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diretto da Romano Luperini

“Le tracce evidenti: percorsi testuali per immaginare la storia” A margine di Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso Finto

Che cosa significa insegnare letteratura nella scuola secondaria?

Quali aspetti della cittadinanza confluiscono nella lettura scolastica del testo letterario?

Tentare di rispondere a questi interrogativi significa confrontarsi con due delle derive più evidenti della didattica recente: la rinuncia al rigore scientifico e l’attualizzazione forzata; in altre parole, l’approccio totalmente soggettivo al testo (chiamato a significare “per me” a prescindere dalla volontà dell’autore e dalla corretta comprensione della sua lettera) e l’associazione libera fra temi e problemi, in deroga, spesso, alle più elementari norme della logica. Approcci questi, non occorre sottolinearlo, che contrastano con l’idea di cittadinanza, poiché allontanano irrimediabilmente, per non dire inficiano, la corretta educazione linguistica alla base della possibilità di comunicare e fondare il dialogo intersoggettivo.

La riflessione sul ruolo della lettura e della letteratura nella formazione scolastica si interseca, così, con un tema di grande attualità, quello del falso (delle fake news), ma, soprattutto, impone di discutere un’interpretazione del relativismo tanto banalizzante quanto pericolosa e pervasiva poiché, almeno apparentemente, implicita nella dimensione orizzontale della diffusione delle informazioni e nella conseguente crisi della didattica tradizionale che caratterizza le nostre democrazie mature. Di qui l’invito a riconsiderare alcune suggestioni tratte dal volume di Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli,2006.

  1. Il testo e la storia, il filo e le tracce

Nel capitolo 9 “L’aspra verità. Una sfida di Stendhal agli storici” Ginzburg affronta uno dei nodi fondamentali della sua polemica contro il relativismo storico che caratterizza la nostra epoca: l’eredità di Auerbach e di quello che lo storico italiano definisce il suo prospettivismo, frainteso dal moderno approccio. Così Ginzburg[1]:

al rapporto di Stendhal e Balzac con la storia Erich Auerbach dedicò uno dei capitoli centrali di Mimesis. Per valutarlo bisogna segnalare un dato stranamente trascurato dai commentatori: nella lunga serie di passi analizzati in Mimesis, poeti e romanzieri – Omero, Dante, Stendhal, Balzac, Proust e così via – si alternano con storici come Tacito, Ammiano Marcellino e Gregorio di Tours, o con memorialisti come Saint-Simon.

Oggi una coesistenza del genere può sembrare pacifica. Molti lettori danno per scontato che i testi discussi da Auerbach siano in maggiore o minore misura testi di finzione. Questa interpretazione di Mimesis, che senza dubbio ha contribuito alla sua durevole fama nelle università americane, avrebbe inorridito Auerbach. […] Auerbach non era un relativista.

I lettori contemporanei hanno dimenticato lo scopo dichiarato dell’opera di Auerbach, quello di indagare le “rappresentazioni della realtà”, e, cioè, con i termini di Ginzburg, le tracce della storia nella letteratura europea; l’approccio di moda nelle università americane ha portato ad un fraintendimento sostanziale della lezione del grande filologo condotto ad accostare storici e letterati non dalla svalutazione del concetto di realtà, ma, al contrario, dall’assiduo lavoro su di esso. Se mai l’accostamento di opere letterarie e storiografiche ha condotto Auerbach a reinterpretare e correggere lo storicismo tedesco suo contemporaneo, come si evince, secondo l’analisi di Ginzburg, dal capitolo conclusivo di Mimesis, quello dedicato a Marcel Proust e Virginia Woolf, nel quale «si imbocca un’altra strada»:

Auerbach dice esplicitamente ciò che il lettore aveva già cominciato a sospettare: e cioè che i protagonisti dell’ultimo capitolo di Mimesis, Marcel Proust e Virginia Woolf, hanno ispirato anche i principi formali in base ai quali il libro stesso è stato costruito. Da To the Lighthouse e dalla Recherche Auerbach ha tratto l’idea, del tutto estranea alle storie della letteratura tradizionali, che attraverso un evento accidentale, una vita qualunque, un brano preso a caso si possa giungere a una comprensione più profonda dell’intero. (p. 169)

Non una negazione della realtà storica, dunque, ma la proposta di un metodo critico per raggiungerne meglio gli aspetti fondamentali; non relativismo, ma esempio emblematico del prospettivismo di cui Auerbach è stato maestro e, per quanto ci concerne, fondamentale definizione dell’ambito e delle modalità dell’incontro fra il testo e la storia, il filo e le tracce. 

