarsi vertiginosamente verso il nitido delle radici, la propria voce.
Ricerca quindi. Che non punta mai ad approdare ma ad andare verso. Un risultato che non può avere nulla di ingenuo o spontaneo. Cercare il proprio stile significa anche cercare (e in parte trovare) se stessi, perché dentro le parole – Proust insegna – ci siamo noi, sogni, paure, la nostra posizione nello spazio e nel tempo, il nostro punto di vista sul mondo. E la letteratura, si sa, è l’arte dei punti di vista.
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