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diretto da Romano Luperini

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Dieci anni e scegliere Hitler per amico. Note a margine alla visione di Jo Jo Rabbit

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

[contiene spoiler]

Jojo Rabbit è un film che ti scava dentro e che fa riflettere, Taika Waititi si cimenta in un’operazione complessa: raccontare il nazionalsocialismo con gli occhi di un bambino che è dogmaticamente, fideisticamente, nazista. Non si tratta di un film per bambini o meglio non è un film che i bambini possano vedere da soli senza la mediazione dell’adulto, mediazione necessaria per comprendere il contesto, certamente, ma anche i simboli e il tono grottesco e surreale. Nulla viene, infatti, spiegato: eccoci dunque catapultati nella stanza di Johannes Betzler la mattina in cui parte per il suo addestramento nella Hitler youth, accompagnato dal suo amico immaginario, un Hitler cialtrone, su di giri e, a tratti, persino simpatico. Non esiste narrazione senza rottura dell’equilibrio e, nel bel mezzo dell’idilliaco clima degli addestramenti, all’apice della felicità di Jojo, ecco che si verifica un evento tragico, che ha le orecchie di un coniglio. La sua sicurezza, il suo coraggio, l’acritica adesione alla violenza del nazionalsocialismo sono messi in crisi dalla richiesta dei compagni più grandi di dimostrare la propria fedeltà e forza uccidendo un coniglio. Jojo lo prende in braccio, lo guarda negli occhi, lo riconosce, poi lo depone a terra e gli dice “scappa”: in un bailamme di azioni veloci, di cinepresa che si muove a scatti, la scena è volutamente rallentata e prefigura quello che Jojo farà dopo con Elsa. Il rifiuto di eseguire gli ordini lo classificherà agli occhi degli altri come un codardo, un coniglio e a nulla varrà l’impresa grottesca e assurda che gli imporrà Hitler: rubare e lanciare una granata che finirà per ferirlo e impedirgli di diventare un bambino guerriero. Quello strappo sulla perfezione del suo volto ariano sarà il pertugio attraverso il quale la sua vita cambierà, il primo tassello del suo personale romanzo di formazione.

Fa quello che può.

“Fa quello che può, ha fatto ciò che poteva.”

Questa frase torna come un mantra sulla bocca di tutti i personaggi del film: la ripete la madre parlando di sé e del padre, la ripete Elsa chiusa nella soffitta e la pronuncia  a mezza voce Jojo alla fine. Avere la possibilità di fare qualcosa implica anche avere la possibilità di non farla: avere la libertà di scegliere. È una frase che mai potrebbe pronunciare Hitler, l’amico immaginario caricaturale portato sulla scena da Taika Waikiki: per lui ogni azione è segnata dal dovere, dalla necessità.

Jojo ha dieci anni, è piccolo e insicuro, ha bisogno di una corazza: è convinto di essere un nazista, un ragazzo votato alle necessità del suo Führer, le sue certezze sono nel nazionalsocialismo. “Tu non sei un nazista, tu sei un bambino di dieci anni a cui piacciono le svastiche, le divise e i pugnali”, gli urla Elsa, la ragazza ebrea che la madre nasconde nella soffitta. Ed è grazie ad Elsa, all’incontro con l’altro, al riconoscimento dell’altro, che Jojo smetterà di essere nazista, di fare ciò che il partito gli chiede e sceglierà di non denunciare Elsa e di volerle bene. La salvezza per entrambi passa attraverso le farfalle nella pancia.

