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diretto da Romano Luperini

Cultura visiva e Transmedialità/ La prosecuzione della letteratura con altri mezzi

  Perché una rubrica su “cultura visiva e transmedialità”?

Nella sua storia, il nostro blog ha ospitato più volte interventi sul crescente influsso della dimensione visiva nella cultura contemporanea, dedicando uno spazio importante alla riflessione sulle nuove istanze e forme espressive che proliferano in quest’ambito. Il confronto su questi temi ha toccato aspetti diversi, e si è tradotto in una pluralità di voci e punti di vista, legati alle esperienze e alla formazione di redattori e redattrici: il caso più significativo, in tempi recenti, è costituito dal dialogo che si è aperto a partire dalla recensione della docuserie “Sanpa”. Nell’ambito della redazione, è quindi nata l’idea di ritagliare per la cultura visiva e la transmedialità uno spazio specifico, all’interno della sezione “Il Presente e noi”. In questo spazio affronteremo argomenti anche molto differenti fra loro, in forme articolate: recensioni di libri, film, serie e prodotti multimediali; brevi saggi critici; interviste ad esperti del settore. Attraverso la varietà dei temi e degli approcci perseguiremo alcune finalità condivise per comprendere a fondo il ruolo che visivo e transmediale giocano nella nostra vita personale e professionale.


Che quello trascorso da poco (il Ventesimo) sia stato il secolo del cinema, della sua progressiva emancipazione dalle altre arti, nel nome di un’autonomia che ha faticato non poco a conquistarsi, è dunque un fatto.

Come abbiamo già accennato precedentemente, uno dei vincoli più forti, fin da subito, è stato infatti senza dubbio quello nei confronti della pagina scritta, soprattutto verso quella forma particolare di letteratura che è il romanzo – ma non solo: basti pensare che il cinema, nei suoi primi anni di vita, si ridusse più volte a essere “teatro filmato” (nel senso anche letterale di riduzione dell’opera da cui veniva poi tratto il film), pur di vedersi riconosciuta una propria dignità artistica. D’altronde è risaputo lo scetticismo di noti scrittori quali ad esempio Marcel Proust o Luigi Pirandello nei confronti della settima arte, per quanto altri, come Guillaume Apollinaire, ne fossero invece entusiasti.

Insomma, nonostante le sperimentazioni delle avanguardie (che comunque molto dovevano a musica e pittura), il cinema non è mai stato “puro”, perché fin da subito ha dovuto convivere con tutto ciò che veniva prima e che aveva alle spalle una storia ben più lunga e una tradizione riconosciuta. Piuttosto, la sua grandezza – e lo comprese molto bene il critico e teorico André Bazin, che in un suo celebre saggio pubblicato nel libro Che cos’è il cinema? (Garzanti, 1979) parla di “cinema impuro” – è stata quella di riscoprirsi al tempo stesso come elemento di sintesi e moltiplicazione degli altri linguaggi. Il cinema li tiene insieme, e così facendo li fa entrare in risonanza e li assembla secondo nuove formule. A questo aspetto ha dedicato bellissime pagine il regista e teorico Sergej Ejzenštejn, che parla «drammaturgia della forma cinematografica», ovvero di organizzazione dei diversi piani espressivi intorno ai quali si costituisce il racconto del cinema.

Al di là di questa cornice di riferimento, mi sembra importante, nell’ottica di analizzare più da vicino i rapporti tra cinema e letteratura, fare qualche considerazione di carattere propedeutico.

