Inchiesta sulle scuole di scrittura/7 – Giorgio Vasta
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Si precisa che l’intervista di oggi è frutto di un dialogo online: essa è quindi stata “raccolta” a voce, sbobinata dai curatori e rivista dall’autore.
Nella sua Introduzione al volume Convergenze del 2010, Remo Ceserani rilevava il persistere di una “straordinaria vitalità della narrazione in tutte le sue forme”: da una parte il genere romanzo, “un gatto sornione dalle sette vite”, dall’altra il diffondersi di un “vero e proprio bisogno di narrazione (…) in pratiche conoscitive che programmaticamente si distinguono dai romanzi”, lo storytelling.
A oltre dieci anni da quel saggio si assiste alla continua espansione delle scuole di scrittura, alcune delle quali includono la pratica dello storytelling nei loro intenti programmatici. Il blog “Laletteraturaenoi”, dopo le precedenti inchieste (editor, traduttori, copertine, librerie indipendenti, scrittura per giovani-adulti e narratori d’oggi) continua il suo sondaggio sulle forme del lavoro culturale odierno con un questionario rivolto a chi insegna nelle scuole di scrittura.
1. Come è approdato/a alla docenza in una scuola di scrittura? Da quanto tempo insegna? Ha frequentato a sua volta una scuola di scrittura?
Mi occupo di didattica della scrittura narrativa dal giugno del 1998, da quando cioè mi sono diplomato al biennio della Scuola Holden. In quel momento la Scuola cominciava a proporre laboratori anche al di fuori del biennio, e aveva chiesto a un paio di neodiplomati se volessero provare a cimentarsi. Durante il percorso didattico avevo seguito i laboratori di diversi scrittori, da Giulio Mozzi a Daniele Del Giudice, da Sandro Veronesi a Carlo Lucarelli, ognuno dei quali aveva un suo stile: ognuno di loro faceva accadere se stesso davanti a noi studenti. Dal ‘98 a oggi sono trascorsi ventiquattro anni e ci sono stati dei processi e dei passaggi che si sono affinati. Ci sono stati probabilmente anche degli equivoci che nel tempo si sono risolti o che si sono riconfigurati.
Durante il biennio Holden non ho mai pensato che qualcuno dovesse “insegnarmi” a scrivere: l’idea di un insegnamento definibile e definito mi sembra essere spesso ciò che ingenera fraintendimenti e luoghi comuni sulla didattica della scrittura narrativa. I laboratori sono un’occasione, una possibilità, uno strumento; non sono necessari o imprescindibili. Dagli anni ‘90 a oggi sono nate e si sono diffuse molte scuole (credo, ma forse mi sbaglio, che negli ultimi tempi ci sia stato un ridimensionamento della proposta). Nel tempo mi sembra sia mutato il modo in cui le persone si accostano alla proposta didattica. Se vent’anni fa era facile imbattersi in persone che frequentavano un laboratorio con la determinazione di arrivare a pubblicare un libro, oggi la maggior parte dei partecipanti vuole soprattutto consolidare e approfondire un legame con la scrittura e con la lettura, o ripristinarlo dopo averlo dovuto ridimensionare per molto tempo, di solito per ragioni professionali. Colpisce, nei testi con i quali chi si iscrive si presenta, il ricorrere di circostanze lavorative – spesso un impiego nel marketing, nella comunicazione aziendale – vissute come lontane da ciò che si considera letterario, se non opposte e conflittuali.