Jojo il coniglio

Jojo ha dieci anni, di lui sappiamo poco: ha una mamma, un papà che combatte in Italia e una sorella morta. Ma Jojo è soprattutto un piccolo nazista, fanatico al punto tale da avere Hitler come amico immaginario. L’Hitler con cui dialoga è grottesco ma non tragico, sembra una donnetta da avanspettacolo che si preoccupa di come gli stanno i vestiti, fa scenate di gelosie per il tempo che lui passa con Elsa, dà consigli non richiesti, corre, urla e strepita, indossa il copricapo indiano, perché amante dei romanzi western di Karl May, se ne sta sotto le coperte a scaldare il letto (“questo fanno i veri amici” dice a Jojo) e sgrana gli occhioni come un bambino sorpreso a rubare la marmellata.  Ma chi è questo Hitler immaginario? Il nazista che Jojo vorrebbe essere? L’adulto che si occupa di lui e che vorrebbe avere al fianco?  L’amico fidato che non lo lascia solo? L’immagine del dittatore che arringa le folle, incarnazione del male, viene completamente disinnescata: resta una specie di clown e non è chiaro quanto sia amico inventato o incarnazione dell’immagine di Hitler che ha il bambino.

Ma perché Jojo vive col culto di Hitler? Certo all’epoca non poteva essere diversamente ma, io credo, soprattutto perché è solo e perché ha intorno il caos. Mi colpisce che tutte le persone che lo circondano siano ambigue, complesse: la madre è assente, lo lascia tanto da solo, Elsa, almeno all’inizio, è aggressiva, violenta, non la ragazza spaventata che ti aspetteresti, il capitano Klenzendorf è folle e lo spinge a lanciare granate come fossero caramelle, gli altri ragazzi sono crudeli, il suo unico amico è impegnato a fare la guerra. Jojo cresce da solo, da solo comprende il mondo o prova a metterne insieme i pezzi.

Vestiti colori e farfalle

“Lascia che tutto ti accada bellezza e terrore: si deve sempre andare, nessun sentire è mai troppo lontano” questi versi di Rilke chiudono il film e ne sono chiave interpretativa. Rilke è anche il poeta preferito di Elsa, o meglio di Nathan il fidanzato di Elsa: la prima azione di umanità che fa Jojo nei confronti della ragazzina ebrea non è nutrirla, sfamarla, consolarla. E’ cercare nelle biblioteche le poesie di Rilke e comporre una falsa lettera di Nathan in cui le dice che la lascerà. Un’azione cattiva? Un’azione da bambino dispettoso? Un’azione che ci mostra l’universo dei sentimenti che si agitano nel cuore di Jojo: non sa dare un nome a quello che prova, è arrabbiato (per il papà lontano, la mamma sempre in giro, la sorella morta), deve trovare un nemico e ora che lo ha davanti da una parte vorrebbe punirlo ancora di più, dall’altro vorrebbe stringerlo forte. L’asse temporale in cui si svolge la vicenda è quello degli ultimi mesi di guerra, eppure solo nelle ultime immagini la città è ridotta a un cumolo di macerie; prima prevalgono i colori e la bellezza ben rappresentati da Rosie, la mamma di Jojo, una straordinaria Scarlett Johannson di cui colpiscono anzitutto il rosso scarlatto delle labbra e i vestiti che indossa: colorati, psichedelici e quasi di un’altra epoca, abiti che sono coordinati con quelli del figlio e non solo per l’identico pigiama. Rosie è una donna eccessiva e piena di vita, che lascia al figlio l’illusione di essere nazista, di essere un bambino come tutti gli altri in quegli anni terribili, ma che gli mostra come era la vita prima della dittatura e della guerra: le rive del fiume erano piene di innamorati, si ballava, si andava in bicicletta. E’ una madre che fa quello che può, che non perde mai la pazienza, che prova sempre a capire, ma è anche una donna che rinuncia ad educarlo a mostrargli ciò che è giusto e sbagliato, che lo lascia crescere da solo, che non impone il suo credo, forse anche perché teme che il figlio, ormai perso in nome dell’ideale nazista, la possa denunciare. Ama suo figlio, ma non si fida di lui. Si muove lieve come una farfalla, gioca a passare per civettuola e futile, mentre combatte la sua battaglia di resistenza. Ai colori della donna e della casa in cui vive con Jojo si oppongono il nero degli ufficiali della Gestapo e il grigio di una città in cui i volantini di propaganda, che ben aderivano al muro quando li attaccava Jojo, si stanno staccando piano piano.

