Cultura visiva e Transmedialità/ Sherry Turkle, antropologa della solitudine. Sei sguardi critici sul destino digitale (2)
Non ci sono risposte facili alla domanda se la rete sia un luogo in cui essere saggi e ponderati, dedicarsi alla vita e vivere senza rassegnazione. Ma è un buon punto di partenza per una conversazione, e ci porterà a chiederci se siano questi i valori in base ai quali giudichiamo la nostra vita; se lo sono, e se viviamo in una cultura tecnologica che non li supporta, come possiamo ricostruire quella cultura in modo da rispettare ciò che abbiamo davvero a cuore, cioè i nostri spazi sacri? Potremmo, per esempio, costruire una rete che tenga in giusta considerazione la riservatezza, riconoscendo che questa, così come l’informazione, sia fondamentale per la vita democratica?
Lezioni di metodo
La ricerca di Sherry Turkle sulla relazione fra innovazione tecnologica, scelte e valori delle persone e delle comunità è in corso da decenni. “Insieme ma soli” (“Alone togheter”, 2011) ne costituisce un approdo provvisorio ma molto significativo.
L’autrice raccoglie una mole impressionante di dati e informazioni, ricavate da più di vent’anni di conversazioni con gruppi e singoli interlocutori ed interlocutrici, negli ambienti più diversi (scuole e università, laboratori, seminari e convegni di varia natura, interviste, sedute terapeutiche). Nell’analisi di questa messe abbondantissima, sfaccettata e contraddittoria, di idee e sentimenti, adotta un approccio metodologico coerente con la sua formazione di psicologa analitica: privilegia un ascolto profondo ed empatico delle voci che le si presentano, cercando di metterne in luce gli aspetti più intimamente legati al carattere e alla fisionomia umana e culturale di ciascuna persona; non tende a darne una lettura risolutiva su un piano teorico, ma a consentire a chi parla (e a chi legge) di avvicinarsi a se stesso, anche lasciando emergere ambiguità e contraddizioni, spesso insite nelle affermazioni e nei pensieri riportati.
Turkle mostra apertamente di non essere interessata ad inserire la sua indagine psicologica e sociale nell’ambito delle cosiddette “scienze sperimentali” o “hard sciences”, come avviene sempre più spesso nella ricerca sociologica: non insegue quindi una presunta “esattezza statistica” dei dati raccolti, che consenta di dedurne conclusioni generali, universalmente valide. Al contrario, imposta il suo ragionamento come un discorso filosofico e antropologico aperto, perché fondato sulla fluidità di situazioni in divenire e sulla motivata soggettività del punto di vista adottato dalla ricercatrice. Evidenzia inoltre uno spiccata tendenza a smascherare il tentativo di ignorare dubbi e dilemmi etici, atteggiamento caratteristico di molte persone che accettano l’odierna condizione digitale senza domandarsi se potrebbe essere diversa, o chi ne stabilisca le regole.
In una simile postura critica è insita una prima lezione sulla quale riflettere: essa si fonda infatti sul rifiuto della visione tecnopolistica di cui scrive Neil Postman: un immaginario intellettuale in cui “un sapere preciso è preferibile a un sapere vero”, perché “il tecnopolio vuole risolvere una volta per tutte il dilemma della soggettività” (“Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia”, 1993 Bollati Boringhieri, pag. 145).
Della condizione digitale, la psicologa esplora due ambiti: la robotica sociale (robot di cura, assistenza e compagnia, interazione fra robot e umani) e l’universo relazionale della rete (interazioni comunicative, messaggistica istantanea, creazione di identità, appartenenza a gruppi e comunità).
Il suo percorso interpretativo affronta la domanda posta nel sottotitolo: “Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri”. Per ipotizzare una risposta, mette in relazione biunivoca il crescente senso di solitudine che deriva dall’immersione in apparati e strumenti tecnologici e la richiesta corrispondente di macchine robotiche dal volto umano che colmino il senso di isolamento, inscenando emozioni e sentimenti artificiali.
Riscrivere il senso delle parole, spostare i confini dell’umano
Turkle lavora a fondo sulla semantica, su come le esperienze robotiche e virtuali di incontro e di relazione modifichino profondamente il senso di molte delle parole che ci sono più familiari. Segue questo lavorio incessante soprattutto in tre campi.
