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diretto da Romano Luperini

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Compiti di (ir)realtà. Praticabilità e senso della valutazione certificatoria nella scuola del primo ciclo

Compiti di realtà: cenni normativi

L’utilizzo dei compiti di realtà sta assumendo un peso sempre crescente nella didattica e nella valutazione degli istituti comprensivi. Si tratta, come noto, della risposta a indicazioni prescrittive da parte del Miur, contenute principalmente nelle Linee guida per la certificazione delle competenze, che si collocano in continuità con le Indicazioni nazionali per il primo ciclo. A queste, infatti, le Linee guida si richiamano esplicitamente, per sottolineare in primo luogo che «le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti [sic] pensati per individui medi non sono più adeguate» (Indicazioni nazionali) al mondo contemporaneo. Partendo da questa sostanziale svalutazione del lavoro del docente — che secondo i documenti normativi italiani non sarebbe in grado di fare altro che veicolare contenuti sclerotizzati per cittadini medi — le citate Linee guida individuano tre strumenti per la valutazione delle competenze: compiti di realtà, osservazioni sistematiche e autobiografie cognitive. Ciò soprattutto in funzione della compilazione della certificazione delle competenze chiave europee, che viene rilasciata agli studenti al termine del primo ciclo. In modo alquanto apodittico le Linee guida affermano anche che «è ormai condiviso a livello teorico che la competenza si possa accertare facendo ricorso a compiti di realtà» (p. 4), senza chiarire a quale orizzonte teorico si faccia riferimento, se non richiamando l’obiettivo 4 dell’Agenda 2030.

***

I compiti di realtà, se correttamente intesi, possono certamente essere strumenti utili, che le stesse Linee guida riconoscono essere parte della prassi didattica di molti docenti. Ma lungi dal rappresentare delle opzioni — che possono essere più o meno valide anche in rapporto alle caratteristiche specifiche dei gruppi classe, alla loro numerosità, ai livelli di partenza degli alunni — nei documenti ministeriali rappresentano uno dei perni della valutazione e rivestono una centralità tale da imporre alcune riflessioni.


Un paradigma pervasivo e ineludibile

La valutazione per competenze è il pendant di un progetto di didattica per competenze che, impostato nelle Indicazioni nazionali del 2012, continua a muovere passi sempre più decisi e veloci nella scuola del primo ciclo, senza che sulla definizione di questo nuovo paradigma, dato come ineludibile, si sia mai aperto un vero confronto a livello politico, per cui sostanzialmente non si è fatto altro che recepire acriticamente le raccomandazioni europee. Oltre alla sempre maggiore diffusione dei compiti di realtà, proprio in quest’ultimo anno scolastico — che di per sé avrebbe dovuto scoraggiare ogni tentativo in tal senso — l’insegnamento, per così dire esplicito, dell’educazione civica ha fatto il suo ingresso nella secondaria di primo e secondo grado, e lo ha fatto entro questo quadro dichiarato: «La trasversalità dell’insegnamento [dell’educazione civica] offre un paradigma di riferimento diverso da quello delle discipline. L’educazione civica, pertanto, supera i canoni di una tradizionale disciplina, assumendo più propriamente la valenza di matrice valoriale trasversale che va coniugata con le discipline di studio, per evitare superficiali e improduttive aggregazioni di contenuti teorici e per sviluppare processi di interconnessione tra saperi disciplinari ed extradisciplinari» (Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica). Che l’educazione civica si definisca anche come «matrice valoriale trasversale» è constatazione fin troppo ovvia, ci mancherebbe altro. Come da ciò si possa desumere di nuovo, con l’evidenza presunta della necessità, sempre lo stesso paradigma, è un tema che merita senz’altro una trattazione a sé stante.

La pervasività di questo modello si è estesa quest’anno anche alla valutazione disciplinare nella scuola primaria dove, nel silenzio pressoché generale, determinato anche dalle urgenze dovute alla pandemia e con il sostegno dei sindacati, si è realizzata una vera e propria rivoluzione copernicana — almeno all’apparenza — che ha portato alla formalizzazione della valutazione per competenze, preludio probabilmente a un’analoga, imminente ristrutturazione nella secondaria di primo grado. Del resto, ancora nelle Linee guida, si afferma che «le votazioni in decimi potrebbero corrispondere […] a “differenti livelli di apprendimento”, che richiedono di essere descritti nella loro progressione qualitativa”». Richiamando questo passaggio non si vuole certo esaltare l’attuale sistema di attribuzione dei voti numerici, semplicemente si vuole sottolineare che il progetto di una nuova didattica che sia costruita sul superamento (che di fatto significa scardinamento) dei saperi disciplinari è un progetto concreto, perseguito consapevolmente, e soprattutto considerato l’avanguardia dell’innovazione didattica, come mostra inequivocabilmente già solo la denominazione di uno dei più quotati progetti Indire, Oltre le discipline. Non basta, quindi, ripetere la formula che «non si dà competenza senza conoscenza» se poi, nei fatti, per tornare all’educazione civica, si fa riferimento solo a connessioni orizzontali, tra l’altro potenzialmente arbitrarie.