E dunque, la didattica della scrittura narrativa non ha un programma definito a livello ministeriale al quale i singoli docenti devono attenersi. Questo fa sì che questa didattica sia inseparabile dall’esperienza personale, da ciò che accade a ogni singolo scrittore-docente: dal suo corpo, dal suo sguardo, dalla sua voce, dal suo quotidiano. Nel tempo ho notato nessi, a volte una continuità, tra i fuochi sui quali provavo a concentrarmi nell’insegnamento e quello che stavo scrivendo in quello stesso arco di tempo. Per portare un esempio concreto, nell’ultimo anno ho scritto testi che in modi simili e diversi riguardano il ritorno, e in questo stesso periodo ho tenuto corsi sulla figura del ritorno, soprattutto sulla declinazione contemporanea del ritorno; giocando, diciamo così, con un titolo di Jenny Erpenbeck, Voci del verbo andare, ho intitolato questi percorsi didattici Voci del verbo ritornare, e ho lavorato su quella narrazione-matrice che è l’Odissea, su Breaking Bad, sui racconti asintotici di Kafka – quelli in cui c’è qualcuno che è cosciente del luogo che vuole raggiungere, ma che, forse proprio per questo, non lo raggiungerà mai, e trascorre il tempo in un percorso inesauribile, dunque in un’inesauribile tensione. Analogamente, nel 2013 avevo cominciato a tenere laboratori sulla rappresentazione letteraria dello spazio – mi ricordo che uno si intitolava Spazio delle mie brame –, e in quello stesso periodo ho scritto e pubblicato un libro che si intitola Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, in teoria il racconto di un viaggio attraverso gli spazi abbandonati nordamericani, di fatto un tentativo di messa a fuoco del carattere desertico della vita adulta (preciso che intendo l’aggettivo “desertico” in un’accezione descrittiva, non valutativa).
In sostanza, per me la didattica della scrittura narrativa è una forma dell’autobiografia. Un modo in cui ciò che mi accade – ciò che tutto sommato sono – si manifesta. Non seguo un programma esterno, ma un disegno generale che si modifica di continuo a partire da quello che mi succede; non nel senso di una generica disposizione all’estemporaneo o all’improvvisazione, ma nel senso che ogni lezione accoglie al suo interno tanto ciò che leggo quanto suggestioni e spunti innescati dal quotidiano. Probabilmente continuo a far mio quanto scrive Gadda nella Meditazione milanese: «Occorre prestare attenzione a tutta la realtà sensibile per operare buone sintesi» (cito a memoria, dunque magari sbaglio qualche vocabolo): la didattica della scrittura narrativa è un’occasione privilegiata nella quale provo a prestare più attenzione possibile alla realtà sensibile, senza elementi solidi o normativi da passare ai miei interlocutori, ma casomai sempre più gassosi. Rispetto a quest’ultimo punto relativo allo stato – alla consistenza – di ciò che viene trasmesso, devo dire che tutte le volte in cui a lezione mi sembra che quanto ho appena detto sia stato inteso come una “chiave”, come qualcosa di risolutivo – di solito lo si deduce dal fatto che tutti, in aula, nello stesso preciso momento si chinano a prendere appunti – esito, mi sento addirittura minacciato dal rischio di questa deriva normativa. Per me l’esperienza didattica ha il suo cuore in un conflitto paradossale: ragionando di scrittura, io voglio togliere agli studenti ciò che in teoria si suppone che io debba dare.
2-3. In base alla sua esperienza quali sono le aspettative di chi si iscrive a un corso di scrittura e quali gli obiettivi a cui un docente può ragionevolmente mirare? Insomma quanta possibilità di incontro esiste tra la molla che muove la “domanda” e le possibilità oggettive con cui l’”offerta” risponde? Come i suoi studenti si approcciano al desiderio di esordire e, più in generale, come guardano al mondo editoriale?
Parto da una precisazione riguardante l’uso dell’aggettivo creativo. È una questione discussa da tempo. Se non ricordo male, proprio Giulio Mozzi si era espresso in modo critico nei confronti di questa parola, che nel suo ambito di provenienza, quello nordamericano, risulta più sobria e asciutta, mentre in italiano trascina con sé sovrasensi ed enfasi. Meglio, credo, parlare di scrittura narrativa.