2. Se a raccontare la storia è la letteratura: l’aspra verità.

Quale sia questa «comprensione più profonda dell’intero» e in cosa consista la rielaborazione dello storicismo operata da Auerbach è spiegato da Ginzburg a partire dalla revisione del celebre giudizio di Mimesis su Stendhal[2]: «Balzac lanciò una sfida esplicita agli storici del proprio tempo, Stendhal una sfida implicita agli storici del futuro. La prima è nota, la seconda non lo è. Proverò ad analizzarne un aspetto». (p. 167)

Punto di partenza è il celebre passo de Il rosso e il nero da cui l’interpretazione di Auerbach prende le mosse[3]: è l’analisi dell’opera di Stendhal, infatti, che Ginzburg ritiene fondamentale per comprendere e mettere alla prova la prospettiva di Auerbach, e in particolare la genesi de Il rosso e il nero. Per comprenderla è necessaria una premessa filologica che si avvale di un dato paratestuale, il breve appunto che l’autore scrisse sul foglio di guardia dell’esemplare del romanzo conservato nel Fondo Bucci della Biblioteca Sormani di Milano:

Roma, 24 maggio 1834. Quand’ero giovane scrissi alcune biografie (Mozart, Michelangelo) che erano in qualche modo libri di storia. Mi rammarico di averle scritte. Credo che la verità, nelle piccole cose come nelle grandi, sia quasi irraggiungibile – almeno una verità un po’ circostanziata. Monsieur de Tracy mi diceva: la verità si può raggiungere solo nei romanzi. Ogni giorno vedo sempre meglio che altrove si incontra soltanto dell’ostentazione. (trad. Di Ginzburg, p. 170)

Sono le «verità intollerabili» che Mérimée rinfaccia all’amico dopo aver letto il romanzo e cui lo stesso Stendhal allude con la doppia epigrafe: «La vérité, l’âpre vérité» (attribuita a Danton), e «Elle n’est pas jolie, elle n’a point de rouge» (attribuita a Saint-Beuve); dichiarazioni richiamate nel doppio sottotitolo della prima edizione (1831) che recava sul frontespizio la dicitura «Cronique du xixe siècle», mutata poche pagine dopo in «Cronique de 1830». Insomma, non letteratura, ma cronaca, non finzione, ma aspra verità attraverso il romanzo, che era, per lui come per altri romanzieri dell’inizio dell’Ottocento, lo strumento per cogliere “una verità più profonda”.

Il fraintendimento di Auerbach, che a Stendhal aveva preferito Balzac, offre a Ginzburg l’occasione per proporre un’interpretazione che, forte di una precisa ricostruzione filologica della genesi del testo, spiega cosa sia la «verità un po’ circostanziata» cui il romanzo mira: la “noia”, che l’auto-recensione scritta nel 1832 per «L’Antologia» eleggeva a tema guida dell’opera, non doveva essere considerata «come un fenomeno del passato, legato alla società francese sotto la Restaurazione, ma come un fenomeno che avrebbe caratterizzato sia il presente, cioè la società succeduta alla rivoluzione di Luglio, sia il futuro prevedibile» (p. 171); insomma, della storia il romanzo distillava l’aspetto capace di parlare del presente e del futuro.