Una prassi difforme e nel complesso disfunzionale

Rispetto al consolidarsi di questo paradigma nei documenti normativi, occorre interrogarsi ormai con determinazione e senza infingimenti sulle conseguenze che esso ha prodotto e continua a produrre nella concretezza della didattica. A fronte del fatto che queste indicazioni hanno un carattere prescrittivo e che quindi gli istituti non si possono sottrarre, gli scenari che solitamente si delineano negli istituti sono tre. Soffermiamoci ancora su come vengono recepiti e realizzati i compiti di realtà.

Primo scenario: le indicazioni contenute nelle Linee Guida rispetto ai compiti di realtà vengono recepite come meri dati formali e come tali sono trattati. Ciò determina il precipitare nelle classi di una serie di attività sconnesse e disarticolate — interferenti — perché immotivate e incoerenti, con il solo scopo di evadere un adempimento burocratico. Si devono fare due compiti di realtà all’anno, si fanno. E tanto basta.

Secondo scenario: in altri casi la prassi può portare a semplificare, o peggio equivocare, indicazioni che sono già ambigue e aleatorie nel loro impianto, se riferite come si dovrebbe alle discipline di insegnamento, con il risultato di produrre attività che vengono percepite e propagandate come innovative, ma che risultano in realtà ugualmente sterili e improduttive.

Terzo scenario: in alcuni istituti, invece, indicazioni e linee guida vengono recepiti criticamente e si dibatte in modo sostanziale, battendo vie che spesso danno vita a sperimentazioni valide. Tuttavia si tratta pur sempre di rincorrere, per piegarlo, un paradigma che è imposto dall’alto per cui, per quanto lo si potrà curvare — e ammesso che ci si riesca — questo paradigma non potrà che essere funzionale agli obiettivi che gli sono intrinseci.

Compiti di realtà ed educazione linguistica: il ruolo delle conoscenze

Una riflessione condotta a partire da alcuni aspetti connessi all’educazione linguistica può probabilmente chiarire il complesso di equivoci e malintesi che si annidano nella apparentemente ingenua e pacifica definizione di “compito di realtà”, rispetto alle attività di scrittura.

Partiamo da una classe, precisamente dal laboratorio di scrittura di una classe prima. Consegna:

Le discussioni, purtroppo, fanno parte della vita ed è capitato a tutti di litigare persino con l’amica/o più cara/o. Scrivi un testo nel quale racconti di quella volta in cui hai litigato con un’amica o un amico. Il testo deve contenere il racconto dei fatti e, inoltre, devi spiegare anche come ti sei sentita/o tu, sia nel corso della lite sia successivamente, quali sono stati i tuoi pensieri e le tue emozioni e come si è risolta la situazione, se si è risolta. Soprattutto devi fornire un consiglio in virtù di ciò che hai imparato da questa storia. Se vorrai, infatti, il testo sarà pubblicato sul sito della tua scuola, in uno spazio dedicato alle esperienze dei ragazzi.     

La traccia è formulata per una classe prima della secondaria di primo grado, si colloca nel secondo quadrimestre. Il testo descrittivo è stato affrontato e si inizia a trattare il testo narrativo anche nella produzione, a partire dal racconto di esperienze personali, cercando di sollecitare l’espressione di sentimenti e riflessioni, entro la cornice narrativa del testo appunto. Dal punto di vista grammaticale si sollecita principalmente l’impiego in alternanza di alcuni tempi dell’indicativo (e in certa misura dell’imperativo), vale a dire delle forme verbali che può essere utile affrontare parallelamente alla trattazione dei testi narrativi. Si simula una determinata situazione comunicativa — il testo non è realmente destinato alla pubblicazione, anche se potrebbe esserlo — attraverso l’implicita sottolineatura di un possibile destinatario, in modo da favorire e orientare la produzione. Prima di iniziare a scrivere, la traccia può essere analizzata facendo individuare ai ragazzi la tipologia testuale prevalente e la situazione comunicativa nella quale si colloca il testo, distinguendo la tipologia dallo scopo ed evidenziando il destinatario, nonché gli elementi tematici che devono essere affrontati. La traccia, che all’apparenza assomiglia a molti compiti di realtà che iniziano ad affollare anche i manuali, recepisce in realtà le indicazioni del Documento di orientamento per la prova scritta di italiano del 2018 che, pur non avendo certo evaso tutte le questioni aperte sul tema, aveva però dato una spinta importante in due direzioni, intervenendo sulle prove conclusive del primo ciclo: considerare la competenza linguistica come competenza d’uso e porre l’accento sul fatto che la competenza nella lingua italiana non equivale alla competenza produttiva in forma scritta. Si veda l’esempio di traccia fornito da quel documento, rispetto alla tipologia A di prova, il testo narrativo:

Un ricordo che non si cancellerà mai dalla mia memoria. Sviluppa questo spunto in un racconto legato ad un episodio della vita scolastica che ti fa piacere ricordare. Il tuo racconto sarà letto durante una festa di fine d’anno e ha come scopo quello di condividere un’esperienza significativa e conservarne il ricordo.

È del tutto evidente che la coerenza di queste consegne può essere garantita esclusivamente dalla presenza di un modello linguistico-comunicativo di riferimento e dal fatto che i contenuti — testuali, grammaticali, tematici — siano ancorati a un seppur abbozzato sillabo sottostante, devono cioè riflettere una scansione consapevole dei contenuti di insegnamento, proprio in rapporto allo sviluppo atteso delle abilità. Come accennato, la prima delle consegne proposte può essere correttamente svolta se gli alunni hanno già affrontato lo studio del testo descrittivo e se sanno utilizzare l’imperfetto descrittivo, che possono qui impiegare per descrivere il loro stato d’animo, e così via. A garantire il buon funzionamento della consegna sono insomma le conoscenze linguistiche del docente, cioè della sua disciplina di insegnamento — la lingua italiana — e la sua capacità di riflettere su questi contenuti in modo critico. Se si sottraggono questi elementi alla traccia, il rischio è quello di formulare delle consegne che — pur simulando un contesto apparente e pur essendo definite come “compiti di realtà” — non attivano realmente alcuna funzione comunicativa e difficilmente eliciteranno contenuti adeguati. Lo studente, da parte sua, se non conosce i contenuti richiesti, produrrà testi narrativi incoerenti e di scarsa efficacia, come ben sanno tutti gli insegnanti che conoscono la difficoltà con cui gli alunni gestiscono l’alternanza dei tempi nei testi narrativi, per restare al solo aspetto grammaticale.

Realtà, autenticità e affidabilità della valutazione: uno sguardo alla certificazione delle lingue seconde

Nelle Linee Guida i compiti di realtà «si identificano nella richiesta rivolta allo studente di risolvere una situazione problematica, complessa e  nuova, quanto più possibile vicina al mondo reale, utilizzando conoscenze e abilità già acquisite e trasferendo procedure e condotte cognitive in contesti e ambiti di riferimento moderatamente diversi da quelli resi familiari dalla pratica didattica» (p. 8). A partire da questa definizione, come detto, si sta assistendo a un proliferare di compiti di realtà in molta manualistica scolastica. Restando all’educazione linguistica, l’elemento che più colpisce nello sfogliare alcuni repertori di presunti compiti di realtà nei libri di grammatica ad esempio (libri che paradossalmente però si presentano immutati nel loro impianto), è proprio la simulazione del contesto situazionale in cui si inserirebbe il testo sollecitato, anche se questo non necessariamente consente sempre di individuare la situazione comunicativa che si intende attivare. E tuttavia, anche laddove la definizione della situazione comunicativa è efficace, ciò non elimina un importante elemento di problematicità, sul quale è fondamentale riflettere, proprio in rapporto alla definizione stessa di “compito di realtà” e all’affidabilità che si riconosce nella valutazione a questo strumento, nei termini in cui viene definito. Se si riconsidera la prima traccia proposta nel paragrafo precedente, alla domanda posta dall’insegnante su quale sia la situazione comunicativa, gli alunni potrebbero legittimamente rispondere che la situazione concreta è quella dell’insegnante che chiede agli alunni di scrivere un testo, che si finge sarà pubblicato sul sito della scuola. La domanda che ne consegue è quindi: è sufficiente la simulazione di una situazione comunicativa — che si vuole presentare quindi come più autentica — anche ben congegnata per considerare il compito assegnato vicino “al mondo reale” e, in quanto tale, predittivo di una determinata competenza?