Un’altra precisazione che può essere utile riguarda il modo in cui il letterario – come argomento, come contesto – viene percepito da un buon numero di partecipanti ai laboratori: per parecchi, lettura e scrittura sono intese come qualcosa che, loro malgrado, nel tempo è diventato periferico e insieme esotico, perché le cornici sociali in cui si muovono, dalla famiglia agli ambiti professionali, guarda all’interesse letterario con sufficienza, con degnazione, o addirittura con un’esplicita irrisione. Partecipare a un laboratorio di scrittura può diventare dunque per qualcuno un modo per condividere un interesse senza il rischio di venire preso in giro. Mi viene in mente un fatto che risale a parecchi anni fa. In un paio di occasioni, una volta durante un laboratorio a Torino e un’altra volta a Perugia, al laboratorio che conducevo si era iscritta un’ematologa, ricordo che era molisana, che per giustificare a marito e figli queste assenze da casa mentiva, nel senso che in famiglia raccontava che sarebbe andata a un convegno di settore. Mi era sembrato grottesco e bellissimo che dentro la sua bugia il laboratorio di scrittura fosse come l’amante – l’esperienza clandestina – per incontrare il quale inventi impegni di lavoro. Tutto ciò credo dica molto del modo in cui il letterario è vissuto a livello socioculturale: oggetto di elogio in ogni occasione formale, e censurato come bene voluttuario risibile nella sostanza del quotidiano (detto questo, l’ematologa molisana aveva ragione: la letteratura è strutturalmente amante, mai moglie o marito, mai parte di un matrimonio, tanto meno riuscito: è nervosismo – riuscirò a reggere la parte?, a mentire bene?, a mentire fino in fondo? – ed è nevrosi, fantasma, paura di essere smascherati, desiderio di compromettersi: è il segreto, il piacere e la disperazione di avere un segreto: di essere un segreto impartecipabile).
Tornando alla vostra domanda, la mia sensazione è che l’interesse per la pubblicazione si sia sensibilmente ridotto. Forse si tratta di un effetto del fenomeno del self publishing: vedere il proprio nome sulla copertina di un libro, sebbene quel libro esista solo perché hai pagato per la sua esistenza, è un fatto tutto sommato semplice; sono davvero pochi, limitatamente alla mia esperienza, i casi di chi partecipa a un laboratorio dominato dall’ossessione di pubblicare – e, comunque, in questo desiderio, tanto più se si fonda su una qualità espressiva, non c’è niente di sbagliato.
Detto ciò, penso che il punto d’incontro tra chi insegna e chi partecipa sia comunque strutturalmente ambiguo, decentrato e fuori sincrono. Non credo cioè che l’esperienza che consegue a un percorso didattico si esprima in maniera sincronizzata con il percorso stesso. La maggior parte delle cose accadono dopo.
Penso anche che una prima fase della didattica della scrittura narrativa debba necessariamente deludere: deve rompere il gioco – e il giogo – di una serie di illusioni preliminari al percorso didattico, un’idea spesso ingenua di letteratura. Questa necessaria delusione può generare timori, resistenza, rinuncia, afasia. A tutto ciò può seguire un momento in cui prenderà forma un altro gioco – e un altro giogo –, e ognuno si inventerà un modo per leggere ed eventualmente scrivere con una quota di libertà maggiore, o diversa, da quella da cui era partita.
È anche per questa ragione che nella didattica uso spesso Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal, di fatto una lettera di dimissioni dalla scrittura. Un dimettersi che non nasce da un’abulia dell’immaginazione, bensì dal suo contrario: Lord Chandos sceglie di tacere esattamente nel momento in cui la sua esperienza del linguaggio ha raggiunto un culmine, le parole sono diventate occhi, vortici, e se ne ricambi lo sguardo precipiti al loro interno.
4. Quale peso ha, nell’attività didattica, il momento della lettura? Quali opere si leggono?
La lettura è la condizione naturale dei laboratori. La lettura dei testi scritti dai partecipanti, così come delle opere letterarie, i classici, ma non solo. Va precisato che queste letture non valgono come segnavia, non sono letti di Procuste, non indicano – ancora meno prescrivono – quello che si deve fare.
La maggior parte dei libri che propongo sono quelli che mi commuovono, e a volte sono singole scene: come s’incontrano Emma e Charles Bovary, la ricerca del frustino, lo sfiorarsi dei corpi, un momento pretestuoso, ridicolo e bellissimo, oppure come Joyce chiude The Dead in Gente di Dublino, quando Gabriel si distende accanto alla moglie, appena passata dal pianto al sonno, e riflette sull’essere vivi e sull’essere morti, a partire dalla storia che lei gli ha raccontato e per un istante, in modo inevitabilmente provvisorio, impara il rispetto per la complessità dell’esistenza di un’altra persona; o come Levin, alla fine di Anna Karenina, intuisce, di nuovo in un istante che difficilmente si tradurrà in durata, che essere adulti non coincide con lo stare definitivamente in un luogo, bensì è un movimento contraddittorio, un andirivieni, sempre tragicomicamente esposti.
