La scuola ai tempi del Covid-19 /3
In questi giorni così strani per il Paese e la scuola, la nostra redazione sta ricevendo alcune testimonianze da colleghi di diverse parti d’Italia su diversi temi, tutti però ugualmente sollecitati dall’epidemia in corso. Abbiamo perciò deciso di pubblicarne alcuni. Se altri contributi dovessero arrivare dai nostri lettori e lettrici, continueremo la serie.
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La giusta distanza
Quando il 22 febbraio di un anno bisestile capisci al volo che qualcosa di grosso sta accadendo e ti ci trovi in mezzo, non puoi far altro che chiederti: «e adesso?!» Se poi il giorno dopo ti chiudono le scuole e tu non puoi più fare l’unica cosa che ti sei convinta dia pienezza alla tua esistenza, allora la domanda è «e adesso, che posso fare?!» E così cerchi aiuto tra i gruppi di docenti dei tuoi contatti Facebook, che in questo modo ha trovato anch’esso la sua ragion d’essere, e proponi a genitori, ragazze e ragazzi di “sperimentare” un modo per non interrompere il processo di apprendimento. Si va per tentativi nel trovare la piattaforma giusta; e intoppi con le infrastrutture casalinghe che «Prof., proprio non sono adeguate!» Finalmente ti ricordi che lavori in una scuola che qualche infrastruttura se l’è data negli anni e che i tuoi alunni hanno tutti una casella email G Suite; apri il confronto con la dirigenza, l’animatore digitale, altri colleghi e via che si va. Non da sola, che non avrebbe granché senso! Ma subito dopo t’imbatti in un’altra dispersione scolastica, che fa ancora più paura, ancor di più del coronavirus, ché ancora, quello, non era ben chiaro. In un primo momento assisti, un po’ impotente e inebetita, al traffico di carico-scarico-compiti su google classroom. Piano piano ci si rende conto che anche la più collaborativa delle pianticelle, se l’innaffi troppo muore e che lavorare su digitale, se comporta il triplo dello sforzo per i docenti, figuriamoci per giovani nativi digitali che fino a cinque minuti prima pensavano che la chat fosse solo la loro prateria sconfinata dove giocarsi la libertà “di fare quello che ci pare” e invece adesso … c’entra la scuola! In tutti i casi, grande accoglienza ed entusiasmo! Col passare dei giorni, si è dovuto emettere un “decreto di contenimento” dei compiti da svolgere. Più che un decreto, un appello. Andato a buon fine! E finalmente, si è arrivati a un’organizzazione che prevede 3 ore al giorno per i ragazzi e 6 ore a settimana on air per i docenti, più tutte quelle per preparare i materiali e spiccioli.
Le distanze cadono
Ma cos’è la didattica a distanza? Nella foga, sacrosanta, di offrire prontamente supporti formativi si continua a dire cosa NON è la didattica a distanza e si imparano così tante belle locuzioni per dirla diversamente. La più brutta in cui ci si può imbattere in questi giorni è “erogazione a distanza”. E uno si aspetta che a forza di escludere cosa non è, prima o poi perverrà all’essenza ultima della didattica a distanza. Ma intanto l’importante è esserci e ogni mattina si fa la conta di quanti si sono connessi. Nel frattempo si può notare che nella didattica a distanza (o chi per lei) le distanze, quelle di tutti i giorni, saltano: è necessario chiamare personalmente i dispersi, i desaparecidos del web, per recuperarli, provare a motivarli; come è necessario parlare di tanto in tanto con i genitori per capire come va e aggiustare il tiro. E così, il numero di cellulare che custodivi gelosamente, ora ce l’hanno tutti. Non solo. In un sol colpo ci si ritrova gli uni in casa degli altri, con tanto di rumori in sottofondo, ombre che si aggirano e suppellettili che chissà quante cose avrebbero da raccontare.