La noia è, infatti, il prodotto, spiega l’auto-recensione, della moralità, di una «Francia morale» che sta per diventare modello per l’intera Europa. È questo che Stendhal vuole descrivere, come esplicitamente dichiara nel Project d’article:

La Francia morale è ignorata all’estero. Ecco perché, prima di venir a parlare del romanzo di M. de Stendhal, è stato necessario dire che la Francia gaia, divertente, un po’ libertina, ch’è stata dal 1715 al 1789 il modello dell’Europa, non esiste più: niente le rassomiglia meno della Francia grave, morale, tetra, che ci han lasciata in eredità i gesuiti, le congregazioni e il governo borbonico dal 1814 al 1830. Poiché è estremamente difficile, in fatto di romanzi, dipingere dal vero e non copiare dai libri, nessuno, prima di M. de S. aveva osato descrivere questi costumi così poco attraenti, che, ciò nonostante, visto che l’Europa è popolata di pecore, si diffonderanno ben presto da Napoli a San Pietroburgo. (p. 173)

Il romanzo, dunque, indaga un aspetto della realtà della Restaurazione la cui estensione va ben oltre il confine della rivoluzione di luglio, come suggeriscono sia uno dei sottotitoli citati (cronaca del xix secolo) che una nota dell’autore al termine del romanzo: «nei paesi dove l’opinione pubblica fa legge, cosa che d’altronde procura la libertà, si ha questo inconveniente, ch’essa s’immischia anche di ciò che non la riguarda: per esempio nella vita privata. Di qui la tristezza dell’America e dell’Inghilterra» (p. 175). Per Stendhal i due paesi simboleggiavano il futuro tetro, in cui tutte le passioni sarebbero sparite tranne la passione per il denaro, a cui i suoi personaggi “straniati” si oppongono, da Mathilde de la Mole, a Mme de Rênal, al protagonista Julien Sorel a cui il conte di Altamira svelerà l’origine della noia nella scomparsa delle «vere passioni»[4]. Senza cogliere questo aspetto cade gran parte del fascino e dell’interesse dell’opera, ma, soprattutto, si perde il suo profondo legame con la storia, il suo peculiare realismo, per rimanere nei termini del dialogo con Mimesis.

La conversione di Stendhal al romanzo, dopo l’abiura delle biografie consegnata all’appunto del 1834, evidenzia, però, un altro aspetto, per noi assai più interessante perché peculiare dei testi letterari: la ricerca formale; la modalità in cui i personaggi si esprimono e prendono vita nel romanzo è ciò che Auerbach ha trascurato e quel che ne costituisce la cifra storica, il peculiare realismo de Il rosso e il nero. Conclude, così, Ginzburg:

Il discorso diretto libero dà voce all’isolamento dei personaggi di Stendhal, alla loro ingenua vitalità sconfitta da un processo storico che travolge e umilia le loro illusioni. È un procedimento che sembra precluso agli storici, perché il discorso diretto libero per definizione non lascia tracce documentarie. […] Ma i procedimenti narrativi sono come campi magnetici: provocano domande, e attraggono documenti potenziali. In questo senso un procedimento come il discorso diretto libero, nato per rispondere, sul terreno della finzione, a una serie di domande poste dalla storia, può essere considerato come una sfida indiretta lanciata agli storici. Un giorno essi potrebbero raccoglierla, in forme che oggi non riusciamo a immaginare. (p. 184)

Il romanzo, dunque, risponde, sul piano della finzione, alle domande poste dalla storia; si fonda, manzonianamente, sulle tracce, ma elabora un racconto (il filo di Ginzburg) capace di eludere l’aspetto ideologico di qualsiasi interpretazione scientifica. I procedimenti narrativi che la grande letteratura elabora sembrano, in altre parole, distinguersi ed emanciparsi sia dalla falsità della retorica dell’exemplum efficace, sia dal rischio dello storicismo come adesione acritica alla realtà.

La veloce ricognizione delle considerazioni di Ginzburg, oltre e più che mostrare interessanti sintonie fra le riflessioni del grande romanziere francese e quelle di Manzoni (per certi versi anticipatrici di alcune delle affermazioni dell’auto-recensione stendhaliana), è, allora, utile per tornare a ragionare sulle modalità di lettura del testo letterario e sui criteri per costruire percorsi scolastici che, come detto in apertura, rispondano efficacemente all’idea di formazione del cittadino che la scuola si prefigge.