Il primo ruota intorno all’annullamento della distanza fra animato e inanimato. L’autrice definisce “momento robotico” l’epoca in cui vive, caratterizzata dalla crescente diffusione di una “mitologia di robot benevoli”. La frontiera più avanzata di questo cambiamento mette concretamente in discussione il confine fra “animato” e “inanimato”. In uno scenario realistico, lontanissimo dalla dimensione finzionale (storie di creature plasmate da uno scienziato visionario o evocate da una guida religiosa) viene messa in crisi la distinzione fondamentale fra “biologico” e “meccanico”. “Persone” e “cose” tendono a confondersi, e questa ibridazione è diffusamente accettata, e da molti considerata auspicabile. Si compie un lento percorso che conduce da forme di intelligenza artificiale palesemente non umane (il cervello elettronico) a forme che riproducono tratti di umanità (robot con un volto che imita le espressioni umane), fino al sogno di una reale comunione biomeccanica.
Il secondo campo semantico è costituito dai termini con i quali parliamo di ciò che è autentico, vero, o al contrario finto, falso. La centralità della rappresentazione e della “finzione” di sé nel mondo, riconosciuta e studiata con un approccio analitico ben prima dell’avvento della dimensione robotica o di internet (il riferimento dell’autrice è Erving Goffman), acquista nella nuova realtà digitale un rilievo e un’influenza senza precedenti. Essa consiste infatti in tecnologie di rappresentazione, che riproducono e simulano situazioni e emozioni inautentiche. Questo è vero, secondo Turkle, in particolare per i robot. Tuttavia, è possibile che la comodità e il fascino esercitato da simili creazioni tecnologiche conduca a sostituire la rappresentazione di un legame al legame reale, alleggerendolo dal peso delle responsabilità, del dolore, della separazione. Esemplari di questo processo sono le idee di scomparsa, eliminazione, morte, sopravvivenza, resurrezione di cui la cultura digitale contemporanea tende a sfumare il significato, fino a concepire la sopravvivenza come trasferimento della memoria (dell’anima?) su un supporto elettronico.
Il terzo campo semantico nel quale le nostre parole e le nostre esperienze del mondo cambiano, e ci cambiano, è quello relativo alle idee di condivisione, famiglia, comunità, gruppo. In quest’ambito, la progressiva virtualizzazione delle relazioni (con se stessi come con altre persone) si accompagna al dominio di idee come “nomadismo”, “miscuglio esistenziale”, “simulazione”, e finisce per considerare negativo e limitante tutto ciò che è stabile, partecipato, duraturo.. La psicologa associa questa visione a un atteggiamento dominato dall’esigenza di sostituire alla condivisione lo sfogo egocentrico. In particolare, la rete costruisce “luoghi” mentali, per molti versi non più “fisici”, che proteggano dalla vulnerabilità e dall’imprevedibilità che caratterizzano i rapporti veri fra le persone.
Verso un mondo disumano?
In generale, secondo l’analisi di Turkle, questi processi di mutamento semantico e antropologico tendono a sostituire alla complessità dell’interiorità di donne e uomini, per certi aspetti inconoscibile, una rassicurante e prevedibile superficialità.
Nel cammino verso la semplificazione delle relazioni, ad esempio, ne ripudiano gli aspetti imprevedibili e complessi: in particolare, l’idea di responsabilità e quella di alterità.
Viene meno, in questo modo, l’obbligo morale di rispettare un altro, costruendo insieme il successo di un incontro e la soddisfazione delle reciproche richieste. Ad esempio, se accettiamo di affrontare i problemi legati all’assistenza delle persone anziane senza farcene carico direttamente ma affidandole a robot di cura (un processo già avanzato in diversi paesi, quando l’autrice scrive), entriamo in questa logica di rifiuto della responsabilità. Quest’uso della tecnologia è una manifestazione tipica del narcisismo: ci protegge dall’impegno personale, dal rischio di fallimento, dall’errore. Ma, chiedono ingenuamente a Sherry Turkle alcuni bambini di una classe elementare: “Non ci sono persone per questi lavori?”.
Nel campo della comunicazione digitale, dove prevalgono esigenze di quantità, velocità, controllo, la presenza fisica di un altro diventa elemento di ostacolo e complicazione. Si privilegiano invece conversazioni su più canali contemporaneamente, e forme di messaggistica che non implichino un impegno e un’attenzione costante (la telefonata, ad esempio, diventa in quest’ottica rara e faticosa).