Può forse essere utile chiarire un punto, perché si tratta di una questione che può venire facilmente fraintesa. Nella didattica della scrittura narrativa, i testi del minimalismo nordamericano hanno svolto per tanto tempo una funzione centrale, e forse ora la ragione per la quale quelle scritture sono state proposte in modo sistematico risulta più chiaro. In Italia il minimalismo nordamericano si diffonde più o meno nello stesso periodo in cui nascono i primi laboratori e comincia a prendere piede la didattica di cui stiamo parlando. Una parte significativa delle scritture presentate ai laboratori tende – e tendeva – al lirismo, a un’aggettivazione maestosa, a figure astratte, al grandioso, al magniloquente; il passo espressivo dei minimalisti si propone dunque come una specie di antidoto, o meglio di controspinta a questo impulso espressivo; non per il gusto fine a se stesso di contrastarlo, ma per mostrare altre possibilità letterarie, e per esplorarle.
La conseguenza di tutto ciò è che a volte si ritiene che la didattica della scrittura narrativa proponga o addirittura imponga scritture che discendono in modo più o meno diretto da quel minimalismo, dunque scritture connotate da un dettato trasparente, da una lingua che dice senza farsi percepire – il sermo manifestus dei latini; effetto – o meglio un rischio – ulteriore di tutto ciò è collocare il cartello con la scritta wanted sotto il volto, e lo stile, di – per esempio – Giorgio Manganelli e Tommaso Landolfi. Se una messa al bando di questo genere accadesse – se cioè la didattica della scrittura narrativa suggerisse che lo stile debba essere connotato da trasparenza, intelligibilità immediata, assenza di nodi, di movimento spericolato, di crisi: se la scrittura venisse intesa come una questione di veglia, addirittura di lucidità, e non anche, tanto, di sonnambulismo –, allora questo per me corrisponderebbe a uno scadimento della didattica medesima.
Un’altra questione, infine, riguarda il grado di consapevolezza della lettura e della scrittura. La didattica della scrittura narrativa lavora sulla consapevolezza, desidera nutrirla, e in questo modo genera una specie di contraddizione che credo sia irrisolvibile. Perché per scrivere un testo magnifico, la consapevolezza dell’azione che si compie non è indispensabile. Non impedisce qualcosa, ma non è neppure lontanamente indispensabile. La didattica però, appunto, mette a tema la consapevolezza. E dunque come se ne viene fuori? Di fatto non se ne viene fuori, forse quello che deve modificarsi è ciò che intendiamo per consapevolezza.
Provo a precisare quello che intendo. So che affermare che la consapevolezza è eventuale e non nodale ha qualcosa di ovvio. Il mio stupore nello scoprire, tempo fa, che essere consapevoli non è necessario (nella mia accezione era addirittura obbligatorio), nasce dal fatto che, da nevrotico, tendo a connettere la consapevolezza a ogni cosa, ed è per questo che a lungo ho pensato che la bellezza di un testo fosse intrinsecamente determinata anche dal livello di consapevolezza del suo autore; a un certo punto, come dicevo, ho compreso che non è così (ed è stato liberatorio): è del tutto possibile che un autore non sia in grado di dire (o di pensare) nulla del testo a cui ha dato forma: e quando ne dice qualcosa, non necessariamente ciò che dice – la descrizione che produce – è attendibile; forse la consapevolezza più autentica di una forma è sepolta nel punto più irraggiungibile della forma stessa: quella consapevolezza – che tendo oggi a immaginare come un arcipelago di intuizioni – è determinante e al contempo inattingibile, preclusa allo stesso autore della forma.
5. Le parole-chiave della critica e i metodi della teoria letteraria vengono percepiti da chi insegna come strumenti di mediazione e di accesso al testo o come astrazioni non pertinenti a questa forma di insegnamento-apprendimento?