3. Questioni di metodo

La discussione sul realismo e sul romanzo sollecita alcune considerazioni generali che dall’analisi di Ginzburg de Il rosso e il nero emergono chiaramente; esse convocano i principali ambiti della discussione didattica degli ultimi anni e contribuiscono a definirne i termini: in primo luogo il dialogo fra discipline, l’interdisciplinarità così spesso invocata, convitato di pietra dei molteplici riti scolastici; quindi la necessità di un approccio filologico e la rilevanza della forma nella scelta e nell’interpretazione delle opere letterarie; infine i criteri su cui basare l’analisi tematica.

Il suggerimento di riconsiderare il rapporto fra il racconto e le tracce, o, per usare i termini di un fortunato manuale del secolo scorso, fra il materiale e l’immaginario, non si limita ad accostare storia e letteratura, ma orienta la riflessione nel senso della centralità dei testi e dell’approccio filologico ad essi; una filologia da intendersi non come variantistica o studio di stemma codicum, ma come piena comprensione dei loro aspetti comunicativi e, dunque, ricostruzione della lezione storicamente situata e della volontà dell’autore attraverso, ad esempio, la considerazione degli elementi paratestuali e lo sforzo di una “lettura integrale” che la corretta contestualizzazione di un passo può, in qualche misura, simulare[5]: in altre parole, conoscere con sicurezza l’inizio e la fine di un’opera, discutere dell’intento dell’autore riflettendo sugli exerga può essere utile esperienza di rispetto della parola altrui e costituire, insieme, un primo approccio all’interpretazione critica.

La rilevanza delle scelte formali nell’analisi dell’opera letteraria, l’idea che sia nella forma dell’espressione che ne vada colta la prospettiva storica, chiarisce ulteriormente la forza di un approccio interdisciplinare ben inteso: non si tratta, infatti, di accostare ambiti eterogenei sulla base di presunte analogie tematiche, ma di cogliere le risposte peculiari della letteratura alle «domande poste dalla storia». Una considerazione, questa con cui Ginzburg conclude la rilettura del romanzo di Stendhal, che evidenzia due aspetti fondamentali del rapporto fra storia e letteratura: innanzi tutto la specificità del linguaggio letterario e l’importanza di riconoscere nei testi presi in esame «i nuclei semantico-stilistici forti»[6]; in secondo luogo la modalità in cui emergono determinati temi, le questioni complessive, i nodi che attraggono la riflessione interdisciplinare. Due osservazioni ricche di implicazioni importanti, sia per quanto concerne la questione della scelta delle opere e dei passi da sottoporre alla discussione in classe, superando il pregiudizio della eccessiva difficoltà dei testi letterari, che per cogliere il senso di un dialogo fra ambiti diversi fondato sulle specificità delle singole discipline. Individuare la noia e lo straniamento dei personaggi come temi fondanti de Il rosso e il nero chiarisce le ragioni di tale considerazione: è l’interpretazione che, filologicamente, ricostruisce gli intenti dell’autore ad offrire il terreno della discussione e a chiarire il significato del testo nel suo dialogo con altri testi e autori e con le questioni del suo tempo. Il lettore lontano nel tempo (e/o nello spazio) può avvantaggiarsi della distanza solo se è indotto a riconoscerla e a valutarne il senso; in caso contrario, il fraintendimento di dichiarare vicino ciò che non lo è, la falsa agnizione di temi “sempre attuali”, di classici “nostri contemporanei”, diviene corresponsabile, al di là delle buone intenzioni di partenza, di quell’eterno presente in cui si ritiene vivano i nostri studenti e a cui da più parti si imputa la crisi del “senso storico”. Non solo: il vantaggio di parole chiave che emergano dalle opere individuando le questioni che hanno fondato la discussione europea nel corso dei secoli risiede nella possibilità che esse aprano nuove domande sul presente attraverso una visione prospettica realmente orientata alla formazione di senso critico e permettano di giustificare le scelte inevitabili di qualsiasi programma scolastico.

