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diretto da Romano Luperini

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ROVESCIARE IL TAVOLO: Sul “trigger warning” e sull’ambiguità dei prodotti estetici

 

 La produzione artistica, ivi compresa quella letteraria, è sempre doppia, ambigua, polivalente; è progressista e insieme reazionaria, sia che a scrivere sia il fascista Céline o il comunista Brecht.

È reazionaria perché si colloca in una tradizione del privilegio estetico, destinato a una minoranza e incomprensibile, nei suoi significati più profondi, alla maggior parte dei potenziali lettori. L’arte presuppone una educazione, che non è di tutti, anzi, per sua natura, nella sua complessità è accessibile solo a pochi. Nella musica la cosa è di una evidenza palmare: la grande musica è riservata ai teatri e ai concerti nei quali lo stesso modo di vestire tramanda la storia di una selezione sociale che dura da secoli. Alle grandi masse spetta invece il Festival di San Remo.

È reazionaria perché accetta comunque, anche quando vuole contestarlo (è il caso della avanguardia), dei valori che presuppongono una possibilità di interiorizzazione e un tipo di vita inaccessibili ai più. D’altronde, da Dante a Pirandello, se avanza proposte politiche, può accadere spesso che siano francamente reazionarie (Dante, che scrive nella società comunale, era a favore dell’impero, Pirandello si iscrisse al partito fascista all’indomani del delitto Matteotti). E d’altronde l’Occidente ha allevato Beethoven ma anche gli scienziati che hanno scoperto l’atomica e collaborato a mandare in cenere due città giapponesi. Splendore e orrore fanno parimenti parte della sua storia.

E reazionaria perché fondata sul potere separato e quasi sacerdotale (dai mandarini ai maîtres à penser novecenteschi) di maschi che per secoli hanno avuto il controllo della scrittura, spesso proibendo alle donne di accedervi (la storia di Santa Caterina è da questo punto di vista esemplare). Sarò perciò chiaro sino alla brutalità: non si tratta di mettere più donne nei manuali di storia letteraria, che di necessità corrispondono a esigenze e valori di questa società e di questo predominio, ma di spiegare perché le donne ne sono state escluse per secoli. Un grande dirigente del movimento nero negli anni sessanta dichiarò: non voglio sedere al loro tavolo (quello dei bianchi) e dividere con loro le briciole che ci lasciano, ma rovesciare quel tavolo. Ma le femministe odierne preferiscono battersi per le quote rosa. (Cosa che forse potrebbe avere una qualche utilità se non facesse perlopiù dimenticare l’obiettivo di rovesciarlo, quel tavolo).

 

Il cosiddetto progresso è esso stesso ambiguo: per un verso inventa macchine e modi di vivere che favoriscono il benessere, dall’altro realizza questo risultato attraverso lo sfruttamento e le oppressioni di grandi masse in ogni continente, per cui questo stesso benessere finisce per fare più ricchi e potenti alcuni esponenti dei ceti dominanti, e più poveri, affamati e degradati interi popoli in almeno tre continenti.

Nello stesso tempo l’arte contiene indubbiamente una esigenza progressista, usa un linguaggio, anche se arduo, condiviso o condivisibile, e in fondo aspirerebbe a essere compresa da tutti (ha, dunque, e quasi suo malgrado, una vocazione democratica: l’artista vorrebbe che la sua opera avesse una funzione per tutti), e invia un messaggio complesso e stratificato che arricchisce la coscienza degli umani. Inoltre dà voce a un messaggio che è irriducibile alla lettera e alla razionalità quotidiana, è plurisignificante e contraddittorio, anche perché esprime un “ritorno del rimosso” che emerge dall’inconscio e dal represso e di cui perciò l’autore stesso non può avere piena coscienza. Fra il Pirandello fascista che scrive a Mussolini e l’autore delle grandi novelle degli anni trenta c’è indubbiamente un legame e una qualche continuità, ma è la discontinuità a prevalere largamente. Il primo è assolutamente irriducibile al secondo. E così Mort à crédit a Bagatelles pour un massacre.

Nel campo dell’arte e della letteratura sta all’interprete far prevalere l’uno o l’altro aspetto. In ogni grande autore può trovare argomenti sia per cacciarlo dalla società (come avrebbe voluto Platone), sia per salvarne e perpetuarne il messaggio nelle antologie scolastiche o nei musei. Il bravo insegnante compie questa operazione ogni giorno. Anzi, deve compierla; ma deve anche non aver paura di mostrare gli aspetti reazionari e la complessità del messaggio artistico, quando questi emergono chiaramente dalla lettura. “Via col vento” non è certo un capolavoro della letteratura mondiale, ma se viene pubblicato con un commento in cui l’interprete d’oggi ne contestualizza l’opera (non priva di qualche elemento di sapore razzista) non ci vedo niente di male. È quello che facciamo ogni giorno a scuola.

Lo stesso credo che valga per le statue. O sono opera d’arte o sono opera di celebrazione retorica di un regime. Il movimento antirazzista ha decapitato la statua di Colombo. Ha fatto male, perché Colombo rappresenta benissimo i due aspetti (reazionario e progressista) dello sviluppo storico dell’Occidente. Nello stesso tempo non posso ignorare che ogni movimento innovatore ha per prima cosa buttato giù i monumenti della classe dominante, visti come simboli della sua storia e del suo potere. Non per nulla dopo l’8 settembre il popolo italiano cominciò a buttare giù le statue di Mussolini, e si può capire che anche gli indios, schiavizzati e massacrati per secoli dai colonizzatori europei, non vedano di buon occhio Colombo.

Magari chi è stato schiavo per secoli prima o poi arriverà a capire il significato duplice della scoperta dell’America e preferirà mantenerne il ricordo e conservarne i simboli, anche per impedire che una storia simile si ripeta. Ma intanto spargere fiumi di lacrime per una mediocre statua decapitata da una folla affamata e disperata mi sembra il privilegio di chi osserva da lontano con la pancia piena.

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