Ho l’impressione che nell’ambito dei laboratori di scrittura ci sia poca curiosità nei confronti dell’elaborazione condensata nella migliore saggistica critica. Forse è mutato il temperamento dei partecipanti, la loro fisionomia, la loro formazione, la percezione che hanno di quei testi. C’è probabilmente, rispetto al passato, una maggiore impazienza, l’impulso esasperatamente pragmatico a individuare “strumenti” subito utilizzabili; è un’impazienza che rischia di tradursi in frettolosità. Ciò non toglie che sia possibile trarre dalle riflessioni di vari autori, da Genette a Brooks, passaggi esemplari utili a evidenziare quanto accade dentro la scrittura narrativa, e a discuterne. A questo proposito mi viene in mente la collana Alfabeto letterario di Laterza, diretta da Remo Ceserani e Lidia De Federicis, che una ventina d’anni fa era riuscita a intercettare l’interesse di chi si iscriveva ai primi laboratori di scrittura proposti in Italia, permettendo di approfondire quanto riguarda questioni che vanno dalla teoria del personaggio alla descrizione. A lezione continuo a usare quei testi, ma ancora più spesso lavoro su libri che, sebbene non siano riconducibili alla critica letteraria, sono bellissime riflessioni sulla scrittura, da Quando vi ucciderete, maestro? di Antonio Franchini a Parole private dette in pubblico di Giulio Mozzi a Oro colato di Edoardo Albinati.
6. La nuova, diffusa confidenza con la scrittura acquisita sui social ha contribuito a “desacralizzare” una pratica tradizionalmente riservata a fasce più ristrette. Quanto la “graforrea” (Antonelli) dei media alimenta l’espansione recente delle scuole di scrittura? Fra i bisogni intercettati, quanto è dovuto alla “cultura del narcisismo”?
Il narcisismo – in chi scrive come in chi non scrive – non è in sé un problema. Se quell’inclinazione è sostenuta da una forza espressiva, nella migliore delle ipotesi può tradursi in caparbietà, e mi piace anche quando – sempre sostenuta dal temperamento – slitta in superbia, addirittura in titanismo (o almeno preferisco tutto questo agli eccessi di cautela e di modestia). Il narcisismo diventa un problema se c’è solo quello e mancano sguardo e stile.
Circa il modo in cui si esprime la scrittura nei social, ne so davvero poco, non uso né Facebook né Twitter né Instagram, nessun social network. Sono cioè prevalentemente estraneo a un tessuto connettivo – che poi è anche un ritmo del quotidiano – tramite il quale prendono forma le cose. Questa estraneità non discende da snobismo. Al contrario, la fenomenologia dei social network – la sua conflittualità sistematica, la sensazione che gran parte di ciò che accade somigli a una specie di guerriglia a bassa intensità, scaramucce e scaramucce e scaramucce, qualche sortita in avanti, improvvisi silenzi, discussioni per giorni percepite come fondamentali che di colpo si fanno fantasma – mi incuriosisce molto, ma non tanto da sentire il bisogno di avvicinarmi per saperne di più, tanto meno di penetrare al loro interno accettando di farne parte.
Del discorso che prende forma sui social network mi affascina un aspetto in particolare. Quando nel giro di poco i commenti a un determinato fatto si susseguono fino ad accumularsi, si nota l’impulso di ogni frase a farsi acuminata e tagliente, si riconosce un piacere dell’intelligenza, forse più esattamente della sagacia, e a un certo punto l’interlocutore col quale si sta battagliando viene accusato di miopia se non di cecità, attribuendo invece al proprio sguardo una potentissima lucidità. Osservando questa dialettica in una chiave letteraria, mi sembra che ci sia qualcosa di insensato. La frequente rivendicazione di lucidità – io ci vedo benissimo, tu non vedi e non capisci niente – mi sembra un pensiero tutto interno alle grammatiche enfatizzate dai social: essere lucidi è individuato come valore e come strumento dialettico principe. Chiaramente comprendo quello che si vuole intendere, ma provo lo stesso un senso di stupore e di disagio, perché per me essere lucidi non è un valore, non è uno strumento, la cecità è il tramite della visione, stare nel linguaggio non ha a che fare con l’orientarsi, con il cartografare, ma con Charlot che in Tempi moderni pattina bendato, elegante e inconsapevolmente vulnerabile, a un passo dal vuoto.