Per cominciare bisogna premettere che il cinema influenza prepotentemente da tempo il modo di raccontare degli scrittori: non soltanto da un punto di vista stilistico – sia per i diversi stili di regia che per il peso sempre più grande concesso alle sceneggiature, soprattutto nel caso delle serie prodotte per la televisione – ma anche per via del confronto con l’immaginario creato nel tempo dai film, che chi scrive oggi non può pensare di ignorare. Alcune sequenze memorabili potrebbero essere citate all’interno di un romanzo senza neanche il bisogno di essere spiegate (sarebbe il caso di un personaggio colto nel momento in cui sta guardando un film, ad esempio), oppure potrebbero essere descritte – e qui sta uno dei punti di forza della letteratura – in modo da essere rielaborate e assorbite all’interno del flusso narrativo (per fare un altro esempio, potremmo pensare a un romanzo ambientato in una Roma che sembra uscita dai film di Fellini). Sarebbe interessante, in questo senso, l’esperimento di riscrittura di un film i cui elementi – visivi e sonori – dovessero passare al vaglio della parola scritta, diventando materia – non solo trama o riserva di situazioni e personaggi – del testo, che dovrebbe in un certo senso descrivere ciò che vede l’occhio. Si tratta in fondo di sposare proprio l’idea baziniana di impurità, intesa come risultato dello scambio intersemiotico  tra le arti, considerate come sistemi di rappresentazione e di segni diversi: l’immagine, il suono, la parola.

Per riprendere invece il filo del nostro discorso e tornare alla situazione per così dire più conosciuta – quella del passaggio dal libro al cinema – possiamo iniziare col precisare che quando un film è tratto da un testo di partenza (letterario o teatrale), si è soliti parlare di adattamento; termine che indica un’operazione di riposizionamento dell’originale in un altro spazio – e che comporta un mutamento di regole e di codici che hanno a che fare con i processi di trasposizione e traduzione. In particolare, la traduzione è sempre in qualche modo anche interpretazione, e dunque rispecchia l’intenzionalità di un autore “secondo” che può scegliere «di portare il lettore (o spettatore) a comprendere l’universo semiotico del testo di partenza o […] di trasformare il testo d’arrivo in vista dell’universo semiotico di ricezione» (sull’argomento si veda il saggio di Nicola Dusi Letteratura e cinema: tradurre le passioni, in Cinema e letteratura: percorsi di confine, curato da Ivelise Perniola e pubblicato da Marsilio nel 2002). La questione non è sempre così pacifica, poiché nel caso dei classici l’autore della trasposizione non può evitare di confrontarsi anche con un corpus di riletture, al punto da trovarsi nella condizione di confrontarsi con più “versioni” di uno stesso testo e con un numero imprecisabile di autori – e in questo processo non si può certo escludere, ad esempio, la funzione di mediazione della critica, e dunque le svariate modalità di ricezione di un testo.

Per avere a che fare con la letteratura, il cinema non è però costretto per forza a passare da un processo di adattamento del testo: può infatti accadere che un film citi un libro – pratica, questa, che era ad esempio molto diffusa tra i registi della Nouvelle Vague. Una citazione – ma anche l’allusione, che è sicuramente meno esplicita e presuppone di conseguenza uno spettatore più preparato – deve essere naturalmente colta da un interpretante, di cui viene per così dire “messa in movimento” l’attenzione (d’altronde citare significa proprio chiamare in causa, come c’insegna la terminologia giuridica). Un’attenzione che nel cinema deve essere ancora più vigile, poiché, come nota Antonio Costa nel saggio Nel corpo dell’immagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema (nel già citato Cinema e letteratura: percorsi di confine): «Il cinema cita spesso opere letterarie ma, a differenza di queste, non possiede le virgolette o meglio ne fa (ne può fare) abitualmente a meno».

Lo stesso Costa ci aiuta a chiarire la differenza ricorrendo all’esempio di Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, dove troviamo sì una citazione letterale da The Hollow Men del poeta T.S. Eliot letto da Marlon Brando, ma anche una citazione nascosta dello stesso testo – all’interno dello sproloquio del fotogiornalista interpretato da Denis Hopper – e una chiara allusione all’opera dell’autore americano in un’inquadratura che ci mostra due libri – From Ritual to Romance di J. Weston e The Golden Bough di J. Frazer – che vengono attestate dallo stesso Eliot come fonti del suo poemetto The Waste Land (1922). Tutte queste citazioni possono essere considerate al tempo stesso come materiali eterogenei tra gli altri all’interno del film – dal romanzo di Conrad alle canzoni dei Doors e alla musica di Wagner – ed elementi che ci danno delle indicazioni su una possibile chiave di lettura dell’opera – ad esempio l’aura “mitica” che avvolge lo scontro tra i personaggi di Kurtz e Willard.