Il rifiuto delle responsabilità, del rispetto dell’alterità si manifesta anche come disponibilità a considerare se stessi come oggetti. Secondo l’antropologa, è questo il significato più profondo della creazione di identità virtuali molteplici e sfaccettate, che in un suo libro precedente definiva “secondo io”. Con il concetto di itself, Turkle indica una ‘idea di se stessi come “cose”, un “sé” ibrido e perennemente proteiforme, disponibile a qualsiasi moltiplicazione e manipolazione si renda necessaria per abitare i mondi virtuali che la rete ci propone. Il concetto di mutlitasking, qualche anno fa esaltato come principale portato positivo della frequentazione compulsiva dei media elettronici, e oggi criticato per i danni che provoca sull’attenzione, è surclassato dal mutlilifing: le tante vite finzionali che creiamo e presentiamo a chi ci osserva vivere. La studiosa evidenzia il rischio che, accettando di “vivere per essere osservati”, si consideri normale l’idea di un’esistenza parziale, dipendente e eterodiretta, pur nella consolatoria illusione di essere padroni delle proprie “identità” e del proprio destino digitale. In passato, osserva, la psicologia aveva discusso il valore dell’idea di “moratoria psicosociale”, di cui Erik Erikson parlava a proposito degli adolescenti: un tempo in cui sperimentare identità diverse, senza conseguenze, in cerca di se stessi. Oggi, il potere della tecnologia fa passare l’idea che la vita intera di ciascuno possa trascorrere in continui adattamenti a modi sempre nuovi e diversi di apparire, sfuggendo alla fatica della coerenza e della responsabilità per rinascere ogni giorno.
Peraltro, quest’aspirazione è contraddetta da molti aspetti della condizione umana al tempo del dominio tecnologico: ad “una visione psicologica, persino spirituale, delle macchine” e del mondo virtuale si accompagna infatti una “visione meccanicistica degli esseri umani”, di cui i processi di “macchinizzazione del lavoro” sono la manifestazione più evidente. Non è difficile, scrive Turkle, accettare la necessità di robot sociali, in un mondo che chiede a noi per primi di “essere robotici”.
Immagini del futuro che stiamo vivendo
La riflessione della studiosa si appunta anche su alcune esperienze artistiche e culturali che riflettono in forme sorprendenti e eccezionali gli argomenti della sua ricerca: Pia Lindman, l’’artista contemporanea che cerca di superare il confine fra persone e cose, immaginando che immergersi nella natura di un robot (recitare la macchina fino a immedesimarsi con essa) le possa permettere di comprendere meglio la sua natura umana; Gordon Bell lo scienziato che vorrebbe trasformare la sua intera vita in un documentario, “ratificando” ogni singola esperienza vissuta attraverso foto e registrazioni di diversa natura.
Ma anche senza riferirsi a esperienze così uniche, per noi lettrici e lettori il libro di Sherry Turkle costituisce un’occasione unica per riflettere su una parte importante del nostro universo fantastico: l’immaginazione del futuro, il pensiero delle opportunità e dei pericoli che comporta.
Fra le righe, talvolta esplicitamente richiamati dall’autrice, circolano testi finzionali della più varia natura (letterari, filmici, televisivi, fumetti) che dell’immaginario contemporaneo, in particolare di quello giovanile, costituiscono parte fondamentale. Robot benevoli, creature biomeccaniche, macchine empatiche, replicanti, distopie elettroniche: “Wall E”, “Big hero six”, “Alita”, “Ghost in the shell”, “Artificial intelligence”, “Blade runner”, “Minority report”, “Westworld”.
La duplicità psicologica delle sensazioni e delle aspettative suscitate dal momento robotico e dal progressivo dominio della rete si traducono nella compresenza di due visioni: una logica e razionale, segnata da un ottimismo di fondo e da una piena fiducia nel controllo e nella regolazione esercitata dall’uomo sulla tecnologia; una conturbante, contraddittoria, segnata da profonda inquietudine rispetto alla futura piega degli eventi e dallo scetticismo rispetto alla volontà e capacità umana di controllarne il corso.
È il bivio che nella letteratura fantascientifica hanno disegnato con particolare maestria Isaac Asimov e Philip Dick. E che ha trovato di recente una nuova trascrizione narrativa nel bellissimo romanzo “Klara e il Sole”, del premio Nobel Kazuo Ishiguro.
Un suggello importante e commovente, per l’acutezza straordinaria dello sguardo antropologico di Sherry Turkle, e per la capacità della letteratura di cogliere le grandi questioni poste dalla realtà e di tentarne un’interpretazione.
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