Mi permetto questo sconfinamento e questa immagine perché per me la didattica è un modo di stare nel linguaggio in compagnia di altre persone; un tentativo – raramente elegante, sempre più tenacemente vulnerabile – di condividere un discorso che non è mai lucido ma brancola, slitta, azzarda: un discorso che ha il suo esito naturale nell’ammutolimento. Nel senso che – fin qui, per una questione di amor proprio, non è ancora accaduto, ma penso che prima o poi accadrà – mentre durante una lezione sto nel linguaggio, avverto l’impulso a tacere: non gradualmente, non declinando a poco a poco verso la conclusione del discorso, ma di colpo, a precipizio, come Charlot precipiterebbe nel vuoto. Tutto ciò trova conforto e movente tanto nella scrittura di Giorgio Manganelli – così serenamente estraneo al problema della lucidità – quanto, ancora, nella Lettera di Lord Chandos: il culmine dell’esperienza linguistica non è un pieno ma un vuoto, un vuoto minuscolo, un nocciolo di nulla chiuso nella polpa del frutto. Come Aguirre nel film di Herzog, il linguaggio spinge in quella direzione: vuole esporsi, fare naufragio; tutt’altro che consolidarsi o lucidarsi, desidera – credo – cadere nell’afasia.
7. Chi scrive oggi spesso si attiene al livello standard dell’“italiano digitato”. In una scuola di scrittura quanto si lavora sulla lingua e sullo stile? Nei corsi che tiene lavora sui testi dei suoi studenti e come? Come cambia la cognizione di chi frequenta i corsi rispetto al fatto che la scrittura “non può insomma avere nulla di ingenuo o spontaneo ma deve essere il frutto di una consapevole ricerca stilistica” (Luigi Matt)?
Nei laboratori incontro non tanto “scritture digitali” quanto scritture che – come accennavo – patiscono l’equivoco del “letterario”, scritture, cioè, che assumono una postura melodrammatica “alla” Eleonora Duse. Buona parte dell’immaginario linguistico e drammaturgico italiano è ancora quello operistico; c’è una fiducia istintiva nei confronti dell’enfasi, degli eccessi, della magniloquenza; perché sia credibile e creduto, il dolore viene messo in scena attraverso un sistema di segni tipicamente melò. Si tratta di un’attitudine che può venire letta non solo in ambito estetico ma anche nella cronaca. Da italiani, crediamo in una rappresentazione della sofferenza sempre sopra le righe, non semplicemente detta ma gridata, e diffidiamo del dolore che invece si manifesta sobriamente, asciutto, essenziale, laconico. In questi ultimi vent’anni, il dolore di Heidi Giuliani, di Beppino Englaro, di Ilaria Cucchi, è stato paradossalmente percepito come sospetto perché così tenacemente estraneo all’enfasi, semmai sempre strettamente legato al pudore e alla coscienza del diritto.
Detto questo, penso che i laboratori debbano servire anche a condividere quanta più narrativa italiana possibile. Colpisce infatti che parecchi dei partecipanti leggano pochissima narrativa italiana contemporanea, circostanza che configura un piccolo paradosso: frequenti un laboratorio anche – eventualmente, sempre più marginalmente – per scrivere e pubblicare un libro: questo libro lo scriverai, si suppone, in italiano, e desiderai che gli venga dato credito, non dando però tu per primo credito al macrocontenitore in cui vuoi che il tuo testo figuri: scrivi ciò che non ti sta a cuore leggere.
È un bene allora che i laboratori siano, tra le altre cose, il luogo in cui la narrativa italiana si manifesta nella sua eterogeneità: da Il dipendente di Sebastiano Nata a Lourdes di Rosa Matteucci, da Atlante Occidentale di Daniele Del Giudice a Storia di Matilde di Giovanni Mariotti – nomino solo alcuni scrittori al volo, facendo un torto a tutti quelli che sto tacendo –, e ovviamente in un dialogo continuo e fitto con Gadda, Manganelli, Tozzi, Dessì, Landolfi, Dossi e tantissimi altri autori o singoli titoli – in modo del tutto estemporaneo penso a quella meraviglia che è La Novella del Grasso Legnaiuolo –, si può provare a rendere chiaro che la letteratura italiana è un insieme molteplice di forme e di stili, è fatta di direzioni riconoscibili e di deviazioni inaspettate, ed è non semplicemente vitale ma vivente, articolata, contraddittoria, struggente.
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