In realtà esiste un modo di virgolettare anche al cinema, o che quanto meno sostituisce la funzione delle virgolette: lo ritroviamo in tutte quelle inquadrature in cui viene mostrata direttamente la fonte della citazione. È il caso ad esempio del film Fortini/Cani (1976) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, dove Franco Fortini viene ripreso mentre legge il suo testo; oppure, per rimanere nell’ambito del cinema francese, possiamo riscontrare questa tendenza nell’uso dei cartelli scritti, che sono uno dei tratti caratterizzanti della regia di Jean-Luc Godard. L’importanza accordata al processo di scrittura e al ruolo della parola nel cinema di Godard non si limita però a questa forma di citazione letterale – lo si può evincere dai titoli di tre lavori, tutti datati 1988, che suonano un po’ come una dichiarazione di poetica: Puissance de la parole, Le dernier mot, On s’est tous défilé. In particolare in quest’ultimo, che è un cortometraggio, è chiaro l’omaggio al poeta Mallarmé, soprattutto se consideriamo il sottotitolo della pellicola: Un coup de dé filé abolit toujours l’hazard. L’opera attiva quindi più piani di lettura proprio a partire dalle serie di associazioni create dallo stesso linguaggio, attraverso il montaggio della banda sonora e visiva. Lo stesso titolo, d’altronde, dà adito a più interpretazioni: potrebbe significare che qualcuno è scappato, ma non sappiamo chi – come prova a spiegare Jean-Louis Leutrat (si veda il saggio intitolato Potenza del linguaggio, nel già citato Cinema e letteratura: percorsi di confine), il pronome indefinito francese “on” potrebbe riferirsi alla Svizzera, rimasta neutrale durante l’evento bellico, alla quale rimanderebbero tanto le immagini relative al Giudizio Universale di Giotto, quanto l’uso di un brano sinfonico di Arthur Honneger, i cui genitori erano non a caso svizzeri.

Non è questo lo spazio adatto per addentrarsi in un’analisi approfondita dell’opera di Godard, ma l’esempio mi serviva per dimostrare quanti livelli d’interpretazione può attivare la citazione – che dunque, come ho sottolineato, è molto spesso sfumata e allusiva – e come essa possa rappresentare il presupposto per rielaborare i significati non solo di una singola opera, ma addirittura dell’intera poetica di un autore (nel caso citato Mallarmé).

È lo stesso Leutrat a ricordarci che «al cinema non si può parlare di immagine se non estendendo ulteriormente il significato di questa parola: un insieme complesso, in seno al quale il visivo occupa un posto la cui importanza varia di opera in opera; la ricezione di un film passa necessariamente attraverso una percezione indifferenziata del blocco-immagine, passa cioè attraverso quell’insieme in cui si trovano intessuti il verbale e il visivo.»

Tutte queste osservazioni, in sintesi, dovrebbero aiutarci a capire che il rapporto tra cinema e letteratura può svilupparsi su diversi piani e a liberare il cinema dal ruolo di mero riproduttore in immagini di un libro, molto spesso un bestseller, che grazie alla trasposizione moltiplica in modo esponenziale il numero delle copie vendute.

Concludendo con una citazione tratta dall’introduzione che Alessandro Zaccuri ha scritto per il libro Il cinema della crudeltà (a cura di Edoardo Bruno, Medusa edizioni 2017), si può dunque dire con André Bazin che «il cinema […] è la prosecuzione della letteratura con altri mezzi.»

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