Il tema dell’autenticità dei testi è stato ampiamente dibattuto nell’ambito della didattica delle lingue seconde, sia in contesto formativo, sia nella valutazione certificatoria. I due principali centri di certificazione di italiano L2, il centro CILS e il centro CELI, ad esempio, sono approdati nel corso degli anni a esiti opposti rispetto a questo tema. Se, a titolo di esempio, si analizzano gli input per le prove di produzione scritta del livello B2 del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue nelle due certificazioni, si potrà osservare che a fronte di un input estremamente contestualizzato e ampio della certificazione CELI, tale da implicare fortemente anche l’abilità di comprensione del testo per un corretto svolgimento della produzione scritta, la CILS propone tracce estremamente brevi e rapide, senza alcun dato di contesto. Eppure entrambe le certificazioni somministrano prove che si considerano predittive di uno stesso livello di competenza, entro lo stesso orizzonte teorico. Ciò dipende proprio da che cosa si intende per autenticità di un compito (comunicativo), e quindi di un testo. L’importante è che le scelte siano fondate. Massimo Vedovelli ne parla diffusamente nella Guida all’italiano per stranieri, proprio in rapporto alla centralità del testo nel QCER, evidenziando come non è «il criterio del testo autentico a rappresentare la discriminante tra una buona e una cattiva glottodidattica, ma è la gestione delle caratteristiche di testualità che ogni testo comporta con sé a rappresentare tale salto di qualità». In altre parole, sono di nuovo le conoscenze linguistiche dei docenti a fare la differenza nella possibilità di strutturare prove valide, dal momento che il contesto educativo è a tutti gli effetti un dominio reale, dove si producono situazioni comunicative, testi autentici, interpretazioni. Si tratta di considerazioni che andrebbero tenute presenti anche nell’impiego dei compiti di realtà, per evitare semplicistiche equazioni tra abbondanza di dati di contesto e validità di una prova, appunto.

Va infine sottolineato che, per quanto riguarda le lingue seconde, la definizione dei sillabi, sia nella didattica sia nella certificazione, è sostenuta da decenni di studi di linguistica acquisizionale, che hanno potuto stabilire con certezza delle sequenze di acquisizione. Simili ricerche mancano per lo sviluppo dell’italiano L1, per cui gli insegnanti che non vogliano seguire la tassonomia classica nella trattazione dei contenuti strettamente linguistici, possono eventualmente provare ad abbozzare dei propri sillabi, sulla base degli elementi conoscitivi accumulati con l’esperienza.

Ma sono questioni, anche queste, di cui nessun documento sembra preoccuparsi.

Conclusioni

Se questa è la complessa situazione per quanto riguarda l’educazione linguistica, che si è deciso di affrontare proprio perché pertiene una delle otto competenze chiave europee, per le quali i compiti di realtà (come dal Miur definiti) sono individuati tra gli strumenti più affidabili di valutazione, gli interventi rischiano di essere ancora più aleatori nelle loro premesse per tutte le discipline coinvolte nelle restanti competenze chiave. Ciò che si vuole qui mettere in discussione, infatti, non è l’impiego di determinati strumenti, e in definitiva nemmeno la nozione di competenza, ma la pretesa di standardizzare l’impiego di determinati strumenti a fini certificatori. Già la semplice standardizzazione di prove aperte è una procedura estremamente complessa, che si fonda sull’affidabilità e l’accordo di coloro che valutano, in questo caso gli insegnanti. Eppure di questi temi non c’è alcuna traccia nei documenti ministeriali. Soprattutto, di là dalla praticabilità di ciò che con sorprendente faciloneria viene enunciato, bisognerebbe chiedersi se le istanze della scuola pubblica, specie nella fascia dell’istruzione obbligatoria, davvero debbano sovrapporsi a quelle di un centro di certificazione e svilupparsi quindi sotto la spinta di questa smania misuratoria. Perché? A cosa serve? Ci sono alternative?

Come si accennava in apertura, quindi, nella definizione e richiesta di utilizzo dei compiti di realtà, si annidano equivoci, malintesi, nodi cruciali non affrontati che, nel complesso, producono una situazione di sostanziale confusione, in cui le scuole inoltre agiscono in ordine sparso, con esiti difformi. A questo si somma l’azione combinata delle ore dedicate all’addestramento Invalsi, previsto in alcuni istituti nell’ora di approfondimento; i giorni dedicati alla somministrazione delle prove Invalsi; le prove parallele di istituto; le attività talvolta estemporanee di educazione civica. Tutto ciò sta avendo l’effetto di una vera e propria detonazione sulla didattica delle discipline. In questo quadro sempre più disarticolato, tutti i tentativi di assegnare il giusto peso alle conoscenze disciplinari entro i limiti normativi di un modello che apertamente va in senso contrario, rischiano di rendere velleitario ogni sforzo di sperimentazione, che potrebbe più produttivamente essere orientato in altre direzioni, se solo fosse un’opzione praticabile. Certo, resterebbe pur sempre la possibilità di costruire, almeno politicamente e ideologicamente, un orizzonte di senso e un paradigma alternativo a quello che talvolta disperatamente si tenta di raddrizzare, ma oggi più che mai è difficile parlarsi e perfino riconoscersi.

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