I colori appartengono solo ai personaggi dotati di una certa umanità, alla natura e agli oggetti: al verde abbagliante della pianura, alle biciclette, ai pastelli, alla farfalla azzurra che si posa sul grigio del selciato. Nella città devastata dai bombardamenti ecco che si stagliano le piume della divisa del generale che va allo scontro finale con gli occhi bistrati e con il vestito da scena di una drag queen, finalmente libero di essere chi è.

Allacciare le scarpe

Jojo non sa allacciarsi le scarpe, la mamma di Jojo indossa bellissime scarpe colorate, Elsa porta scarpe azzurre, alla fine del film Jojo allaccia le scarpe a Elsa per ballare insieme in strada. C’è un film dentro il film attraverso le scarpe: oggetto simbolico, frequentemente in primo piano. Nel momento più struggente del film Jojo abbraccia le scarpe, riconosce le scarpe, dialoga con esse: è il momento in cui saluta l’infanzia e le sue illusioni e in cui prende consapevolezza dell’inganno di cui è vittima, il calcio con cui caccia Hitler fuori dalla finestra matura lì. Imparare ad allacciare le scarpe diventa per lui imparare a intessere legami liberi.

Musica e danza

La colonna sonora volutamente non segue la sequenza cronologica degli eventi narrati: la canzone con cui si apre il film è I want to hold your hand, dei Beatles, ma nella versione tedesca Komm, gib mir deine Hand registrata a Berlino nel 1964 in piena guerra fredda, la scena finale è invece affidata a Helden la versione tedesca di Heroes cantata da David Bowie nel 1977. L’addestramento militare nel campo della gioventù hitleriana è affidato a Tom Weits: I Don’t Want to grow up. La scelta di musiche moderne ci riporta all’intento di racconto grottesco e fantastico: la storia di Jojo non è legata a un periodo storico ben preciso, non è finita nel 1945, ma ci lancia un messaggio quanto mai attuale.

Proviamo a seguire il filo tematico di queste canzoni: la canzone dei Beatles, Komm, gib mir deine Hand, è una canzone d’amore, e quando ti tocco mi sento felice dentro/è una sensazione che, amore mio, /non riesco a nascondere dice. E’ esattamente quello che prova Jojo per Elsa, ma per toccarle la mano e ballare con lei dovrà riconoscerla come persona, dovrà smettere di vederla come un ebrea che ipnotizza le persone, succhia il sangue e vive di notte appesa al soffitto come un pipistrello.“Dove vivono gli ebrei?” chiede Jojo a Elsa, e lei risponde “Nella tua testa, vivono nella tua testa”

La canzone di Tom waits dont’ want grow up sembra proprio interpretare i sentimenti di Jojo:

“Non voglio crescere, non voglio essere riempito di dubbi, niente sembra mai andare bene come ti muovi in un mondo di nebbia”: la sua avventura di piccolo nazista è appunto fidarsi ciecamente, non pensare, eseguire, essere felice nelle scelte fatte da altri. Ma il dramma della vita è che mai ti fa fare quello che vuoi: crescere si deve crescere per forza, tutto sta a sapere come. Eccoci giunti alla scena finale: Elsa finalmente esce in strada, libera di danzare con le sue scarpe azzurre. Ballano entrambi sulle note di Helden di Bowie, sanno che non staranno mai insieme: “io ti amo, lo so che non possiamo stare insieme perché io sono per te come un fratellino” Jojo è cresciuto, ora sa chiamare le cose con il loro nome, non ha più bisogno di illusioni e sa che: “Li possiamo battere, solo per un giorno/Possiamo essere Eroi, solo per un giorno”

Ora lui ed Elsa possono “pede libero pulsanda tellus” lanciarsi in danze sfrenate, liberi finalmente, anche di crescere.

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