Le tracce della storia evidenti nella letteratura non sono, così, necessariamente legate alla concomitanza fra testi e eventi storici (date di pubblicazione e grandi avvenimenti), ma possono contribuire a gettare luce su di essi, a collocarli in un’altra prospettiva…   

4. 1827: i Promessi sposi e le Operette morali. Un’applicazione didattica

Affrontare un argomento in maniera interdisciplinare riserva sempre sorprese. Nella scansione storica del primo Ottocento fra le date possibili non sceglieremmo, con ogni probabilità, il 1827; meglio il 1815 del Congresso di Vienna o il 1830 della rivoluzione di luglio e della nascita dell’idea di nazione nella periodizzazione di Hobsbawm[7]. Il 1827 è, però, l’anno della prima pubblicazione di due grandi opere della prosa italiana moderna, le Operette morali di Leopardi (Milano, Stella) e I promessi sposi. Storia milanese del secolo xvii di Manzoni (Milano, Ferrario); senza contare che nel 1827 Stendhal situa Il rosso e il nero nell’Avertissement, falsificando la reale data di composizione del testo che è successiva (la prima idea dell’opera è del 26/27 ottobre 1829 e la sua stesura da collocarsi nell’inverno fra il 1829 e il 1830). Così, nel 1827 tre grandissimi autori della letteratura europea riflettono sulla società della Restaurazione contemporaneamente e in dialogo fra loro, benché (o forse perché) in maniere assai diverse. L’esito è un interessante invito a riflettere sulle origini dell’età contemporanea, sulle sue forme di comunicazione in prosa, sulle due grandi questioni del rapporto fra individuo e storia (fra storia e invenzione), e dell’etica come rapporto fra individuo e mondo/natura. Una data “letteraria” aggiunge senso alla scansione storiografica tradizionale e ne evidenzia la portata epocale mostrando la lunga durata delle «domande della storia»[8] e offrendo al presente un’utile prospettiva.

Con quali modalità didattiche esplorarla?

Lasciando la teoria per una veloce incursione nella prassi che la presupponga, mi limiterò ad alcune sintetiche osservazioni, cominciando dalla modalità di lettura e circoscrivendo i rilievi alle due opere italiane.

Collocare le opere nel loro contesto significa raccogliere materiali sulla fase compositiva e di pubblicazione (appunti, lettere, recensioni su riviste contemporanee), alcuni documenti di partenza per farsi un’idea della ricezione, del colloquio dal quale emergono[9]; ma anche porre un’attenzione significativa agli elementi paratestuali, alla materialità dell’edizione[10], alle diverse pubblicazioni e alle rielaborazioni che presentano. Da questo punto di vista, interessanti sono le differenze:  mentre le Operette morali affidano l’introduzione alla Storia del genere umano e l’apologia della voce narrante al Dialogo di Timandro e Eleandro prima (1827) e alla riflessione di Tristano poi (1834)[11], Manzoni premette al romanzo una Introduzione che situa, per così dire, fuori dal racconto alcune chiavi interpretative di esso; una scelta più vicina a quella di Stendhal e dettata dal genere e dal rapporto che esso costruisce con il pubblico, dal lettore ideale che presuppone: più cittadino e meno filosofo di quello cercato da Leopardi, un caro lettore e non l’amico con cui Tristano si giustifica. Considerazione, questa, che dà modo di discutere di genere letterario, ma, soprattutto, di costruzione del discorso e di strategie comunicative e argomentative, di cittadinanza, insomma, e di storia di essa, in una diacronia indispensabile per accrescere la consapevolezza degli strumenti su cui si sono fondate le nostre democrazie.