E non è possibile entrare in punta di piedi, quando si è in emergenza. Provo a recuperare chiedendo loro «Hai avuto delle preoccupazioni all’idea che la scuola sarebbe “entrata” a casa tua?» «Sì, prof. Perché ho tanti fratelli e in casa siamo in tanti, e avevo paura che i miei parenti e i miei fratellini piccoli avrebbero fatto troppo rumore, ma poi ho capito che si poteva disattivare il microfono e quindi mi sono sentita più tranquilla» (Arianna). «Ma no, prof. anche perché non c’è niente di strano da vedere» (Alessia). Altre distanze a cadere sono quelle tra le discipline. Evviva! Non si possono tenere i ragazzi connessi per 5 ore. Nemmeno per 4. Quante allora? Il giusto! Chi eliminiamo? Nessuno per carità!! E perché non provare ad affrontare in modo interdisciplinare o anche multidisciplinare qualche argomento e a condividere un’ora in un’unica stanza, virtuale? Comincio a intravedere quale senso può avere quell’idea che sento ripetere da più parti che, di necessità si fa virtù, il coronavirus forse è anche una bella opportunità. Ogni giorno cerco una parola chiave per avviare una riflessione (Rinuncia, Resilienza, Fragilità) o qualche verso per cominciare e, prima di spegnere le telecamere che, «prof. risparmio giga» (tutti!), ci salutiamo uno a una. Oscillo (ma non di più del solito, con più evidenza casomai) tra comportamentismo e costruttivismo, con qualche sprazzo di connettivismo, ma non riesco a essere contenta di me, quando mi ritrovo scaraventata in un mondo che non conosco. E’ necessario fare ogni volta delle scelte: quale metodologia è migliore per questo percorso? Flipped classroom, blended learning, webquest? Occorre programmare, condividere, confrontarsi! Però non è il momento di buttarsi nel grande gioco dei tools, meglio fare con quel che si ha in “dispensa”. Nella verifica degli apprendimenti mi ritrovo ancora dilaniata tra un approccio di supporto e uno di controllo. L’unica differenza con “prima”, anche in questo caso, è la riduzione della “distanza”: vogliono, e si capisce, feedback continui e ravvicinati, perché ne danno! E mi tocca metter voti! Ma cerco di accompagnarli ancor più da puntuali note di condivisione dei criteri e di “spiegazione”. «Che ne pensate dei voti? Come ci regoliamo?» «Io prof. ne ho bisogno, così ogni volta che faccio un lavoro capisco se sto andando nella direzione corretta o no” (Matteo) «Guarda che non puoi prendere più di 10!» (Federico) «Ma scusa, ma non lo sai da solo se stai facendo bene o no? Io per esempio lo so che non ce la sto mettendo tutta come quando andiamo a scuola!» (Sofia). «Matteo, ma può andare bene un feedback da parte mia che non sia un vero voto? O tutte le volte vuoi che annoti il voto? Sofia che ti succede? Perché ti senti così? Non hai ancora concluso il processo di adattamento a questa nuova situazione?» «Eh, mi sa!» «Non so prof., col voto forse mi è più chiaro.» «Ma scusi, prof. ma a lei che le costa metterci il voto?» (Lorenzo). «Niente, non mi costa niente, ma preferisco che vi soffermate su quello che vi dico, non sul numero che vi assegno».
La giusta distanza: l’ascolto
Insomma, quello che si capisce è ciò che si sapeva fin dall’inizio: la scuola a distanza, la scuola della giusta distanza, è quella dell’ascolto. E’ quella nella quale puoi sentire la voce dei ragazzi e delle ragazze che non ti hanno scelto, ma che si ritrovano ogni giorno con te e che hanno da dire la loro. Dopo tre settimane il famoso effetto wow! va scemando. Comincio a notare che non solo io accuso mal di testa e una stanchezza che non immaginavo, ma anche i ragazzi e le ragazze fanno fatica a organizzarsi a prendere un ritmo. «Ragazzi, ragazze, che difficoltà state riscontrando? Proviamo a fare il punto!» I microfoni si spalancano! «Prof. Io non riesco a concentrarmi!» «Può essere l’effetto “specchio”?» «No è che ricevo troppe notifiche!» (Angelica) «Io mi perdo, perché qua continua a cadere la linea» (Erik). Prestare attenzione a quello che succede intorno a te, quando sei in una stanza virtuale e quando parli e vedi la tua immagine riflessa sullo schermo non è un gioco da ragazzi: c’è un ciuffo fuori posto, uno sfondo poco ordinato, la cameretta è, o non è, quella dei tuoi sogni e così via. L’unica via che viene in soccorso è quella della consapevolezza. «Guardare distoglie attenzione. Proviamo ogni volta a tornare sul pezzo!» «Io prof. faccio fatica a organizzarmi con le scadenze dei compiti e poi mi accorgo che arrivo all’ultimo minuto e la qualità ne risente» (Alex). La qualità ne risente. Stenti a credere alle tue orecchie. Non avresti saputo focalizzare meglio la questione che ieri ti ha tormentato tutto il giorno. «Diamoci uno strumento! Costruiamo un time table. Ogni giorno nominiamo un referente, un re o regina della giornata che aggiorna il documento condiviso che ci aiuterà nell’organizzazione e nella gestione degli impegni, in modo da distribuire le proprie forze». Torna l’effetto wow. Bene! Alla fine, la percezione diffusa è positiva: grande impegno di tutti (docenti, alunni, famiglie), serietà e responsabilità. Ma la sensazione più frustrante di lavorare rivolti alla lavagna e con le spalle girate verso i ragazzi è quella che genera più fatica, ma che alla fine esorta ad accorciare le distanze.
«La mia famiglia è stata veramente orgogliosa di questa innovazione perché, sia mia madre sia mio padre non avevano mai visto una cosa del genere e quando hanno saputo che avremmo comunque continuato a lavorare da casa sono stati molto contenti. Mi hanno fatto molte domande su come funziona questo strumento, per proporlo anche al lavoro.» (Francesca)
«Sicuramente è molto più ”comodo” poter lavorare da casa, ma mi manca la classe e i banchi in modo fisico e poi dà ancora di più un’idea di isolamento». (Adua)
«Sin dalle elementari ho voluto fare lezioni così, l’ho sempre proposto a docenti, dato che viaggio molto e non voglio perdere troppe lezioni. Finalmente posso farlo e mi piace molto. È molto utile e comodo». (Katia, la ritardataria incallita)
«Secondo me è meglio svolgere le lezioni a scuola ma con quello che sta succedendo in questi giorni non si può non fare niente.» (Federico)
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