Entrambi gli autori dialogano con i liberali di Toscana dando voce ad aspetti diversi del processo di formazione dello stato nazionale, riflettendovi da prospettive differenti, benché entrambe “letterarie”. In una modalità, cioè, estranea alle regole e ai vincoli del discorso politico e ideologico, ma che ad esso non si sottrae, evidenziandone limiti e criticità, trasferendo sul piano dell’immaginazione le risposte alle questioni più dibattute: la storia come progresso indefinito, la felicità degli individui e la ricchezza delle nazioni, la dialettica fra potere e popolo, fra ideologia e cultura.

Il rilievo delle differenze fra prima e seconda edizione può essere utile, in entrambi i casi, per misurare l’evoluzione del dibattito o, meglio, il suo chiarirsi: sia Leopardi che Manzoni, infatti, inseriscono in coda alla seconda edizione aggiunte significative; l’uno i due dialoghi Del venditore di almanacchi e di un passeggiere e Di Tristano e un amico, l’altro la lunga appendice della Storia della colonna infame cui molti manuali stanno cominciando a dedicare un opportuno spazio. Il suggerimento di discutere del senso complessivo dell’opera a partire dalla sua chiusa, sia che si voglia “iniziare dal fondo” proponendone la lettura nella fase introduttiva al testo, sia che si pensi di riservare alle conclusioni un ruolo di ripensamento complessivo, ha una funzione duplice e illustra l’approccio filologico cui si è accennato: da un lato, infatti, sia l’epilogo di Tristano che l’appendice sulla Storia della colonna infame convocano gli interlocutori contemporanei, dichiarano i referenti polemici, le intenzioni e, in qualche misura, il movente immediato delle opere; dall’altro individuano temi e argomenti che sollecitano sviluppi ulteriori, si prestano ad attualizzazioni rispettose della lettera originaria e per questo capaci di proiezioni lunghe e di balzi in avanti. Un solo esempio, a partire dall’appendice manzoniana. 

Nell’introduzione allo speciale capitolo aggiuntivo che essa in qualche misura costituisce rispetto al romanzo, Manzoni giustifica così la scelta di riproporre un soggetto «già stato trattato da uno scrittore giustamente celebre (Osservazioni sulla tortura, di Pietro Verri)»:

dalla storia, per quanto possa essere succinta, d’un avvenimento complicato, d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d’un’utilità, se non così immediata, non meno reale. Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell’intento speciale, c’è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l’ignoranza de’ tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento[12].

Sul “balzo in avanti” bastano le osservazioni di Sciascia che riproponeva l’attualità della «non meno sdegnata [(rispetto a quella di Verri)] ma più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni, cattolico»[13]:

Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte. (p. 1069)

Parafrasando Manzoni, ad imputare tutto alla “barbarie dei tempi” si finisce per trarre dalla storia l’insegnamento dannoso che tutto è giustificabile, ciò che accade inevitabile e nessuna differenza passa fra vittime e carnefici, colpevoli e innocenti. Sciascia polemizzava con Nicolini e uno storicismo che esautorasse l’uomo interpretando il processo storico come «un fatto di natura, un terremoto, un nubifragio» e riportava ai suoi giorni e al nostro tempo il messaggio del Manzoni “moralista” con un ragionamento opportuno e ricco di spunti di discussione anche, e forse soprattutto, nelle classi di oggi, dove l’introduzione di Sciascia offre l’occasione per narrare un altro episodio di storia e letteratura, per farsi tappa intermedia nella fenomenologia dei burocrati del male le cui nuove incarnazioni sarà nostro compito svelare.


[1]Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2018 (20061), pp. 167-168.

[2]Come è noto Auerbach aveva anteposto Balzac a Stendhal nella capacità di applicare alle sue opere lo storicismo moderno di derivazione romantica. Ginzburg si propone di confutare l’interpretazione che Mimesis propone de Il rosso e il nero.

[3]Erich Auerbach, Mimesis, II, Torino, Einaudi, 1956, p. 220.

[4]Siamo nel capitolo ix della seconda parte del romanzo, “Il ballo”, e il conte di Altamira così commenta la felicità coniugale di una sua giovane sorella: «Il n’y a plus des passions véritables au xixe siècle; c’est pour cela que l’on s’ennuie tant en France» (Stendhal, Le rouge et le noir, in Idem, Oeuvres romanesques complètes, Paris, 2005, p. 614).

[5]Sulla necessità di proporre in classe letture integrali di opere della letteratura, si è molto discusso: spesso la pratica concreta rende assai difficile l’applicazione di questo suggerimento che si scontra con una modalità di fruizione dei testi da parte dei lettori contemporanei ben più veloce e parcellizzata di quanto la formazione tradizionale possa sopportare. Inoltre, benché la lettura integrale dei testi sia sempre vantaggiosa e da praticare ogni volta che sia possibile, è auspicabile avere un’idea ampia del panorama letterario europeo ed è quindi inevitabile l’utilizzo di passi significativi delle opere che possano dare agli studenti almeno un’idea dell’autore e del dibattito in corso.

[6]Alberto Casadei, Letteratura e controvalori. Critica e scritture nell’era del web, Roma, Donzelli, 2014, p. 185.

[7]Eric Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, (1990) trad. di Piero Arlorio, Torino, Einaudi, 1991.

[8] A proposito delle contraddittorie e inesatte auto-datazioni di Stendhal (1827 nell’Avvertimento e 1829 nell’auto-recensione) Ginzburg commenta: «le due date, entrambe inesatte, volevano suggerire ai lettori – e anche Auerbach si è fatto ingannare – che Il rosso e il nero fosse una rappresentazione puntuale della società francese sotto la Restaurazione. Puntuale lo era senza dubbio: ma le caratteristiche descritte erano destinate a prolungarsi ben al di là della loro localizzazione originaria, come Stendhal suggerì indirettamente in uno dei due sottotitoli de Il rosso e il nero: “Cronaca del diciannovesimo secolo”» (p. 174).

[9]I vantaggi di tale accostamento non si limitano all’aspetto della storicizzazione, ma permettono un contatto interessante con tipologie testuali diverse, secondo una prassi facilmente sperimentabile per i Canti leopardiani tradizionalmente introdotti dai passi corrispondenti dello Zibaldone o anche, e in maniera assai perspicua, dalla lettura di articoli contemporanei da cui essi presero spunto (penso all’accostamento, autorizzato dallo Zibaldone, del Canto di un pastore errante dell’Asia all’articolo etnografico sui Kirghisi apparso sul Journal des savans nel 1826). Un utile repertorio di materiali per quanto concerne Leopardi può essere la raccolta di lettere estratte dal carteggio Vieusseux Leopardi nel carteggio Vieusseux. Opinioni e giudizi dei contemporanei (1823-1837), a cura di E. Benucci, L. Melosi, D. Pulci, Firenze, Olschki, 2001.

[10]Interessanti e didatticamente utili in tal senso le riflessioni sulla scelta di illustrare la Quarantana dei Promessi sposi da parte di Manzoni. Un recente riepilogo della vicenda in Anna Cesaro, Appunti sulla testualità visiva dei Promessi sposi (1840-42), in La letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso dell’ADI -Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016), a cura di L. Battistini, V. Caputo, M. De Blasi, G. A. Liberti, P. Palomba, V. Panarella, A. Stabile,Roma,  Adi editore, 2018.

[11]Il confronto è fra la prima edizione (Milano, Stella 1827), che si concludeva con il “Dialogo di Timandro e Eleandro”, e l’edizione fiorentina (Firenze, Piatti, 1834) che aggiungeva in coda alle 20 operette dell’edizione precedente il “Dialogo di un venditore di almanacchi” e il “Dialogo di Tristano e di un amico”.

[12]Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, p. 750. Questa citazione, come la seguente, è tratta dall’edizione anastatica (Roma, Salerno editrice 2006) dell’originale Milano, Guglielmini e Redaelli, 1840-42.

[13] Leonardo Sciascia, I burocrati del male, Introduzione a Manzoni, Storia della colonna infame, Palermo, Sellerio, 1981, poi riedito in Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983 e, quindi, in Opere: 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Milano, Bompiani, 2003, edizione da cui si cita.

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